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La degradazione dell'amore a libido riflette la corruzione spirituale dell'Occidente

di Francesco Lamendola - 06/05/2009


L'idea che una data società elabora dell'amore è la cartina al tornasole del suo stato di salute spirituale; in essa si riflette, senza trucco e sena inganno, ciò che gli esseri umani pensano di sé stessi, della loro relazione reciproca, della propria aspirazione al bene o, comunque, a qualcosa che trascenda il dato immediato della coscienza.
La civiltà greca vedeva l'amore essenzialmente come Eros, come desiderio; e, inoltre, come mancanza, povertà, bisogno, dai quali - come dice Platone - l'anima inizia la sua ricerca di qualche cosa che la soddisfi e che la sazi, che spenga la sua sete ardente, che appaghi il suo desiderio più profondo: quello di ritrovare l'armonia originaria, smarrita nel mondo terreno. Accanto all'Eros c'è, poi, la Filia, l'amicizia profonda che lega due esseri umani in vista del bene comune, sulla quale particolarmente si sofferma la riflessione morale Aristotele.
La civiltà cristiana vedeva l'amore autentico come Agàpe - che, in genere, si traduce con Carità -, ossia come pienezza e come perfezione, che si realizzano nella ricerca disinteressata del bene per l'altro: sentimento puro, spirituale, senza il quale ogni altra virtù diventa inerte e sostanzialmente inutile. Soprattutto, sentimento che presuppone un terzo elemento, oltre all'amante e all'amato: Dio, supremo ispiratore del sentimento stesso e garante della sua purezza.
"Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna", ammonisce san Paolo (1 Corinzi, 13, 1 sgg.). E aggiunge: "E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla". Per poi concludere: "Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte,la più grande è la carità!".
E la società odierna, come vede l'amore? Come lo definisce, come lo concepisce?
Sarebbe difficile, a questo proposito, sopravvalutare l'influenza che ha esercitato il cattivo maestro Freud; anche se è certamente vero che non lui ha stabilito il concetto dell'amore moderno, ma che la sua filosofia è il risultato di un cammino involutivo che parte da lontano e che rimonta a parecchi secoli prima che il fondatore della psicanalisi  bandisse il suo nuovo Anti-Vangelo, in base al quale  l'amore non è altro che Libido, impulso brutale di natura sessuale, vergognoso ed intessuto di istinti egualmente vergognosi, quali il desiderio di omicidio a danno del proprio padre e quello di incesto con il corpo della propria madre.
Se è vero che una società riflette la sua essenza spirituale nelle idee che decide di adottare e nelle immagini che esse evocano alla coscienza, allora bisogna dire che la società moderna (compresa quella post-moderna, che ne è la diretta prosecuzione), non solo non crede nell'amore come sentimento capace di migliorare e nobilitare la natura umana, ma che lo vede come una pulsione distruttiva e autodistruttiva (il binomio Eros-Thanatos), che solo per una ipocrita convenzione borghese si suole ingentilire con i fiori della poesia, e solo per la tutela dell'ordine sociale si incanala entro manifestazioni formalmente accettabili, ferma restando la sua essenza indicibilmente sporca e indomabilmente selvaggia.
In breve, per Freud siamo tutti, più o meno, malati di nevrosi, perché le istituzioni sociali - legittimamente, dal loro punto di vista - non ci consentono di sfogare a pieno il magma ribollente dei nostri appetiti sessuali, che sono una girandola infernale di sadismo, masochismo, omosessualità, necrofilia e ogni altra possibile perversione. Non esiste amore che si salvi, non esiste amore puro: anche quello del genitore per il figlio, o quello del figlio per il genitore, non è che amore sessuale travestito, essenzialmente cieco e incontrollabile.
Nel suo saggio "Introduzione al narcisismo", del 1914 (traduzione italiana Torino, Boringhieri, p. 461), Freud testualmente scrive:

"L'amore parentale, così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita; tramutato in amore oggettuale,  esso rivela senza infingimenti la sua vera natura".

Lo hanno chiamato, in genere con una sfumatura di stupita ammirazione, il terzo grande "maestro del sospetto" (dopo Marx e Nietzsche), e questo brevissimo brano di prosa ne è un esempio significativo: che cosa gli dà il diritto di affermare che, "in fondo", l'amore dei genitori per il figlio non è altro che un travestimento del loro narcisismo?
Eppure questo modo di procedere è piaciuto; hanno proclamato che Freud è un grande scienziato, e perfino un grande filosofo; e, ovunque, si sente ripetere la litania secondo cui dovremmo ringraziare il Cielo che un simile maestro del sospetto sia venuto a squarciare il velo della nostra ipocrisia e a rivelarci la vera natura delle nostre pulsioni, a cominciare dall'amore.
Del resto, di che cosa dovremmo meravigliarsi? Non aveva già proclamato Darwin che l'uomo non è che un animale evoluto a caso, in mezzo ad altri animali evoluti a caso e nati dal caso? Che cosa potrebbe esservi di spirituale, di gentile, di generoso in lui, se non sotto il velo ingannevole dell'ipocrisia e della finzione?
E non aveva già Machiavelli proclamato che l'uomo è una creatura malvagia, della quale è impossibile fidarsi, perché non conosce che l'ingratitudine e il tradimento? E che agire verso di esso con umanità e lealtà è fatica sprecata, anzi, è una somma ingenuità e un errore pericolosissimo, perché egli non esiterà un attimo, per quanto beneficato, a rivolgersi contro il suo benefattore, a colpirlo alle spalle?
E Hobbes non aveva proclamato che l'uomo è un lupo per gli altri uomini?
Quale meraviglia, dunque, se Sartre arriverà ad annunciare che l'unico rapporto "naturale" tra gli esseri umani è quello dell'inimicizia, e che gli altri sono il nostro Inferno quotidiano?

Scrive Battista Mondin nel volume "L'uomo: chi è? Elementi di antropologia filosofica" (Milano, Editrice Massimo, 1977, pp. 149-50):

"Il progresso delle scienze fisico-matematiche nell'età moderna demolisce il mito greco dell'Eros, motore del mondo, e vi sostituisce le leggi della meccanica e della dinamica; inoltre l'affermazione dell'autonomia delle filosofia rispetto alla fede e alla teologia porta a ignorare la Caritas cristiana, molla fondamentale della vita spirituale: il suo posto viene preso dal dovere, dalla giustizia, dall'eguaglianza,  dalla tolleranza e, per alcuni, addirittura dalla forza e dalla potenza. A partire da Hobbes e da Spinoza l'amore è una passione che va studiata con lo stesso rigore scientifico con cui si studiano i fenomeni fisici e le figure geometriche, e rientra perciò nei quadri di una sistematica razionale. Svincolato da qualsiasi premessa metafisica o teologica, l'amore è ricondotto al suo oggetto particolare immediato, alla sensazione e all'idea corrispondente (Spinoza); individuato nell'uomo  l'impulso istintivo (il "desiderio") al proprio benessere concreto ed individuale, quale condizione naturale di tutte le passioni, l'amore è visto in relazione con un complesso sensibile che appare buono in quella data circostanza e suscita quel sentimento con una necessità naturale (Hobbes).
Con Freud l'amore riprende il suo posto di impulso fondamentale di tutto ciò che l'uomo pensa e fa; ma non è più concepito come l'Eros platonico, essenzialmente orientato verso il Bene, né come la Caritas cristiana, partecipe dell'amore divino; ma semplicemente come istinto fisiologico, come passione sessuale, come pura Libido. Freud, demolendo qualsiasi impalcatura metafisico-religiosa,  vede nei diversi aspetti dell'amore (eros platonico, caritas cristiana, amore filiale, ecc.) degenerazioni o sublimazioni dell'impulso sessuale originario.
Nell'esistenzialismo ateo di J. P.Sartre anche l'amore perde ogni significato: disancorato l'uomo dall'universo, da Dio e dall'umanità, l'amore non ha nessun fondamento metafisico né un terreno oggettivo, ma si ripiega vanamente su sé stesso. L'altro non è mai un amico da amare e neppure un eguale da rispettare, è semplicemente un rivale, un nemico da odiare ed eliminare. . Perciò, a parere di Sartre, le relazioni umane non portano che alla sopraffazione: : "gli altri sono il nostro inferno" ("l'enfer c'est les autres")."

Beninteso, vi sono anche posizione diverse da queste; ad esempio quelle di Blondel e di Marcel, le quali, rifacendosi al cristianesimo, invitano a vedere nell'amore anzitutto l'apertura verso la dimensione trascendente; ma non sono mai divenute patrimonio della cultura dominante, né  espressione di un sentimento generale.
La cultura oggi dominante ha fatto proprie le posizioni di Freud, di Sartre e di Cioran; e il sentimento generale vede nell'amore una pulsione sessuale diretta unicamente al soddisfacimento di un piacere fisico, tutt'al più abbellito da qualche fronzolo letterario che lo renda socialmente accettabile. Carnalità ed egoismo ne sono considerati i tratti fondamentali; ogni visione spirituale dell'amore è, al contrario, ridicolizzata e denigrata sistematicamente, come se scaturisse da un astuto artificio o da una volontà d'inganno deliberato.
La decadenza del concetto di amore si è attuata in tre tempi: dapprima esso è stato messo da parte e si è cercato di sostituirlo con quello di dovere, come in Kant, o con la triade libertà, eguaglianza, fraternità, cara alla Rivoluzione Francese; indi, con Freud e la psicanalisi, lo si è preso d'assalto in maniera esplicita, degradandolo a mero istinto sessuale; infine, si è negata la sua possibilità, teorica e pratica, e si è proclamato il nuovo Vangelo dell'inimicizia, dell'odio e dell'eterna, irriducibile conflittualità tra gli esseri umani, quale unica forma di relazione interpersonale.
Attualmente ci troviamo nella terza e ultima fase, con l'aggravante di una massiccia invasione della tecnica, che tende a sostituirsi alle relazioni umane (i nuovi barbari sono le macchine, diceva Italo Calvino); e, tranne alcune voci isolate, che non fanno presa sulla massa, le parole d'ordine oggi dominanti sono piuttosto ispirate all'odio, o quanto meno all'indifferenza, e alla sistematica denigrazione e derisione dell'amore come ricerca disinteressata del bene dell'altro.
Né crediamo sia un caso che, proprio nel momento in cui, con l'affermarsi della modernità, tramontavano definitivamente il concetto cristiano dell'amore come carità e il concetto greco dell'amore come ricerca del Bene, si sia cominciato a fare una vera e propria apologia dell'amore come passione sfrenata e potenzialmente distruttiva, ciò che né i Greci, né i cristiani si erano mai sognati di fare (cfr., in proposito, i nostri precedenti saggi: "L'amore passionale, un'invenzione della modernità?"; e "Francesco Petrarca e lo spirito della modernità", entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice).
È come se, nel momento in cui la civiltà occidentale prendeva congedo dall'amore come tensione dell'anima verso qualcosa di grande e trascendente, capace di nobilitarla e trasfigurarla, si sia sentita l'esigenza di colmare il vuoto spirituale che così veniva a crearsi, e si sia fabbricato il mito dell'amore passionale, ad uso e consumo di un pubblico rimasto orfano di valori ed in cerca di emozioni forti, con cui sostituirli.
Il futuro?
Non potrà portarci nulla di buono, se non saremo capaci di recuperare la dimensione spirituale dell'amore e di restituirgli la sua funzione di trampolino dell'anima verso verità più alte e dimensioni più rarefatte di quelle della pura sensualità.
Ma, per fare questo, è necessario che, prima, siamo in grado di ritrovare la smarrita immagine di noi stessi, ossia la nozione di persona, così come Boezio l'aveva stupendamente definita, millecinquecento anni fa, accendendo un faro che avrebbe indicato la via a generazioni e generazioni d'uomin,i nei mari talvolta procellosi della vita: "Persona est rationalis naturae individua substantia", ossia: "La persona è una sostanza individuale di natura ragionevole".