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Il Matto dei Tarocchi

di Emilio Michele Fairendelli - 09/05/2009

I Premessa

Nel mio ultimo articolo riportavo un responso oracolare dell’I King da me ottenuto tempo addietro e riguardante un altro uomo, P., una persona che mi è molto cara e con la quale ho condiviso parte della mia infanzia.
Un uomo viene colpito da un tumore maligno, un sarcoma, alla radice della coscia sinistra, all’età di quattordici anni.
La coscia viene svuotata dai linfonodi e dalle fibre muscolari, la cobaltoterapia segna per sempre la pelle.
L’uomo sopravvive, contro ogni probabilità.
Per tutta la vita, l’uomo ha difficoltà ad accettare la lesione fisica e il suo linguaggio, di sfregio e minaccia incombente. Egli prova vergogna per il proprio corpo, per l’egoismo e la povertà del suo sentire rivolto solo a se stesso, teme la recidiva e la morte.
La sua luce interiore diminuisce, così come l’ampiezza del suo cuore e la sua libertà, egli non sa dare nulla nemmeno a chi lo ama, ogni speranza pare perduta.
Si interroga l’Oracolo: 36, Ming I, l’Ottenebramento della luce (la lesione).
Si ottiene 6 al secondo posto:

L’ottenebramento della luce (la lesione) lo ferisce alla coscia sinistra.
Egli offre aiuto con la potenza di un cavallo.
Salute.

Si osserva qui, incidentalmente, una corrispondenza assoluta tra situazione reale e sentenza: la lesione alla coscia sinistra.
La coscia sinistra è spesso individuata come una delle porte del corpo verso lo sconosciuto, il profondo, quella parte dello spirituale che ha a che fare con la materia e la sua gravità, le sue colpe in conoscibili, verso la forza distruttiva - in quel luogo dove la via sinistra, la via antidivina, è così vicina - dell’inconscio: Dioniso nasce una seconda volta dalla coscia lacerata di Zeus, il cane di Phersu, il Genio del Destino nella Tomba degli Auguri azzanna l’uomo alla coscia sinistra, così, sul lato interno della coscia sinistra, è ferito il Matto dei Tarocchi.
La ferita non costituisce che un impedimento, sebbene sia richiesto l’aiuto offerto dalla “potenza di un cavallo”. La salvezza è possibile, il luminoso solo velato, la reintegrazione della persona non preclusa.
La riga saliente determina l’esagramma 11, Tai, la Pace.
La situazione viene compresa, è indicato un possibile approdo del sentire.
Il Destino e le circostanze del tempo lavorano quanto e più di noi per trasformare le cose, per distillarne la Verità: qualche settimana fa, poco dopo la pubblicazione online dell’articolo, ricevo da P. una lettera.
Vive ora in un altro paese.
Mi scrive di noi e di un tempo trascorso, del responso ottenuto quel giorno narrandomi un episodio singolare che vi rimanda.
Sono stato tentato di riportare integralmente la lettera, ma mi limiterò a riassumerla.
In un caffè di una città europea, durante un viaggio P. incontra, in circostanze del tutto casuali, un uomo.
E’ un professore di storia presso l’università locale, un uomo alto e elegante, all’apparenza assai benestante.
Trascorre le giornate al caffè, leggendo, scrivendo, facendo le carte a cameriere curiose, intimorite e adoranti.
Tra lui e P., seduto a un tavolo non distante, inizia quel gioco degli occhi che, sempre, indica la consonanza di due Anime.
Presto conversano.
L’uomo chiede a P. se intende “guardare un poco dentro le cose”.
P. acconsente.
L’uomo mostra un mazzo di carte, che paiono più grandi del normale, dal dorso miniato di un colore come vibrante.
Estrae una carta, lo zero, il Matto.
P. la osserva: un giullare dal turbante e dalla giubba multicolori, una cintura d’oro divisa in placche alla vita, un fagotto appeso a un bastone sulla spalla, avanza su un sentiero.

Giordano Berti, Storia dei Tarocchi

Giordano Berti, Storia dei Tarocchi

Il suo sguardo azzurro è perso verso l’alto, come in una trance.
Un cane, nero e saettante, lo azzanna da dietro, alla radice della coscia sinistra: del sangue sgorga abbondante, la terra, che è fiorita da qualcosa di simile ad un giglio, se ne imbeve.
L’uomo chiede a P. se comprende che si tratta di lui e se davvero vuole entrare nel senso ultimo di quello che vede: ordina da bere, brindano alla Verità, conduce P. a casa sua dove lo ammaestra su molte cose.
Il vero centro di tutto questo ha natura troppo intima, possiede una voce e una forza misteriose destinate solo a P.
Non può essere riferito.
L’intera storia permette tuttavia una riflessione sulla figura del Matto nei Tarocchi, figura incidentalmente già apparsa nel precedente articolo.
Per il lettore curioso, per chi crede che le storie e le parole siano sempre in cerca di noi per poterci salvare e condurre altrove e che l’incontro con loro sia una grazia possibile, il locale dove P. incontra l’uomo è la birreria storica Caru cu Bere di Bucarest.
Cerco di immaginare, di vedere attraverso quanto P. mi scrive: la birreria è uno dei locali più antichi della città ma gli interni sono stati rinnovati di recente, circolano atroci menu lucidi con americanerie miste a piatti locali, i camerieri hanno divise da fast food.
Un angolo del locale, tra due pareti, è stato lasciato per i turisti come era prima del restauro:un pavimento a quadri di marmo verde, consumati dalla vita di moltitudini che ora non sono più, una esausta boiserie di legno scuro di certo più vecchia di un secolo, una pittura stinta coronata, poco al di sotto dell’inizio del soffitto a volte, da una greca con motivi floreali, volute intrecciate, spirali…
Lì, ad un tavolo, un uomo attende…

II Il Matto

Nulla sappiamo dei Tarocchi originali. Eliphas Lévi li immagina come carte di origine ebraica riproducenti i Theraphim, cioè i simboli ideografici e geroglifici attraverso i quali i sacerdoti di Gerusalemme interrogavano gli oracoli; a favore di questa tesi giocano diversi elementi, numerici (la corrispondenza dei 22 Arcani Maggiori con le lettere dell’alfabeto ebraico) e formali.
Un’origine dei Tarocchi originali nell’antico Egitto non è precisamente documentata, ma Israele è uscita, un tempo, da Mizraim e vi è chi ha scritto come una sapienza antica avesse individuato nel popolo di Mosè il veicolo ideale per preservare, alzare sull’umanità quanto era già contenuto nel monoteismo solare egizio e non poteva in quel luogo e in quella forma resistere a nuovi tempi: il culto dell’una e suprema Luce, il Divino.
Nelle carte rinascimentali giunte sino a noi contempliamo un adattamento di
simboli ideografici di un linguaggio non più comunicabile, il loro piegarsi verso la figurazione e le infinite contaminazioni che ne conseguono quale unico modo per poter sopravvivere, pagando il prezzo di una incalcolabile perdita di potere.
Uno dei testi più completi in argomento è I Tarocchi di Oswald Wirth.
Ho sempre ritenuto Wirth, anche nei suoi contributi di divulgazione massonica, poco più che un ottimo compilatore.
Il testo fornisce tutto quanto occorre sapere sui Tarocchi, ma nella parte libera, l’interpretazione degli Arcani Maggiori, Wirth sbaglia a mio parere in molti punti e particolarmente trattando il Matto.
Le corrispondenze individuate nel suo lavoro (alfabetiche, sefirotiche, astrologiche, alchemiche, solo alcune un poco forzate) sono analizzate con verità e precisione ma non aiutano in modo completo a rispondere alla domanda centrale, relativa al Matto e alla sua Verità.
Torniamo ora per un attimo in quel locale di Bucarest.
Passiamo la soglia che è tracciata a terra, tra due pavimenti, quello nuovo e l’antico fatto di riquadri di marmo dalle giunture sconnesse, forse tra due tempi, avviciniamoci a quel tavolo.
Accettiamo come P. l’invito a “guardare un poco dentro le cose”, riceviamo Il Matto, guardiamo la carta smaltata:

Il numero

Il numero del Matto è lo zero, ma è indicato come il ventiduesimo ed ultimo Arcano Maggiore.
Egli sta ad un tempo dopo Il Mondo, al ventunesimo posto, e prima del Bagatto, il grande illusionista, l’organizzatore di Maya. Lo zero, cerchio vuoto senza punto centrale, è il
simbolo dell’allume, il sale alchemico dei filosofi, ciò che è prima della formazione e dopo la dissoluzione di ogni realtà materiale, il Nulla che è Tutto.
Il Matto è dunque e dichiaratamente la figura centrale del sistema e non è possibile, come fa Wirth - che ha probabilmente in mente Massoni di buoni costumi e moralmente perfettibili - ridurlo ad una realtà psicologica con cui nulla ha a che fare.

Il sentiero

Fernanda Nosenzo Spagnolo, I tarocchi

Fernanda Nosenzo Spagnolo, I tarocchi

La caduta figurativa dei Theraphim genera una contaminazione infinita, l’immagine del Matto circola in un serie numerosa di varianti storiche: noi dobbiamo comprenderle, scommettere sulla loro verità, accettarne alcune e rifiutarne altre.
Il Matto percorre un sentiero, di cui nulla sappiamo se non che esiste, ed è una Via.
L’immagine di confusi cespugli fioriti, o di un fiore a campana (un tulipano?) esausto e tuttavia ancora vivo e colorato in corrispondenza del Matto, là dove il suo sangue imbeve il suolo è ricorrente e fondamentale: nel luogo dove lui ora è, dove è ferito, dove presto non sarà più perché il suo cammino continua, avviene comunque qualcosa.
L’”inesistenza intellettuale e morale” del Matto, la sua “incoscienza ed irresponsabilità” , il suo non sapere chi essere e dove andare postulati da Wirth sono solo psicologismi, non contano, non esistono, non colgono il centro: egli produce frutti, qualunque essi siano proprio dove il suo essere viandante ferito incontra il tempo, la terra.
P. ricorda nella carta che gli viene mostrata il fiore al suolo come un giglio od un loto: fosse questa l’immagine che precede ogni altra nel gioco delle contaminazioni?

Il cane

Il Matto è azzannato alla radice della coscia sinistra, come l’uomo incappucciato che viene attaccato dal cane nero di Phersu nella Tomba degli Auguri.
La coscia sinistra è spesso individuata come una delle porte del corpo verso lo sconosciuto, il profondo, quella parte dello spirituale che ha a che fare con la materia e la sua gravità, le sue colpe profonde e ben aldilà di qualsiasi psicologismo e la sua possibilità di Redenzione, verso la forza distruttiva, in quel luogo dove la via sinistra, la via antidivina, è così vicina, dei piani inconsci e mentali.
La coscia di Zues genera Dioniso lacerandosi.
In alcune figure derivate Il Matto è azzannato al polpaccio, mentre egli deve essere colpito alla coscia, vicino al centro sessuale, al luogo che la Sephirah Yesod (Fondamento e Verità) occupa nel corpo umano, nel vortice del chakra Muladhara, il chakra che governa il rapporto tra Anima e mondo materiale.
L’animale che lo attacca non può che essere un cane, animale demoniaco e insieme psichicamente schiavo dell’uomo e per lui pronto, senza requie, ad ogni cosa.
La trasformazione del cane in lince o felino (la cui rapidità parla di una punizione immediata, la cui vista acuta contrasta con la presunta cecità, il viso alle nuvole, del Matto, e sa vedere le colpe da lui incarnate e il nulla del destino che lo attende) non è che un impoverimento, un adattamento ad una lettura di tipo psicologico dell’Arcano.

La figura

Il Matto indossa una giubba ed un turbante multicolori, iridescenti.
Tutto lo vive e lo attraversa, niente lo ferma e lo definisce, portare tutto questo è un destino.
La cintura dorata a placche è normalmente intesa come la collana dell’insieme dei
simboli zodiacali che cinge la vita del Matto determinandone l’apertura ad ogni influsso, lo smarrimento, la follia.
In alcune figure più recenti e spurie la collana zodiacale è tra le mani del Matto e viene srotolata e ostesa senza contatto con il suo corpo come a dire: ecco la mia follia, essa sta nell’influsso di tutte le stelle.
Io credo sia possibile un’altra lettura della cinta d’oro, credo che essa debba intendersi come il residuo simbolico e figurativo, fissatosi poi nel tempo in semplice collana zodiacale - per la facilità di corrispondenza con una lettura psicologica dell’Arcano, per l’impossibilità di mantenere compiutamente una immagine così estrema e così perduta - di uno scudo magico, simile a quello degli Urim e Thummim del pettorale del Sommo Sacerdote di Gerusalemme.
Pietre di luce cangiante stavano incastonate sulle dodici placche del pettorale del Sommo Sacerdote; poi, forse dalla prima distruzione del Tempio, vi furono incisi i Theraphim.
Come il fiore ancora vivo al suolo testimonia che il Matto è dispensatore di Spirito, la cinta profetica, il suo pettorale, ci dice che egli può vedere ciò che gli altri non vedono, intuire ciò che va compiuto.
Una cintura puramente zodiacale non potrebbe avere questa collocazione; le stelle ed i loro
simboli non possono toccare il corpo umano, parlano ed influenzano dal cielo, il loro ingresso nell’umano avviene dall’alto e nella distanza con un effetto quasi proporzionale a questa; quando l’iconografia del Matto è centrata su questo tema, come già detto, la cintura è infatti allontanata dal corpo, tenuta con entrambe le mani e ostesa verso l’alto.
E’ cosa d’oro, la cosa più preziosa che il Matto, vestito di stracci e semiscalzo, possieda.
E’ lo Spirito.
L’altro bene posseduto è contenuto nel sacco appeso al bastone.
Perché è così piccolo e cosa vi si trova? Vi si trovano i beni spirituali: il bastone che lo porta è infatti simbolicamente di colore azzurro. E’ così piccolo perché ogni grammo di tali beni non può che essere raccolto a prezzi enormi.
Il bastone che porta il sacco, nella quasi totalità delle rappresentazioni, è appoggiato sulla spalla opposta al braccio e alla mano che lo tengono, innaturalmente.
Il camminare è così più difficile, impedito, sbilenco, la postura da folli.
Il senso è chiaro: non solo trovare e conservare questi beni, che sono l’unica cosa che il Matto ritiene di dover portare con sé oltre al potere della cinta profetica, è fatica lunga e dolorosa: anche riuscire a portarli con sé nel cammino è impresa gravosissima.
Il Matto, lontano da ogni semplificazione, da ogni normalizzazione, splende così nella sua Verità e continua il suo cammino.
Questo non terminerà che alla fine del tempo, nell’istante in cui la Manifestazione trasmuterà.