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Che ne è di una persona dopo che l'ala dell'Assoluto l'ha sfiorata?

di Francesco Lamendola - 15/05/2009



Uno degli interrogativi più appassionanti, per chi abbia qualche curiosità filosofica intorno alla natura dell'uomo e al contesto esistenziale in cui si svolge la sua parabola, è quello relativo alle conseguenze che una grande esperienza interiore, diciamo una illuminazione, genera nella coscienza e nel seguito della sua vita.
Ai lettori di romanzi edificanti e agli spettatori di film romantici piacerebbe immaginare che quello stato di grazia, quella perfetta armonia, quella magica sospensione tra cielo e terra, dureranno per sempre e illumineranno ogni giorno e ogni ora della vita di quel fortunato essere umano; ma sappiamo bene che non è così - o, almeno, che non lo è nella grande maggioranza dei casi.
Già Alessandro Manzoni, nella conclusione del suo romanzo - conclusione in tono minore, come è stato detto e ridetto - gettava una salutare secchiata d'acqua fredda sugli ardenti bollori dei romantici a oltranza, i quali s'immaginano che, una volta raggiunte le vette di un sentimento totale come l'amore, l'animo umano non possa mai più scivolare nella monotonia quotidiana e nel grigiore delle cose di sempre.
Si obietterà che quella di Renzo e Lucia non è stata un'esperienza sublime, un'esperienza dell'Assoluto; ma chi può dirlo? Chi può escludere che l'amore profondo, puro, per giunta lungamente contrastato e finalmente appagato, non possa generare uno stato di estasi della coscienza, molto simile all'illuminazione mistica? Forse che solo chi ha letto numerosi libri e meditato su innumerevoli Mandala, può essere in grado di aprire la propria coscienza al terzo occhio, alla verità interiore, allo stato di identificazione con l'Assoluto?
D'altra parte, una grande esperienza interiore non è, necessariamente, un'esperienza mistica in senso stretto; essa può scaturire anche da un atto creativo, come la composizione di un'opera d'arte o di un brano musicale; oppure da uno strepitoso successo sportivo, specialmente se frutto di una metodica e appassionata preparazione; o, ancora, da una ascensione alpina, da una scoperta geografica, da una ardita navigazione in mari lontani e pericolosi. Può anche trattarsi di un'azione eroica compiuta in guerra, con totale sprezzo della morte; oppure, ancora, di una situazione di estremo pericolo, magari affrontata per salvare o proteggere qualcun altro.
Ma per non procedere in modo troppo teorico, facciamo un esempio concreto.
L'8 febbraio 1973, dopo una navigazione audacissima nei mari più deserti e burrascosi del mondo, un catamarano dotato di motore ausiliario, l'«Anneliese», riusciva a doppiare il Capo Horn e ad entrare nell'Atlantico meridionale, dopo essere salpato da Sydney nel dicembre precedente: prima imbarcazione del suo genere a compiere una tale impresa. A bordo c'erano due giovani sposi, Rosie e Colin Swale, e i loro due bambini ancora piccolissimi.
Solo chi abbia qualche nozione di navigazione oceanica, specialmente a vela, può immaginare che cosa rappresenti il passaggio di Capo Horn dopo aver traversato tutto il Pacifico meridionale lungo i  «quaranta ruggenti» (di latitudine Sud) e i «cinquanta fischianti»: qualche cosa che confina col mito, e dove decine e decine di navi hanno pagato col naufragio l'audacia di aver sfidato quell'estremo bastione roccioso del Sud America, proteso verso le gelide e procellose solitudine antartiche.
La protagonista di quella notevole impresa, una ex modella di riviste pornografiche, poteva essere giustamente fiera di sé per aver creduto nel successo, contro tutte le previsioni e affrontando un notevole rischio personale.
Le pagine in cui descrive la traversata del Sud Pacifico verso l’Atlantico serbano ancora l’eco dei marosi, degli incessanti venti di tempesta, del salmastro che si insinua ovunque, della stanchezza per i turni massacranti al timone; e delineano il quadro di una esperienza non solo sportiva, ma anche interiore, che indubbiamente presenta alcune analogie con l’estasi mistica.
Dal libro di Rosie e Colin Swale «30.000 miglia di oceano» (titolo originale: «Children of Cape Horn», London, Paul Elek, 1974; traduzione italiana di Lucia Pontorieri, Milano, Casa Editrice Bietti, 1974, pp. 302-306):

«Il vento veniva ora leggermente da est. Il sole, una sbarra dorata con raggi, tramontava mentre procedevamo a motore stretti di bolina attorno a quella che in certo qual modo era la fine del mondo. Mentre accostavamo a Isla Gonzalo e al suo "entourage" di scogli [nell'arcipelago delle Islas Ildefonso, all'estremità meridionale del Sud America], la vista ci ricompensava di ogni lungo miglio percorso nel Sud Pacifico. Non avremmo mai pensato che queste isole potessero essere belle o che ci fossero degli esseri viventi.
Circa venti dei più grossi albatros che avessimo mai visto spiccarono il volo dagli scogli e volarono intorno agli alberi  dell'"Anneliese", mentre sotto di loro, nell'acqua gelida, delfini antartici bianchi e neri saltavano e giocavano introno agli scafi. Poco dopo, una foca baffuta, il cittadino più meridionale del Sud America, venne a nuoto a salutarci. Eve e Jimmy non stavano più nella pelle dall'eccitazione, e noi trovavamo piuttosto difficile controllarci a nostra volta. Era altrettanto difficile apparire sani di mente o coerenti, mentre tentavamo di registrare le nostre impressioni sul magnetofono e sul Diari di bordo.
Nell'avvicinarci, potemmo constatare che tutti gli scogli erano affollati di uccelli marini disposti in file, che ci guardavano. Gli scogli erano neri, con un accenno di verde brillante; avevano forme fantastiche. Sembravano l'opera di qualche scultore eccentrico, esposta in una galleria d'arte oceanica,. Uno scoglio aveva la forma di un'enorme campana emergente dal mare. Un altro sembrava un vitello disteso; un altri un leone accucciato. Lo scoglio vicino a noi ci ricordava lo squisito dolce di Natale di un gentile amico australiano, che ancora conservavamo per un'occasione veramente speciale.
Un mare selvaggio si aggrappava alla base di alcuni scogli, levando in alto enormi lembi di schiuma bianca che salivano per pochi secondi e poi precipitavano di nuovo. Il bianco scompariva a poco a poco come l'acqua si ritirava.
Grugniti di leoni marini, fischi di delfini e d'albatros emergevano dall'oscurità mentre io davo il cambio a Colin, tre ore più tardi. Orami eravamo circa 15 miglia a est delle isole Diego Ramirez. Il vento veniva ancora da sud-est, ed era piuttosto burrascoso; procedevamo a una velocità di circa 5 nodi. Sopra di noi c'era il mondo, sotto di noi il ghiaccio. Avevamo raggiunto il punto più meridionale dell'intero viaggio. Un'ora più tardi mollai le scotte e l'"Anneliese" procedette su una rotta leggermente diretta a nord, per l prima volta dopo 25.000 miglia.
Capo Horn era a sole 45 miglia di distanza e l'"Anneliese" e una corrente sconosciuta ci stavano portando sempre più vicino. Sentivo ancora che arrivare fin lì era come tentare di portare una tazza di tè alle labbra sopra una barchetta in un uragano. Prima del mattino sarebbero potute accadere tante cose. Sobbalzavo nervosamente ogni volta che un delfino urtava la barca. Continuavo a proiettare fuori la luce della lampada Aldis per scoprire eventuali iceberg. Terzaruolai la vela maestra al minimo segno di bufera. La luna se n'era andata ed era buio pesto. Penso di essere apparsa un po' strana a Colin quando venne per darmi il cambio.
Colin mi svegliò poco dopo l'alba. Pareva che avesse bevuto un cocktail a base di eccitazione, paura e sollievo, a stomaco vuoto e in piena stanchezza. Balzai fuori del sacco a pelo: i bambini erano già sul pozzetto.
"Mamma, mamma, guarda!" gridava Eve.
Fuori, chiaramente delineato contro il cielo dell'alba, a circa 20 miglia di distanza, c'era l'isola del Capo Horn. Era enorme, maestosa, scura, inconfondibile. A ciascun lato di essa potevo scorgere il gruppo delle Lower Hermite e le isole Wollaston. Dietro c'era un'alta montagna che si ergeva in lontananza con un ghiacciaio che le brillava in cima come una corona. L'avremmo sorpassata in un paio d'ore. Pensai: "Ben fatto, Anneliese, ben fatto, Anneliese!".
"È una buona barca…in porto!" aveva detto qualcuno, una volta.
Colin e io ci abbracciamo attraverso gli spessi strati di vestiario, poi tirammo fuori dalle sentine la bottiglia di champagne invecchiato tre mesi e brindammo all'"Anneliese" e a noi stessi. Perfino James Mario ne ebbe un sorso. Quindi andai a preparare la colazione celebrativa con quanto rimaneva del prosciutto in scatola e dei fagioli, e misi a riscaldare il dolce di Natale per il pranzo!
Mezz'ora più tardi, accadde la cosa più strana di tutto il viaggio. Qui, proprio a Capo Horn. Il vento, improvvisamente, calò. L'"Anneliese" si dondolava pacificamente nell'acqua limpida color verde scuro. Non avevamo abbastanza combustibile per procedere a motore nel passaggio di Drake fino alle Isole Falkland, e non avevamo abbastanza vele… a meno di non issare lo "spinnaker", eravamo abbonacciati!
Ci risuonarono nelle orecchie gli echi delle bufere delle ultime settimane, avvertendoci di uscire da questa parte del mondo prima che fosse troppo tardi. Ma non c'era nulla che potessimo fare in questa calma tediosa. Il mostro che per tanto tempo avevamo temuto si stava dimostrando di una gentilezza insospettata. Capo Horn era generoso con noi. Eravamo stati bloccati dove, di solito, il tempo non consente indugi alle imbarcazioni.
Guardammo e guardammo, tentando di saturare la mente di questo luogo che, lo sapevamo, non avremmo mai più rivisto in simili condizioni. Ci sembrava di guardare una parte proibita del mondo, un posto dove non dovrebbero esserci degli esseri umani.
Era meno sinistro e terribile, e tuttavia ancora più maestoso di quello che avevamo immaginato. C'era una visibilità perfetta. Prendemmo le macchine fotografiche e scattammo il maggior numero possibile di fotografie. Colin si sporse fuori bordo a poppa, fino a raggiungere il timone automatico, e ritirò delle lunghe alghe filamentose bruno-giallastre, con le quali i bambini si divertivano a giocare. Avevano delle vesciche d'aria grosse come pere, a bordi piatti. Ospitavano tutta una fauna di bestioline e crostacei.
Accendemmo la radio per l'appuntamento delle 13,30 con le isole Falkland e, come al solito, tentammo di rispondere alla loro chiamata. L'antenna di riserva non era altrettanto efficiente di quella in cima all'albero. Ci stavamo abituando al fatto che nessuno ci potesse ricevere.
Improvvisamente l'operatore esclamò: "Roger, Roger!". Ce l'avevamo fatta! Eravamo al traverso di Capo Horn, e perla prima volta, dopo mesi, eravamo in contatto con il mondo esterno. Che gioia comunicare ancora una volta con una voce inglese!
Verso mezzogiorno dei nuvoloni forieri di tempesta ricominciarono ad ammassarsi intorno a Capo Horn, e 5 ore più tardi la famiglia di isole e promontori di Horn - Falso Capo Horn, Gruppo Wollaston, Isla Decepciòn, monumenti funebri per quelli che erano stati meno fortunati di noi ed erano periti nel tentativo - svanirono in lontananza mentre un vivace vento da nord ci trascinava via. Il gigante di Capo Horn, alto circa 430 metri, rimaneva in vista e somigliava sempre di più alla sua fotografia sulla carta, finché non superammo le 40 miglia di distanza.»

Ci si potrebbe immaginare che un essere umano, dopo aver vissuto una esperienza così intensa ed esaltante, come quella di domare la furia scatenata della natura e di osare una rotta da molti considerata impossibile, subisca - per così dire - un fenomeno di trasfigurazione interiore; che la sua vita, dopo di allora, non debba essere mai più la stessa di prima, poiché essa è stata sfiorata dall’ala inquietante e formidabile dell’Assoluto.
Il fatto che Rosie Pope sia stata protagonista di una tale impresa in compagnia del marito e dei loro due figlioletti, suggerisce che ella sia stata coinvolta in tale esperienza anche nelle regioni superiori della maternità e dell’amore coniugale, poiché si è trovata a condividere con la propria famigliola le emozioni più profonde, le paure e le gioie più grandi.
Le cronache, ahimé, smentiscono una tale aspettativa e ci dicono che proprio lei ha mostrato il peggio di cui un essere umano può essere capace. Negli anni Ottanta, infatti, è stata coinvolta in un processo per aver tentato di assassinare Colin, il suo primo marito: una storiaccia condita con ingredienti piccanti e in parte lugubri, quali la gelosia, l’omosessualità - per la partecipazione di una sua amante lesbica al truce progetto - e, addirittura, la stregoneria.
Eppure, questa donna strana e imprevedibile è riuscita a risalire la china e a tornare alla ribalta delle cronache, fra il 2003 e il 2008, per un’altra impresa sportiva notevolissima, resa ancor più eccezionale dalla sua età non più verde: il giro a piedi del mondo, attraverso Europa, Asia e Nord America, e consumando qualcosa come una sessantina di paia di scarpe. È stata la prima donna a compiere un simile «tour de force», concludendolo a sessant'anni passati.
Quest’ultimo «exploit», comunque (a parte l’inossidabilità del personaggio) esce dal quadro della nostra riflessione. Quel che ci interessa è che l’aver vissuto una grande esperienza spirituale non garantisce affatto uno stato di grazia permanente; al contrario, il caso di Rosie Swale-Pope sembra mostrare che le persone, anche dopo essere state sfiorate dall’ala dell’Assoluto, sono soggette a cadute, anche rovinose, esattamente come chiunque altro.
Il fatto che nel 2003, a cinquantasei anni, ella abbia ritrovato il coraggio e la voglia di mettersi in gioco con una prestazione atletica estremamente impegnativa, può aver avuto a che fare con il bisogno di reagire alla depressione per la morte di cancro del secondo marito, Clive, avvenuta nel 2002; ma anche con una sorta di nevrosi presenzialista, tipica di chi non è capace di accettare di ritirarsi nel cono d'ombra di una vita privata.
Vi sono indizi per propendere per questa seconda interpretazione. Già nel 1983, dopo il viaggio dell'«Anneliese», Rosie aveva affrontato la traversata dell'Atlantico e la cavalcata attraverso 2.000 miglia di territorio cileno, alternando queste imprese sportive con una fitta presenza sulle riviste pornografiche, posando come prostituta. Pare che questa donna abbia sempre considerato la visibilità pubblica, ottenuta con qualsiasi mezzo, come un modo per scongiurare il senso di insignificanza legato a una «normale» vita borghese, oltre che come un modo per reagire all'immagine tremendamente negativa legata alle sue oscure vicende processuali.
Tornando al quesito che ci eravamo posto all'inizio, potremmo peraltro domandarci se l’esempio di Rosie Swale-Pope sia stato scelto in maniera adeguata; perché, si potrebbe obiettare, una grande esperienza spirituale non è, necessariamente, il frutto di una grande esperienza esteriore. Il mistico può arrivare al «samadhi» e al «satori» senza muovere un passo fuori della porta di casa propria; mentre un famoso navigatore o un audace alpinista può anche giungere per primo in capo al mondo, senza conoscere una vera esperienza spirituale.
Ora, il modo sciatto e banale con cui Rosie - che pure aveva ambizioni di poetessa - descrive, nel suo libro, l’avvistamento del Capo Horn ed i sentimenti da lei provati in quella circostanza, potrebbero avvalorare questa obiezione; potrebbero, cioè, essere considerati come la prova del fatto che il suo animo era incapace di vivere un’esperienza spirituale, nel significato più profondo del termine; e, quindi, che i successivi, macroscopici «scivoloni» della sua vita privata non dimostrano nulla, se non che ella rimase sempre in una regione spirituale piuttosto terra terra, sia prima che dopo aver compiuto la memorabile impresa del 1973.
Il regista Robert Rossen ha affrontato lo stesso, affascinante mistero nel film «Cordura», del 1959, dove Rita Hayworth e Gary Cooper si confrontano con la sconcertante verità che l’eroe può comportarsi, dopo l’atto che lo ha reso famoso, come l’ultimo dei pusillanimi; mentre il vigliacco può riscattarsi e mostrare un coraggio e una determinazione superiori a ogni elogio. Chi è l’eroe, dunque? Che cosa vuol dire essere eroi, quanto «durano», nell’anima, gli effetti di una azione straordinaria, di una esperienza eccezionale, vissuta al confine tra l’istinto di conservazione e la sfida deliberata verso di esso?
In fondo, un atto di eroismo ha molto in comune con l’esperienza mistica: è un momentaneo superamento delle barriere dell’io, una espansione della coscienza che abbraccia, per un istante, una realtà molto più vasta e profonda di quella dell’esperienza ordinaria. Eppure, anch’esso può trascorrere senza lasciar traccia; senza segnare, cioè, una svolta nell’esistenza di colui che l’ha vissuto.
Il problema, dunque, non è tanto quello di giungere a uno stato ampliato della propria coscienza, quanto quello di conservarne i benefici effetti e riuscire a proiettare quella luce sui giorni e sugli anni a venire.
Dante, che aveva ben presente la natura di questo problema, concepisce in questi termini la preghiera di San Bernardo a Maria Vergine perché lui, il poeta, possa conservare, nel seguito della propria vita, una scintilla di quella divina esperienza, ossia la visione beatifica di Dio stesso (Par., XXXIII, 34-37):

«Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani…»

Dante, in accordo con la filosofia e la spiritualità medievali, era - dunque - convinto che, per poter conservare i benefici effetti di una grande esperienza spirituale, sia necessario un intervento soprannaturale della Grazia, capace di santificare i pensieri e le azioni dell'uomo.
La società moderna e post-moderna, che a Dio non crede più e meno ancora crede al ruolo indispensabile della Grazia nella vita umana, ha ridotto la questione a un fatto di tecnica, come - del resto - quasi ogni altra cosa. Esistono decine di libri e libretti che spiegano le tecniche per raggiungere l'estasi, per compiere dei viaggi astrali, addirittura per visitare i pianeti spirituali nel corso della meditazione; ma non parlano, che noi sappiamo, della questione relativa al «dopo», ossia a come conservare nel tempo gli effetti illuminanti di tali esperienze mistiche.
D'altra parte numerose testimonianze, come quelle contenute nel libro del medico Raymond Moody «Life After Life», del 1975, sembrano indicare che le persone le quali hanno vissuto una esperienza di pre-morte o di morte apparente, ne conservano un vivo ricordo e, in genere, non tornano alla vita di prima, ma intraprendono un cammino di perfezionamento spirituale, divenendo più disponibili, più generose e più solidali nei confronti del prossimo, come se quella esperienza le avesse toccate irrevocabilmente. Ne abbiamo già parlato nell'articolo «Che cosa hai fatto nella tua vita che ti sembri sufficiente?» (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice), per cui non vi torneremo sopra ulteriormente.
Rimane dunque l'interrogativo a che cosa debba attribuirsi la circostanza che talune persone, dopo una intensa esperienza spirituale, imboccano realmente una diversa strada nella propria vita, puntando all'essenziale e trascurando le cose effimere e secondarie; mentre altre ricadono negli stessi errori, nelle stesse meschinità, nelle stesse insufficienze di prima e, talvolta, incorrono in vicissitudini anche più grossolane e poco edificanti.
Nel caso di Rosie Swale-Pope, si sarebbe tentati di attribuire il mancato effetto della forte esperienza vissuta nel 1973 a un insieme di fattori narcisistici, riconducibili alla sua avvenenza fisica e, più ancora, al suo compulsivo bisogno di essere sempre al centro dell'attenzione, di essere ammirata e invidiata, di sentirsi speciale e sottratta alla banalità della vita.
Questa spiegazione, naturalmente, può contenere una parte di verità, ma per altri aspetti non risulta soddisfacente: perché è certo che non tutte le persone fisicamente belle sono torturate da una nevrosi di tipo narcisistico; e che, per converso, dietro la smania di successo di molti artisti, scienziati, esploratori, ecc., possono riconoscersi delle motivazioni tendenzialmente patologiche legate alla sindrome narcisistica.
La stessa biografia di Freud, il massimo «maestro del sospetto», non esce certo immune da questa riflessione, anzi è fin troppo evidente il ruolo che vi ha giocato il bisogno di rivalsa sulla società del suo tempo, inasprito dal complesso legato all'appartenenza alla minoranza ebraica, e i suoi stessi sentimenti ambivalenti verso di essa. Come tutti gli Ebrei viennesi colti e socialmente inseriti, infatti, egli provava sdegno nei confronti dell'antisemitismo dei Tedeschi, ma, al tempo stesso, nutriva disgusto e imbarazzo davanti allo spettacolo degli Ebrei immigrati a Vienna di recente, a migliaia, dalle regioni rurali dell'Europa centro-orientale - Galizia, Volinia, Polonia, Ucraina, Russia Bianca -, con i riccioli tradizionali e i lunghi abiti neri.
Dunque, andiamoci piano con le spiegazioni psicologistiche e psicanalitiche a buon mercato: per quanto esse siano divenute di moda nel corso dell'ultimo secolo, al punto da apparire come un passaggio obbligato, non è detto per niente che questa sia la strada migliore per avvicinarci al mistero  dell'anima umana. Perché di questo si tratta - anche se a parlare di anima sono rimasti in pochi davvero, a parte James Hillman, mosca bianca nel campo dell'ormai straripante cultura psicanalitica: del mistero dell'anima umana.
Quando l'ala dell'Assoluto sfiora un essere umano, quello che avviene nelle profondità della sua anima rimane essenzialmente misterioso; ma è certo qualcosa di grande.
Quello che, dall'esterno, possiamo azzardarci a ipotizzare, è che la stessa esperienza non produce effetti identici in soggetti diversi; ma produce tanti effetti, quante sono le persone che l'hanno vissuta.
Né ci si deve meravigliare se non è cosa facile percepire un sensibile mutamento di vita in un soggetto che abbia fatto una profonda esperienza spirituale. Accade, forse, come nella sfera della vita materiale: altro è arrivare in un determinato luogo in seguito a una indefessa, appassionata ricerca, e altro è giungervi per caso.
Chi giunge per caso nella stanza del tesoro, può darsi che non possieda nemmeno gli strumenti spirituali per comprendere che quello è un tesoro; così come una scimmia può girare e rigirare tra le mani all'infinito la «Divina Commedia», senza con ciò avvicinarsi d'un millimetro a comprendere il significato di quell'oggetto.
Questo, forse, è l'elemento centrale che fa la differenza.
Chi è arrivato a vivere un'esperienza di tipo mistico al termine di un lungo e sofferto percorso spirituale, si trova in condizioni ben differenti da chi vi sia giunto quasi casualmente, per effetto di circostanze esteriori che non hanno coinvolto la sua essenza più profonda. È probabile che il primo riesca a farne tesoro per tutto il resto della sua vita, mentre il secondo tenderà a dimenticarla relativamente in fretta.
L'esperienza di pre-morte, ad ogni modo, occupa uno spazio a sé stante e non è paragonabile alle altre esperienze di tipo mistico. Infatti, si tratta di un'esperienza non cercata né voluta, e tuttavia talmente radicale, da segnare in maniera indelebile coloro ce l'hanno sperimentata, indipendentemente dal tipo di vita che conducevano prima. Si tratta di un'esperienza così forte, che dovrebbe piuttosto suscitare meraviglia il fatto che un essere umano, dopo averla provata, possa nuovamente adagiarsi nel tipo di vita precedente, disperdendosi in cose irrilevanti, come se nulla fosse accaduto.
Però, lo ripetiamo: attenzione a non cadere nell'arroganza dello psicologismo.
L'anima umana è un mistero; e misteriosi sono gli eventi che si svolgono al suo interno. Solo per ragioni di comodità noi ci prendiamo il diritto di parlare di quello che ci sembra avvenire in essa, basandoci sugli avvenimenti esteriori; ma dobbiamo essere consapevoli che si tratta pur sempre di un arbitrio.
Forse, pur con tutte le sue cadute, le sue contraddizioni, il suo narcisismo, una modella per riviste pornografiche può aver serbato sempre, in tutta la sua vita, un riflesso di quella mistica luce che aveva illuminato, solamente per lei, le rocce di Capo Horn, in quell'incredibile giorno di bonaccia di tanti, tanti anni prima.
E forse, nonostante tutte le apparenze, certi «guru» e «maestri» da tutti celebrati, e da tutti additati quali modelli di perfezione spirituale, non hanno mai conosciuto una vera, profonda esperienza spirituale in tutta la loro vita; tanto meno un'esperienza mistica.
Chi siamo noi per dirlo?
Meglio, molto meglio che ciascun essere umano si occupi del proprio perfezionamento spirituale, e persegua la propria, personale illuminazione; e lasci perdere, o almeno sospenda, il giudizio su quella degli altri.