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Un cuore riconoscente sa tesaurizzare tutte le cose belle che ha vissuto

di Francesco Lamendola - 15/05/2009


Nel precedente articolo «Che ne è di una persona dopo che l'ala dell'Assoluto l'ha sfiorata?» (sempre sul sito di Arianna Editrice) ci eravamo domandati, nei limiti del possibile, che cosa accade nel mistero dell'anima umana, a distanza di tempo, dopo che essa è stata protagonista di una profonda esperienza spirituale, di un'esperienza di tipo mistico.
In quella sede, avevamo sfiorato - ma solo fugacemente -  il caso specifico di una intensa esperienza amorosa, per interrogarci se sia legittima l'aspettativa di vedere radicalmente trasformata la vita di coloro i quali l'hanno vissuta, magari molti anni prima; se ci si debba attendere che una tale esperienza abbia il potere di agire così in profondità, da trasparire in tutto il modo di essere e, in ultima analisi, nel destino di una creatura umana, la quale abbia avuto la ventura di viverla anche una sola volta nella propria vita.
Naturalmente, potremmo aggirare parzialmente l'ostacolo e rispondere che tutto dipende dal tipo di carattere di quella determinata persona: perché è noto che vi sono caratteri primari, i quali tendono a metabolizzare in fretta ogni esperienza, sia positiva che negativa; ed altri, secondari, i quali rimangono a lungo sotto l'impressione delle proprie esperienze, le quali, così, finiscono per orientare tutto il loro futuro.
Non sarebbe una osservazione sbagliata, tutt'altro; ma sarebbe un modo di aggirare la domanda, perché, pur ammettendo che gli esseri umani hanno un diverso modo di reagire alla risonanza che le proprie esperienze hanno nella loro anima, nondimeno quel che ci domandavamo non era se tutti gli esseri umani rispondano in maniera uniforme alle esperienze spirituali profonde, ma quale sia l'eco che queste ultime producono in essi, al di là della ovvia e scontata differenza dei caratteri individuali.
Si tratta di un interrogativo che ha qualcosa in comune con la questione pedagogica: anche lì, come nel nostro caso, si tratta di vedere se l'essere umano sia suscettibile di educazione, cioè se sia perfettibile; e non di disquisire sulla banale verità che non tutti apprendono allo stesso modo e nella stessa misura, o con i medesimi tempi e ritmi.
Ora, anche coloro i quali vogliano contestare in maniera radicale la perfettibilità dell'uomo e la possibilità di educarlo mediante opportune strategie, cadono poi nella contraddizione di esporre le loro teorie mediante scritti o discorsi: affidandosi, con ciò, alla convinzione che vi sarà qualcuno disposto, se non ad accogliere, quantomeno a comprendere ciò che essi sostengono; il che costituisce già un atto di fede non solo nella comunicazione, ma anche nella possibilità di una educazione, nel senso più ampio del termine.
Questa è la base da cui partire per ogni successivo ampliamento del discorso, tanto nel campo educativo, quanto nel campo di quella particolare forma di pedagogia, che consiste nell'apprendere il segreto del proprio perfezionamento interiore mediante le esperienze spirituali profonde che la vita offre l'occasione di fare.
Dopo di che, così come possono esservi dei casi di totale refrattarietà all'insegnamento, dovuti a circostanze particolari, allo stesso modo si potrà ammettere che vi siano persone totalmente incapaci di fare esperienza: di accogliere, cioè, in un movimento progressivo dell'anima, ciò che le ha toccate e coinvolte nel profondo.
In altre parole, non dovremmo basarci sull'eccezione per formulare una regola: se è certo che vi sono persone le quali non imparano mai nulla dalle proprie esperienze, e che, meno ancora, se ne lasciano trasformare in profondità, è pur vero che ciò attiene piuttosto alla patologia dello spirito che non al corso normale delle cose.
Fra parentesi, tale è stato l'errore fondamentale di Freud e di gran parte della psicologia moderna: avere la pretesa di costruire una scienza dell'uomo a partire dai casi patologici, dalle menti disturbate, dalle personalità stravolte. L'immagine dell'uomo che ne risulta (a parte una serie di altri eccessi speculativi, come le deliranti teorie sull'orda primitiva parricida che divinizza il ricordo del padre assassinato) non può essere che tremendamente deformata.
Dunque, possiamo tranquillamente ammettere che un individuo normale  - qualunque cosa possa significare l'espressione «normale» - non si lascia scivolare via le esperienze spirituali importanti della propria vita; e, anche se non è dotata di una particolare propensione verso il misticismo e se non possiede un carattere fondamentalmente contemplativo, tuttavia finirà per incorporarle nella propria struttura spirituale, trasformandole, sia pure parzialmente, in un modo di essere permanente dell'anima.
Come dire che noi siamo quello che siamo, perché siamo stati quello che siamo stati; e, così come il nostro corpo trae le sostanze necessarie alla vita dall'ambiente circostante, allo stesso modo la nostra anima si alimenta delle esperienze importanti, e perciò potenzialmente formative, che ne caratterizzano l'evoluzione.
L'amore, evidentemente, costituisce, nella vita della stragrande maggioranza degli esseri umani, l'esperienza che più tocca nel profondo e che più coinvolge l'io, talvolta fino al limite estremo del consapevole auto-annullamento; e, benché l'amore sessuale rappresenti una sola di tali situazioni estreme, nondimeno essa è quella che si presenta alla mente con maggior forza, allorché si ragiona di queste cose; per cui vi dedicheremo alcune specifiche riflessioni.
Quando camminiamo per la strada, o entriamo in un locale, e ci troviamo ad incrociare sguardi e volti di persone sconosciute, è difficile sottrarsi all'impressione che quegli sguardi e quei volti rechino i segni indelebili delle esperienze spirituali profonde che esse hanno vissuto; che le loro rughe siano la testimonianza del travaglio spirituale, delle ansie, delle preoccupazioni, delle attese deluse, del disincanto.
È la qualità del vissuto, e più ancora quella della sua rielaborazione in chiave di crescita spirituale, che fa la differenza: per cui vi sono sguardi vivi e brillanti e sguardi opachi e annebbiati, quasi spenti; e vi sono rughe espressive - sulla fronte, intorno agli occhi, ai lati della bocca - che rendono il viso più interessante e persino affascinante; e, viceversa, rughe di amarezza, di delusione, di sconfitta, che lo rendono scostante e repulsivo.
In fondo, non avevano poi tutti i torti gli antichi studiosi di fisiognomica: è cosa perfettamente naturale ammettere che le passioni dell'anima si riflettano nell'espressione del viso; e che, a lungo andare, la persistenza di determinati stato d'animo - di collera, di angoscia, di timore, oppure di serenità e benevolenza - lascino il segno nello sguardo e nel volto, modellando quest'ultimo e quasi scolpendolo insensibilmente, giorno dopo giorno, ora dopo ora.
Abbiamo già osservato che, come il nostro corpo si nutre di sostanze solide, liquide e aeriformi - l'ossigeno che respiriamo continuamente, mediante i polmoni -, allo stesso modo la nostra anima si nutre delle proprie esperienze spirituali; e, sia che decida di rielaborarle con spirito costruttivo al fine di perfezionarsi, sia che decida di lasciarle cadere l'una dopo l'altra, con superficiale leggerezza, è certo che esse la modellano gradualmente, e che tale azione si riflette anche all'esterno, ossia nell'aspetto fisico della persona - compresa la postura e il modo di camminare.
E, continuando il paragone tra mondo fisico e mondo interiore, potremmo anche aggiungere che, così come l'esperto giardiniere sa riconoscere dai cerchi del tronco non solo l'età di un albero, ma anche se le diverse annate sono state secche o piovose, allo stesso modo una osservazione penetrante potrebbe rivelare, attraverso lo sguardo e l'espressione di un volto, di che genere sia stata, nel complesso, la sua vita interiore, se arida o feconda.
È un fatto che le persone le quali hanno trovato un equilibrio interiore, e che, pur essendo in cammino, riescono a poggiare il piede su qualcosa di solido, rivelano una luce nello sguardo che esprime speranza, pace e benevolenza; mentre lo sguardo di quelle che si dibattono in un groviglio di contraddizioni irrisolte e che non riescono a conciliare le spinte contrastanti e disordinate del proprio animo, esprime inquietudine, turbamento, sofferenza chiusa in se stessa (vedi la mirabile descrizione manzoniana della monaca di Monza, così come ella apparve a Lucia e ad Agnese, nel parlatorio del convento).
Le persone, poi, che mai hanno cercato di innalzarsi spiritualmente e che mai si sono avvicinate ad una forte esperienza interiore, ma che sempre hanno vissuto in modo egoistico e superficiale, si riconoscono dallo sguardo amorfo e inespressivo.
Ma torniamo al nostro tema principale, ossia a quello che accade nelle profondità dell'anima a distanza di tempo, magari di anni e decenni, dopo che essa ha vissuto una intensa ed esaltante esperienza spirituale.
Le storie sentimentali cui siamo abituati dalla letteratura e dal cinema seguono, quasi sempre, lo schema fisso di un intreccio che corre verso lo scioglimento e che conduce i due protagonisti al culmine di un «climax» sapientemente costruito: al culmine, cioè, del disastro finale o del trionfo finale; ed è in quel momento che si spengono i riflettori.
Ebbene, chi nutra un minimo di curiosità filosofica nei confronti del mistero dell'anima umana, non sarà tanto interessato al momento culminante del «climax» (sia esso tragico o a lieto fine), quanto al «dopo»: a quello che accade, cioè, dopo che le luci si sono spente.
Dopo una grande esperienza interiore, l'anima rimarrà uguale a ciò che era prima, o ne risulterà profondamente cambiata? E, se sì, tale cambiamento sarà visibile all'esterno quanto basta per riconoscere nei gesti, nello sguardo, nell'espressione del viso, un riflesso di quella grande luce, di quella intensa rivelazione di sé che l'amore necessariamente comporta?
Se Didone non si fosse uccisa alla partenza di Enea da Cartagine, se il destino le avesse concesso di vivere ancora molti anni, che sarebbe accaduto dentro di lei, che cosa sarebbe diventata la sua vita, dopo un così grande amore e una così grande sofferenza? E se Catullo non fosse morto giovane, che cosa avrebbe significato, nel corso della sua vita, il ricordo dell'esperienza esaltante e drammatica dell'amore per Lesbia? Oppure prendiamo Renzo Tramaglino: come sarà stato a quarant'anni, a cinquant'anni, a sessant'anni; che segni avrà lasciato, nel suo cuore e nel suo aspetto, l'esperienza del grande e contrastato romanzo d'amore vissuto con Lucia Mondella?
Caso ancora più interessante (perché sempre più frequente nella frettolosa società odierna): se Lucia lo avesse lasciato, dopo alcuni anni di vita coniugale, magari per seguire un altro amore, o per la noia soffocante di un rapporto divenuto monotono e grigio (ipotesi puramente fantastica, dato il contesto culturale e il carattere del personaggio), come avrebbe conservato Renzo nel suo cuore l'esperienza della loro grande storia d'amore?
Non diciamo: come avrebbe conservato l'immagine di Lucia; perché altro è l'oggetto dell'amore, altro l'amore in se stesso, come moto dell'animo che si effonde per sovrabbondanza di energia vitale (cfr. il nostro precedente articolo «Ogni persona che abbiamo amato è una pianta che stormisce al vento nel giardino della nostra anima»). Renzo, perciò, avrebbe anche potuto pensare con amarezza e con dolore a colei che lo aveva profondamente deluso; ma non per questo, crediamo, avrebbe dovuto necessariamente disprezzare il poderoso sentimento che lo aveva legato a lei: perché quel sentimento era stato grande e puro, e - come tutte le profonde esperienze spirituali - esso lo aveva avvicinato, finché era durato, al tesoro più riposto della sua stessa anima.
Oppure spostiamoci dall'ambito dell'amore sessuale a quello dell'amore filantropico.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato - con pochissima plausibilità, a nostro avviso - che Gesù Cristo potrebbe non essere morto sulla croce; che potrebbe essere stato deposto da essa ancor vivo, sia pure svenuto e gravemente provato; ed essere sopravvissuto, tanto da riprendere, poi, la sua predicazione, ma in lontane regioni dell'Oriente. Anche di queste ipotesi abbiamo giù parlato in alcuni precedenti articoli. Ora, a parte l'inverosimiglianza storica di una tale vicenda, la domanda che turba il cuore è questa: che cosa avrebbe serbato nell'anima Gesù Cristo, della propria vicenda in Palestina; con che spirito l'avrebbe custodita in sé; in che misura ne sarebbe stato illuminato il rimanente della sua vita terrena?
Che cosa c'è nello sguardo di una persona, la quale abbia dato tutta se stessa in una grande esperienza spirituale, che si sia messa in gioco sino in fondo, quando quella esperienza è passata e appartiene ormai ai lontani ricordi?
Ebbene, crediamo che la risposta sia semplice; più semplice di quanto si potrebbe credere.
Il fatto è che le grandi esperienze spirituali, se sono veramente tali, non passano affatto; non passano mai. Non entrano a far parte dei ricordi, perché vivono nell'eterno presente dell'anima. Nulla ve le può scacciare, nessuno le potrebbe allontanare.
Una grande esperienza dell'anima  è per sempre.
Il fatto che, poi, le circostanze della vita possano operare una separazione fra l'esperienza stessa e l'oggetto che le fece da catalizzatore, appartiene alla biografia esteriore degli individui, non alla storia dell'anima.
Perciò, chi ha veramente amato, non sarà mai più lo stesso di prima: a lui è stato spalancato un mondo di pura bellezza, che non tramonterà mai più, anche se potrà accadere che - talvolta - densi strati di nubi lo possano offuscare.
Se, invece, la persona ricade nello squallore, nell'egoismo e nell'indifferenza, vuol dire che non ha amato davvero; che non è stata capace di tanto.
Parliamoci chiaro: l'amore è un evento raro, ed è riservato alle persone mature, alle persone forti. Non è roba per pusillanimi o per furbastri da quattro soldi, per gente che conosce solo l'arte di prendere ma non quella di dare.
Il fatto è che l'amore, quando è vero, è sempre amore dell'Assoluto, amore dell'Essere: anche se può accadere che non lo sappia.
Anche quando si dirige su un oggetto determinato, vi è tuttavia, in esso, una misura eccedente, un qualcosa in più, che non si appaga mai interamente, anche nella situazione più felice; una nostalgia di ciò che sta oltre, dell'amore indeterminato e incondizionato.
Il vero amore esorbita sempre dall'oggetto amato, perché ignora che quell'oggetto è solo una occasione per manifestare un riflesso della pienezza dell'Essere.
Pertanto, alla domanda iniziale che ci eravamo posti, possiamo rispondere che colui il quale abbia veramente amato, conserverà per sempre nello scrigno più preziosi della propria anima l'esperienza vissuta. Anzi, per esprimerci meglio, diremo che la trasformerà in un diverso modo di vivere la propria vita, giorno per giorno, ora per ora, mostrando che non di un ricordo si tratta, più o meno lontano, ma di una trasformazione permanente del proprio essere, di una trasfigurazione radicale dell'eterno presente in cui la vita dell'anima consiste.
Questo, e non altro, significa amare: avvicinarsi di un passo alla dimora dell'Essere.
Ed è una strada che non conosce ritorni o pentimenti: avvicinarsi all'Essere, significa riceverne la luce per tutto il resto della propria vita terrena.