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Lettera aperta agli studenti francesi da un vecchio ragazzo del “maggio”

di Oreste Scalzone - 14/03/2006

Fonte: liberazione.it

 

[A firma di Oreste Scalzone, è comparso su Liberazione, Domenica 12 marzo, un interessante articolo. Il pretesto dello scritto riguarda le ultime vicende della Sorbona. In alcuni punti, l'articolista critica, neanche troppo velatamente, il concetto di "altro mondo possibile", intorno al quale si basa la contraddittoria piattaforma politica del variegato popolo di Seattle in risposta alla globalizzazione capitalistica. L'analisi è tortuosa e complessa. Anzichè materialista storico, Scalzone si definisce materialista critico. La sua critica al determismo marxista sembra evidente, anche se non esplicita. Più piana e chiara, invece, è la relazione che Scalzone pone tra l'orizzonte dello sviluppo capitalistico e le logiche contestatrici messe in atto dal movimento dei movimenti. Qua e là, alcuni echi di Preve, Bontempelli e Dinucci sembrano diffondersi. Questo articolo proseguirà martedì 14. ndr]

Carissim“i” (carissime, -i “student’in lotta”),
c’è un imbarazzo a rivolgermi a voi così. Il primo disagio, è l’aspetto di formula comunicativa, non di vera e propria lettera realmente indirizzata alle persone formalmente destinatarie. Però poi, questa “finzione”, questo come se, può diventare interessante: c’è un “effetto di parallasse” creato dal doppio funambolismo mentale a cui devo forzarmi (pensarmi come Vecchio, con conseguente esternità/estraneità); mettermi nei vostri panni, senza mai “perdermi di vista”, e cioé sapendo che lo sto facendo; scrivere questa lettera in italiano, rivolta a un “destinatario pluri-singolare”, italianofono, dunque “parlare a nuore”..., almeno nell’immediato.
Iersera…parto dall’inevitabile, strana emozione provata in quella piazzetta, come allora “teatralizzata” da fuochi, musiche, rumori, fumo acre (e, loro non sanno, anche un po’ eccitante) delle granate lacrimogene, dove restai così impressionato in quella sorta di “Gran Teatro della Rivoluzione”, trentott’anni fa, ‘na sera ‘e maggio del secolo scorso... la comune come festa.

Disagio, anche perché l’incipit inevitabile me ne richiama un altro: non mio…“Vi odio, cari studenti... ”, cominciava un testo di Pasolini dopo gli scontri romani di Valle Giulia nella primavera Sessantotto. Lo lessi, sull’Espresso, qui a Parigi… allora ci fu scandalo. Ed era sbagliato. Comprensibile, ma sbagliato. Perché c’era sicuramente un errore teorico: Pasolini non vedeva la relazione tra la scuola del tempo e le modificazioni indotte dallo sviluppo capitalistico, ma non era grave: non credo che Pasolini si pretendesse “filosofo”, o “teorico”, nel senso un po’ ‘disciplinare’ che il termine aveva nel lessico “marxistese”.

Grave era forse di più l’ipse dixit, quando esso devolve la facoltà, e anche la responsabilità, di pensare, ad un ceto di pensanti a nome e per contro d’altrui. Cosa che in sé non è invece incompatibile con un certo tipo di egualitarismo…demagogico, ma andiamo oltre…Pasolini, dunque, non aveva una lettura marxiana della società, di uomini e cose, di fatti e cose. Non maneggiava né amava scatole di attrezzi concettuali che dovevano sembrargli aride: estrazione del plusvalore, rapporto di capitale, forma merce, Denaro come metamerce, merce misura delle altre merci ecc.

Preferiva termini non codificati, come poveri, umiliati, offesi, oppure oppressori, oppressi, borghesia, ingiustizia, al più “sfruttamento”
Aveva tuttavia una coscienza drammatica, empatica, fisica (ho male alla testa e all’universo; America che tossisci tutta la notte sotto le mie lenzuola e non vuoi lasciarmi dormire... di Ginsberg) - dello sfacelo logopatico, terminologico, concettuale, fino agli stupri semantici… sfacelo etico, dunque antropologico, della specie umana.

Ma non delle modificazioni della
forma della produzione,
della composizione organica del
capitale, della composizione di
classe. Pensava ancora agli studenti
come i figli dei borghesi, quando già
la riforma della scuola e le esigenze
del nuovo mercato del lavoro, generati
da quel modello d’accumulazione,
aveva fatto irrompere nelle
università i figli degli operai...
Ed oggi? Io vorrei prima di tutto ricordare,
non per loro, ma per voi e
tutti noi, l’importanza della sollevazione,
insorgenza, incendio, insurrezione
riduttivamente detta delle
banlieue...
Recita uno slogan dilagato a/traverso
il mondo, “Un altro mondo è
possibile”. Ma qui, per non dare
niente per “scontato”, facciamo
qualche passo indietro. Chiariamo
intanto che un altro mondo, incessantemente
diverso, è il cosiddetto
sistema che lo produce e riproduce,
vertiginosamente e catastroficamente.
Il “sistema”: cioè, cominciamo
col dire, quel “modo di produzione
capitalistico” che io chiamerei
“sistema mondiale integrato,
tecno-economico-politico, cioè capitalistico
& statale” (variamente
chiamato, “modernità Mondo”...)
che si è comunque totalizzato perché,
ubiquo, sta sotto le logiche, i
modi della razionalità, le leggi di
funzionamento delle società. E’ un
sistema cui non sfugge neanche la
più “antagonistica” delle entità, delle
Patrie, Stati, regimi, o aspiranti tali.
Questo modo di produzione è
proprio figlio di quel capitalismo,
che nel Manifesto dei Comunisti
era definito “il modo di produzione
più rivoluzionario mai apparso sulla
Terra”.
Nella più vertiginosa delle ambivalenze,
come è ambivalente l’oppio,
di cui non a caso Marx usa a
proposito della “alienazione religiosa”:
grido dell’uomo oppresso in
un mondo senza sacro... illusionismo
autoincantatorio che consola,
ma occulta la nuda catena dello
sfruttamento con fiori di carta, per
impedire che venga spezzata...
Quando diciamo “un altro mondo”,
diciamo dunque non solo fuori
dallo stato, ma dal moto, dall’insieme
di dinamiche, tendenze, controtendenze,
risultanti... del modo
di produzione e riproduzione della
vita. Diciamo perciò prima di tutto
una vita diversa, radicalmente. Diciamo
fuoriuscire, ma questo esodo
comincia dalla testa, dal desiderio,
dai sogni e dalle lotte, dalle scommesse,
ed è la base della possibilità
di de/costruire, esorbitare, come
un fiume che comincia col tracimare,
poi esce dagli argini e finalmente
li dissolve, per prendere un altro
corso...
Alla domanda se questo rivolgimento
radicale è necessario, mi
sembra si debba rispondere sì, è necessario.
Di fronte all’immensa piaga
che è il mondo, non possiamo
abbandonarci, o peggio consolarci
con un tardivo determinismo, sia
pure misticamente provvidenziale,
o magari aggrappato a una pseudo
filosofia neo-idealistica della Storia.
Non so, non saprei se si va al meglio,
o all’ancor peggio. Anche
quando dati e competenze d’expertise
suggeriscono che si va ad una
catastrofe eco-sociale (buco nella
calotta d’ozono, OGM, desertificazione
ecc.), non sappiamo se esista
nella stessa tecnoscienza un principio
di feed-back, che rende queste
previsioni estrapolazioni al limite,
apocalittiche, propagandistiche,
che non tengono conto dei processi
reali e della complessità delle risultanti.
Su questo, si dice e si contraddice,
e si resta sempre al palo di un immenso
Rashomoon, in cui ciascuno
vede ciò che vuol vedere. Ritenendomi
però “materialista critico”,
cioè non “volgare”, talmente materialista
da piombare a piedi uniti
nella metafisica, penso che - per
questa specie umana che, si dice,

sia caratterizzata dalla parola - il
mentale è materialmente decisivo.
Una specie, la nostra, “pericolosa”
perché essendosi affrancata dal naturale,
cresciuta nella libertà, nella
cultura, in parte produttrice della
propria condizioni d’esistenza, non
è più regolata dal semplice istinto di
autoconservazione della specie
che, persa la sua dimensione collettiva
e sociale, è ridotto a un istinto
individuale. Dunque, il problema è
il mentale.
Ora, seguiamo il filo di un ragionamento.
Se la crescita economica
si fosse legata ad una estensione
planetaria del modello “fordista”
degli anni del pieno impiego e della
produzione di beni di consumo durevoli,
come asse dello sviluppo, è
chiaro che questo benessere - l’egualianza
applicata al “paniere” dei
beni - avrebbe portato all’ecocatastrofe
inevitabile. Se, al contrario,
avesse teorizzato una sorta di sterminismo,
per applicare l’uguaglianza
solo a pochi eletti, si sarebbe
avuta una globalizzazione di tipo
nazistico.
In realtà, non per decisione di
uno Stato Maggiore o di un Grande
Fratello, ma come risultante della
complessissima interazione “fra
tutto e tutto”, il modello, dunque la
tendenza dominante, è stato quello
di una centralità strategica della
produzione di merci immateriali a
mezzo di merci immateriali (diciamo,
relativamente immateriali,
perché anche l’energia è in ultimo
materiale). Questo significa che l’economia
è diventata illusionista.
L’antica coppia bisogni(crescenti)
/risorse(scarse) è azzerata, perché
al bisogno si è sostituito il manque
artificiale: lo stato carenziale del
tossicomane.
Sul piano delle caratteristiche
merceologiche, dei valori d’uso,
l’ossessione della velocizzazione,
dell’intensificazione parossistica
della produttività ha fatto sì che le
merci “regine” diventassero sempre
più ambivalenti: ne è specchio la
Pubblicità, che ci bombarda di ingiunzioni
autocontradditttorie,
magnificando merci-miracolo e al
contempo allungando la lista degli
effetti negativi secondari e lucrando
anche su questa...
Più in generale, sul piano sociale,
si promette il rischio-zero, la fine
delle malattie, la cura delle malformazioni,
lo spostamento della frontiera
della morte, ma al tempo stesso
si “vendono” sul mercato politico
crescenti paure, terrori, oscure minacce
da fantascienza/fantapolitica,
incubi di processi incontrollabili,
mostruosi mutanti. Un esempio
clamoroso: la miracolistica attesa (e
ricerca) dell’elisir di lunga vita, e la
catastrofe reale delle società che invecchiano,
dei vecchi che vegetano,
dell’assistenza impossibile, dei già
vecchi che sono ancora figli....
Questo dell’ambivalenza dei
messaggi, va assieme alla realtà e
impressione di globalizzazione reale,
cioè di localizzazione del mondo
nella testa di ognuno.
Il nostro territorio di prossimità
diventa - in una alternanza tra synopsis
e blow up realmente possibili e
in più simulati - l’intero globo, l’insieme
dei suoi territorî esistenziali,
e al contempo ogni “locale”, minuziosamente
circostanziato.
E’ evidente che, su questa base,
l’impegno diventa solo sofferenza
estrema, impotenza a capire ed agire,
esercizio di una denuncia, una
querimonia incessante non si capisce
rivolta a chi, ad uso di chi.
Se la visione è globale, occorre un
riduttore di complessità, una “chiave”
forte: per l’ideologia liberale del
capitalismo questa era la risposta di
Adam Smith, la fine della penuria
verrà assicurata dagli spiriti animali
della capitalizzazione, il narcisismo
primario trasformato in forza demiurgica
imprenditoriale, alla fine,
secondo questa ideologia, la ridda
degli egoismi si auto-equilibrerà.
Per Marx, il principio attivo è invece
l’autonomizzazione singolare e comune
degli umani, il cui “Dna” esiste
in ciascuno e nell’insieme.
Questa comune autonomizzazione
è stata inibita, mutilata, compressa,
confiscata dalla società del
capitalismo e dallo Stato moderno,
come l’acqua immessa in condotte
forzate, obbligata in un percorso
deciso da una regola estranea ad
ogni sua molecola. Ecco, io ritengo
che siamo arrivati alla soglia, o forse
siamo già oltre: il proseguimento
del sistema capitalistico-statale
non può che risolversi in uno sfacelo
semantico, concettuale, etico,
mentale.
Epperò - dobbiamo dircelo - l’emergere
spasmodico, incoercibile
del bisogno di uscire da questo “sistema”,
lungi dal produrre una coalizione,
una confederazione dei
piccoli contro il grande (o i grandi),
delle genti del “sotto” contro i sovrastanti,
ha innescato innanzitutto il
crescente scannarsi tra poveri, la
crescita di una competizione, di
una concorrenza a morte...
Ad esempio ci sono sempre più
movimenti che reclamano un riconoscimento
dall’alto, chiedono che
lo Stato certifichi e legalizzi persino i
sentimenti, che sia braccio secolare
del bisogno di giustizia per elaborare
il lutto, cosicché l’idea di giustizia
diventa penale e sempre più attizza
risentimenti, invidie mortali, altri
odii e vendette. Reclamiamo una
sanzione universale, oggettiva, come
un nostro primato di legittimità,
ma proprio così ci uniformiamo,
perdiamo autonomia, diventiamo
faziosità scatenata tra identici...
Finiamo per accusarci l’un l’altro,
in nome degli stessi “Principii Universali”,
che intanto cancellano la
dissimmetria “di classe”…
Un po’ come i politiciens che nei
plateau televisivi esprimono un’aggressività
da polli d’allevamento,
senza nemmeno più una traccia -
per ipocrisia, per demagogia - di rivendicazione
della difformità e incompatibilità
di interessi e soggetti,
accusandosi vicendevolmente di
essere indegni di far parte della
“classe dirigente”...
Tutto questo per dire, che arrivati
a questo punto, noi dobbiamo rompere
ogni rispecchiamento, ogni
dialettica con questa follia del sistema.
Il discorso sarebbe lungo. Ma, devo
dire senza poterlo qui dimostrare,
che il “virus” di questa condanna
a risultare il contrario di ciò che si
vorrebbe, a mio parere ha radici
lontane. Questo diventar controrivoluzionaria
della rivoluzione, possiamo
scorgerlo negli anni immediatamente
seguenti alla straordinaria
vicenda e al brutale schiacciamento
della Comune di Parigi.
L’idea (incarnata all’epoca da un
a voi sconosciuto Ferdinand Lassalle)
che lo strumento dell’emancipazione
dei proletari potesse essere lo
Stato; e contemporaneamente l’idea
che si dovesse delegare la propria
autonomizzazione ad un ceto
specializzato, di politici, di intellettuali,
alla fine di governanti “di professione”,
ha prodotto un esito esattamente
contrario.
Per questo dimenticare il Novecento,
dimenticare Seconde, Terze
e anche quarte e quinte Internazionali,
e anche le ideologie di sostituzione
è assolutamente necessario.