Il capitalismo assoluto e i suoi oppositori. Intervista a Marino Badiale e Massimo Bontempelli
di Alessandro Bedini - 22/05/2009
Nei vostri libri muovete diverse accuse ai partiti della cosiddetta sinistra affermando che questa ha di fatto accettato il modello del capitalismo assoluto abdicando così alla propria funzione storica. Potete spiegarvi meglio?
“Capitalismo assoluto” è un’espressione che abbiamo introdotto per indicare la fase recente del capitalismo, nella quale il modello aziendalistico diviene l’unico modello accettabile di organizzazione della realtà sociale, ogni aspetto della vita sociale viene pensato in termini aziendali (investimenti, profitti), e il paese stesso non è più una nazione ma un’azienda, l’ “azienda-Italia”. Utilizzando i concetti della tradizione marxista, possiamo dire che in questa fase storica il “modo di produzione” capitalistico tende a coincidere con la “formazione sociale” (con la concreta società in cui viviamo), e il capitalismo diviene “assoluto” perché non si limita più a indirizzare la dinamica sociale ma permea ogni aspetto della realtà.
Questi sviluppi, che caratterizzano gli ultimi 25-30 anni, hanno portato a un profondo regresso rispetto alle conquiste che i ceti subalterni avevano conquistato nei trent’anni del secondo dopoguerra, generando una radicale perdita di diritti e redditi. E’ facile constatare che, in tutto il mondo occidentale, la sinistra non ha fatto nulla per combattere questi fenomeni ma anzi li ha fiancheggiati e favoriti. Più che lanciare accuse, nei nostri libri tentiamo di capire i motivi di questa rinuncia della sinistra al ruolo da essa sostenuto in una lunga fase storica, ruolo che era appunto quello di lottare per la giustizia sociale e l’emancipazione delle classi subalterne. Ci sono diversi ordini di spiegazioni. Sul piano storico ha inciso ovviamente la sconfitta di tutti i tentativi novecenteschi di superamento del capitalismo. Sul piano teorico, il punto decisivo secondo noi sta in una ideologia del progresso che pone la storia come fonte ultima di legittimazione dell’azione politica. Ma il culto della storia come fonte di legittimazione equivale al culto della forza, perché nella storia vince chi è più forte. E se è vero che la base della visione del mondo della sinistra è stata, in ultima analisi, il culto della forza, è chiaro che di fronte alla forza del capitalismo la sinistra doveva finire per convertirsi ad esso.
Altra tesi da voi sposata è che destra e sinistra sarebbero in sostanza la stessa cosa in quanto entrambe si rifanno al “totalitarismo neoliberista”.
Precisiamo che con “totalitarismo neoliberista” intendiamo la stessa cosa di “capitalismo assoluto”. Quanto al contrasto fra destra e sinistra, non neghiamo che fra di esse ci siano delle differnze, ma affermiamo piuttosto che tali differenze non riguardano nulla di essenziale per quanto riguarda il governo della società e dell’economia.
Sinistra e destra, come parti politiche che si alternano ai governi dei paesi occidentali, non hanno altro ruolo che quello di far accettare alla maggioranza della popolazione il regresso, la perdita continua di diritti, il peggioramento della vita che l’attuale organizzazione economica richiede.
Dunque che cosa dovrebbe fare oggi un elettore che per molte ragioni si sente ancora di sinistra?
Essere di sinistra ha significato essenzialmente due cose: lottare per la giustizia sociale e l’emancipazione delle classi subalterne, e lottare per il progresso e lo sviluppo economico. Per due secoli è stata possibile la sinistra perché le due cose (emancipazione e sviluppo) in sostanza correvano parallele. Oggi non è più così, oggi lo sviluppo capitalistico (l’unico sviluppo esistente) significa distruzione dell’ambiente, perdita di diritti, peggioramento della vita. Una persona che si senta ancora legata agli ideali di giustizia sociale ed emancipazione che furono della sinistra deve rompere con tutte le forze politiche di sinistra (ormai diventate attivi strumenti di de-emancipazione), e porsi nell’ottica della critica allo sviluppo, cioè di quella che oggi viene chiamata “decrescita”.
Accettando la sfida da voi lanciata di riuscire a leggere il presente come storia in che modo interpretate la crisi che stiamo vivendo? Siamo forse al collasso del capitalismo assoluto?
La crisi economica attuale è una crisi seria. Ci permettiamo di formulare una previsione: le voci ottimistiche che si sentono in questi giorni, sul fatto che il peggio è ormai passato, saranno secondo noi smentite entro l’anno. La crisi è seria perché discende dalle caratteristiche di fondo dell’attuale fase capitalistica: l’abbassamento del livello di vita delle classi subalterne ha creato in tutto il mondo occidentale un deficit di domanda solvibile, al quale si è tentato di rimediare con il credito facile, che a sua volta ha generato la bolla speculativa poi esplosa con le conseguenze note. Non siamo certo in grado di affermare che questa sia la fine del capitalismo, ma è molto probabile che la crisi segni l’inizio della fine per quella forma particolare di organizzazione che il capitalismo si è dato negli ultimi trent’anni (“globalizzazione”, “neoliberismo”). Cosa verrà dopo di questo non possiamo saperlo. Data la totale mancanza di forze politiche in grado di indirizzare la crisi verso forme di organizzazione sociale capaci di maggiore giustizia, è assai probabile che ciò che emergerà dalla crisi sarà un capitalismo più feroce e inumano di quello attuale, un capitalismo “alla cinese”, per intenderci. In ogni caso ci sembra che la crisi economica stia accentuando alcuni processi di crisi della civiltà occidentale che erano già in corso. Questa crisi di civiltà è il tema del libro al quale stiamo attualmente lavorando, libro che dovrebbe uscire nel prossimo autunno.