intervista a Mario La Ferla, autore de L'altro Che, per Stampa Alternativa
Come è nato il “mito” de “il fascista Che Guevara”? Quali sono state le tappe culturali e militanti che ne hanno definito l’immaginario di certa destra militante?
Prima di tutto, io penso che non sia né esatto né giusto parlare di un Che Guevara “fascista”. Perché nessuno, nemmeno a destra, salvo qualche caso sporadico e isolato, ha mai parlato del guerrigliero argentino in questi termini. La destra lo ha amato e onorato pensando sempre che il Che fosse un marxista convinto. Le eccezioni ci sono state, anche significative. Alcuni intellettuali hanno pensato di paragonarlo a D’Annunzio e a Lord Byron. Adriano Bolzoni, lo sceneggiatore cinematografico autore della prima biografia italiana del Che, aveva rivendicato l’appartenenza di Guevara alla destra internazionale. Infiammati dall’illuminazione dello scrittore francese Jean Cau, che in “Una passione per il Che” aveva identificato il guerrigliero con Cristo, i ragazzi della Giovane Italia avevano scritto un articolo intitolato “Il fascista Che Guevara”, avvicinandolo al superuomo di Nietzsche o all’individualismo aristocratico di Alfredo Oriani. Ma la maggioranza della destra radicale è su tutt’altre posizioni, anche se è stata forte in molte occasioni la tentazione di portare il Che dalla propria parte. Detto questo, sulla base della documentazione che ho potuto mettere insieme, sono del parere che il mito del Che a destra sia nato ancora prima della data ufficiale del ’68. Intanto, a proposito del ‘68, il Che sbandierato dai militanti dell’estrema destra risale al primo marzo e non dopo il fatidico maggio parigino dal quale tutti ormai fanno nascere il “vero ‘68”. A Valle Giulia, mescolati ai ragazzi di sinistra, c’erano in gran numero di ragazzi delle organizzazioni di destra che tra le varie bandiere e simboli mostravano anche l’immagine del Che. Posso dire, ma credo sia cosa nota, che la nascita del Che come simbolo della destra militante debba essere collocata subito dopo la tragica morte di Guevara, il 9 ottobre 1967. In Italia alcuni esponenti della destra detengono il primato europeo della scoperta del Che come loro mito. E’ ormai un fatto storico che è stato il Bagaglino, il popolare cabaret romano tutto di destra, a onorare per primo il Che pochissimo tempo dopo la morte. Due fondatori del cabaret, Pierfrancesco Pingitore e il maestro Dimitri Gribanovski, composero la ballata “Addio Che”. Ed è stato un altro italiano, proprio Adriano Bolzoni, a scrivere un libro sul Che e a trarne poi la sceneggiatura di un film diretto dal regista Heush raccomandato da Pier Paolo Pasolini. Ma la scintilla per il Che si era già accesa ancora prima, verso la metà degli anni 60. Lo ricorda lo scrittore e storico fiorentino Franco Cardini, allora giovane iscritto al Movimento Sociale e poi alla Giovane Europa di Jean Thiriart. Addirittura il primo omaggio al Che avvenne nel 1961, a Firenze, in occasione dell’occupazione dell’università da parte del Fuan. E l’ammissione di Guevara tra le file dei giovani contestatori di destra venne ufficializzata nel giugno 1965, durante il congresso provinciale del Msi con l’uscita dei giovani amici di Cardini che nel partito ci stavano ormai stretti. Posso citare altri casi che hanno contribuito a fare del Che il simbolo della destra movimentista: la rivista “L’Orologio” di Luciano Lucci Chiarissi, il giornale della federazione nazionale combattenti della Repubblica sociale di Salò “Azimut” e il foglio giovanile “Controcorrente”. Non solo il Che, anche Fidel Castro allora aveva conquistato un posto nel cuore dei giovani di destra. Lo ammette lo stesso Cardini: “In un modo o nell’altro, lo abbiamo amato tutti, Fidel. Posso testimoniarlo appieno, personalmente, perché io allora ero un ragazzo che militava nelle formazioni dell’estrema destra, e contro il parere dei nostri padri e dei nostri fratelli maggiori per i quali era solo un “comunista”, anche noi andavamo pazzi per lui …”. E dopo Jean Thiriart, a consolidare l’ammirazione per il Che contribuirono gli scritti e i discorsi di Alain De Benoist, capofila di “Nouvelle Droite”. Comunque è stato il ‘68 a fare esplodere l’amore per il Che, in maniera vistosa e lampante, e a confermare il culto per il guerrigliero che rappresentava il mito ideale: la figura del perdente coniugata a quella dell’eroe combattente per un ideale al di fuori dei canoni dell’utilitarismo e del carrierismo politico. Il successo del Che presso i giovani della destra radicale è via via aumentato grazie agli interventi di scrittori e intellettuali, non soltanto di destra, che hanno avvicinato Ernesto Guevara a personaggi famosi che facevano già parte dell’immaginario collettivo della destra ribelle. Per esempio, Lawrence d’Arabia, i personaggi di Salgari, Giuseppe Garibaldi, Zorro e Don Chisciotte, insomma la stirpe dei Marinetti e dei Papini, dei Drieu La Rochelle e dei Louis-Ferdinand Céline, Ernst Junger e di Giuseppe Prezzolini.
Quale movimento, o meglio tendenza interna alla destra radicale rivendica con più convinzione il camerata guevarista?
Lo spunto per scrivere “L’altro Che” mi è stato offerto dalla lettura della “lettera d’amore” per Guevara scritta da Gabriele Adinolfi e pubblicata dal suo quotidiano on line “noreporter.org” il 9 ottobre 2007. Quindi sono tentato di rispondere che tra i movimenti della destra radicale che possono vantare la grande passione per il Che in pole position si schiera Terza Posizione. Proprio il movimento fondato dallo stesso Adinolfi con Roberto Fiore e Giuseppe Dimitri, con la forte collaborazione di Walter Spedicato e Francesco Mangiameli. La passione per il Che dimostrata da Terza Posizione, secondo il mio parere, si fonda su due basi, una politica e un’altra, diciamo, romantica. Le idee di Adinolfi e amici, insieme con alcuni nuclei della destra rivoluzionaria, erano e sono molto chiare: prima di tutto c’è l’avversione per gli Stati Uniti, nata nell’immediato dopoguerra negli ambienti della destra delusi per la fine dei sogni nati con il fascismo e irrobustita con la guerra nel Vietnam. Da questo atteggiamento ostile verso gli Usa, mi sembra che derivino tutte le altre prese di posizione pro e contro della destra cosiddetta movimentista Contro la globalizzazione, contro Israele e contro la Nato, contro il colonialismo, contro il comunismo, contro l’arroganza del potere e del denaro, contro i partiti politici e i sindacati, contro l’immobilità e contro l’arrivismo. E quindi a favore di una ‘terza via’ (“Né fronte rosso, né reazione!”) come pensavano anche i ‘maestri’ Alain de Benoist e Jean Thiriart, e poi anche a favore degli oppressi di tutto il mondo: gli indiani d’America, gli irlandesi dell’Ira, i palestinesi, con il Chiapas, con il Tibet, e così anche con Mussolini, con Peròn, con l’ “eroe” rumeno Cornelius Codreanu, il maestro Julius Evola, il poeta Ezra Pound, Alessandro Pavolini. Ecco che le posizioni politiche si mescolano con l’anima romantica espressa dalla destra radicale italiana. Il Che è amato sì perché combatteva contro lo strapotere degli Usa e dei suoi alleati, ma anche e soprattutto perché appariva agli occhi dei giovani nazionalrivoluzionari come un personaggio dai contorni passionali. Anche Franco Cardini, scrittore e storico fiorentino di solida fama internazionale, mi appare sulla stessa lunghezza d’onda di Adinolfi. Cultura diversa e origine diversa, però gli ideali sembrano gli stessi. Ancora molto giovane, Cardini era un sostenitore entusiasta di Jean Thiriart, il quale non perdeva occasione per dimostrare ammirazione per Guevara. Ancora prima del ’68, Ernesto Guevara e Fidel Castro erano diventati idoli e simboli di molti ideologi e intellettuali della destra radicale. Tra questi, spiccava proprio Franco Cardini. Il quale, come lo stesso Thiriart e Alain De Benoist, era stato travolto dall’entusiasmo per i due famosi barbudos della rivoluzione cubana soprattutto per l’aspetto avventuristico della loro rivolta contro Batista e i suoi protettori americani. Lo ha spiegato molto chiaramente il celebre medievalista fiorentino: “Fidel era l’uomo della politica tradotta nelle dimensioni della generosità e dell’avventura. Fidel, allievo dei gesuiti, giovane cattolico irrequieto che leggeva Bernanos e si ispirava ai primi eroici e puri falangisti spagnoli, quelli sacrificati dalla furia repubblicana e dal cinismo di Franco, quel Fidel ci piaceva, ci incantava”. Poche, essenziali parole che spiegano l’arcano, quel mistero che mi ha affascinato man mano che leggevo la ricca documentazione che testimonia l’amore per Guevara da parte della destra. E’ vero quello che dicono molti neofascisti: l’amore che la destra ha nutrito per il Comandante è senz’altro superiore a quello sventolato dalla sinistra per molti anni. Per lo meno, quest’amore a destra sembra più genuino, più spontaneo, quasi “puro”, mentre l’altro ha dovuto alimentarsi con slogan e discorsi che hanno finito per ridurre il Che a un fantoccio da tirar fuori quando maggiore se ne sentiva la necessità per dare corpo a teorie ormai vuote e talvolta insensate. Insomma, a sinistra, la rivoluzione di Che Guevara serviva per cogliere l’occasione propizia di imbastire polemiche contro i nemici della classe operaia, contro gli avversari politici del Pci, per sognare l’occupazione del potere. A destra, invece, il rivoluzionario Guevara non è mai stato “sfruttato” per fini politici. Era soltanto un personaggio tutto d’un pezzo, da amare o da odiare, senza però secondi scopi. Anzi, secondo me, la destra radicale europea ha amato il Che sapendo di rischiare molta impopolarità tra molti dei suoi stessi adepti e di farsi nuovi nemici tra quelli che consideravano senza il minimo dubbio il Che “uno dei loro”.
Nota. “Destra radicale” con il “Che”? Una vera e propria falsità. La Ferla prende per buone le “testimonianze a posteriori” di ex ragazzi che, di certo, nella loro giovinezza, non avevano pensato a Guevara come loro “mito unificante”, anzi. La storia, la cronaca di quegli anni, è differente e di molto. La riesumazione ex post del mito del Che per la destra radicale è un falso. Lo dichiara chi scrive, che veniva chiamato (a sproposito) “il Che” anche ai tempi di Valle Giulia. La “destra radicale” di allora era esattamente il contrario da quella descritta da La Ferla. Issava i tricolori per “dis-occupare” le università, compiva raid contro i beatniks, non amava né il Che né, ancora più, Mao o Giap. Era l’altra faccia del Pci: né al Pci “d’ordine”, né alla destra neofascista “d’ordine” erano graditi quegli strani studenti con i capelli lunghi che amavano Kerouac e Nietzsche. Al massimo, alla “Giovane Italia” di quei tempi, ai neo-iscritti veniva dato da leggere qualche libro reazionario, tipo “Il tempo che fu” di Gioacchino Volpe. Un saggio filo-monarchico-fascista. Tutt’al più, per pochi intimi, andavano alla Libreria Europa di Ordine Nuovo, per leggere Evola e l’apologia della reazione. Sempre dichiarando la loro avversione ai rossi, al movimento studentesco “rosso”. Gli unici ad amare il “Che” furono quelli dell’ex Primula, i neogollisti che leggevano Malraux e Kerouac, manifestavano a favore del Viet-Nam libero, contro i colonnelli greci, contro il trattato di non proliferazione nucleare che privava l’Italia e l’Europa della sua sovranità, a favore della scelta di De Gaulle di uscire dalla Nato e di restituire gli eurodollari al mittente… E fu l’incontro di Ferrara tra costoro - che avevano stampato e affisso, unici in Italia, un manifesto su “Che Guevara rivive in tutti noi” - e Jean Thiriart che dichiarava che “il più grande Viet-Nam sarà l’Europa” che aprì la strada alla loro unione su una linea di “sinistra nazionale europea”, con le occupazioni delle università, con i documenti anticapitalistici, per l’autogestione e la socializzazione delle aziende, contro il Vaticano, per la più grande Patria Europa, contro… il fronte rosso e la reazione. Lo slogan di battaglia contro il sistema e quindi contro la sinistra e la destra radicale fu, dappertutto, anche in Belgio, in Francia: ni front rouge, ni reation: avant avec la lutte du peuple. Né fronte rosso, né reazione: Avanti con la lotta di popolo. La Ferla si informi, prima di scrivere libri.
Ugo Gaudenzi |