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L'altro è per noi un mistero al quale bisogna accostarsi in punta di piedi

di Francesco Lamendola - 01/06/2009


Abbiamo già avuto modo di osservare che non è possibile rapportarsi direttamente all'oggetto, perché la sua essenza ci sfugge irrimediabilmente (cfr. il nostro precedente articolo «Non si può intuire direttamente l'oggetto, ma solo ri-crearlo internamente», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Così pure, abbiamo più volte richiamato l'importanza di rispettare il mistero che si cela  al fondo dell'anima umana (cfr. l'articolo «Ogni uomo meriterebbe di essere amato per ciò che di autenticamente divino c'è in lui», anch'esso su Arianna), per cui, quando l'oggetto a cui ci rapportiamo è un altro essere umano, dovremmo sempre eccedere in cautela quanto alla pretesa di averlo capito e trattenere la tentazione di emettere dei giudizi frettolosi.
La verità è che, dell'altro, poco o nulla sappiamo, per la natura stessa dell'atto conoscitivo: che è sempre un atto di introflessione, uno specchiarsi al proprio interno. Quello che possiamo realmente conoscere, al massimo (e sono pochi quelli che realmente ci arrivano) è la nostra interiorità; degli altri, possiamo avere una intuizione più o meno felice, più o meno fugace; ma poco di più, e, in genere, molto di meno. Sugli altri, infatti, noi tendiamo a proiettare le nostre paure, le nostre aspettative ed i nostri fantasmi: con quale risultato per la riuscita e l'armonia del rapporto interpersonale, è facile immaginare.
D'altra parte, dicevamo che gettare uno sguardo limpido anche su se stessi è cosa tutt'altro che semplice, e non tanto per una difficoltà di tipo quantitativo, quale quella ipotizzata da Freud e da tutta la scuola psicanalitica: come se si trattasse soltanto di scavare un poco più a fondo, per raggiungere la verità. Al contrario, la maggiore difficoltà è di tipo qualitativo: perché in noi ci sono molti io che poco o nulla sanno degli altri; e, se in condizioni favorevoli uno di essi prende la guida della coscienza e dirige gli altri, press'a poco come farebbe uj bravo direttore d'orchestra, altre volte succede che ciascuno di essi se ne va per proprio conto, col risultato che la coscienza diviene estranea a se stessa e non è più in grado di leggersi dentro (e forse, bisogna aggiungere, nemmeno desidera farlo).
Ecco, questo è il punto: una coscienza alterata e confusa, che non possiede lo sguardo sufficientemente limpido per leggersi dentro, meno ancora potrebbe vedere l'altro come egli effettivamente è, posti che neppure nelle circostanze più favorevoli la cosa si presenta  come effettivamente realizzabile, per l'incommensurabilità di ciascuna anima rispetto alle altre. È come se ognuna possedesse un proprio linguaggio, un proprio meccanismo conoscitivo, un proprio universo di valori e un spropri mondo affettivo, i quali non hanno niente in comune con quelli di un'altra anima.
È stato detto che, dove non può arrivare la ragione, può farlo l'amore; che l'amore, cioè, sarebbe l'elemento magico, capace di aprire tutte le porte e di gettare dei ponti da un io all'altro, da un'anima all'altra, colmando il vuoto che li separa e rendendo possibili la comprensione, l'affiatamento e l'armonia tra essi. 
Certo, è possibile che questo accada: ma quanto può durare?  L'amore umano è uno strumento a doppio taglio: oggi può gettare dei ponti fra due sonde, domani li può alzare, separandole inesorabilmente.
E poi, siamo sicuri che sia l'amore a rendere possibile la comunicazione profonda tra due esseri umani; oppure essa, allorché sembra realizzarsi (sembra!), avviene nonostante l'amore e a dispetto di essa, fonte primaria di confusioni, distorsioni e deformazioni nella percezione di un'anima da parte di un'altra?
Siccome si verificano dei momenti di grazia nei quali le barriere tra due io sembrano cadere miracolosamente, come le mura di Gerico al suono delle trombe di Israele, al nostro lato romantico - suggestionato da infiniti «topi» letterari, artistici e cinematografici - piace immaginare che ciò sua avvenuto per merito dell'amore.  Ma se così non fosse; e se l'amore fosse, semmai, non la causa, , ma l'effetto di quel subitaneo squarciarsi dei muri divisori, e della sensazione di fusione tra due anime che si cercavano e di desideravano?
In altre parole, l'amore potrebbe essere un premio, un dono (avvelenato, molto spesso) di un movimento dell'anima che starebbe a monte di esso. Ma quale?
Da parte nostra, sospettiamo che possa trattarsi dello STUPORE, del puro e semplice stupore; quasi della vertigine che assale l'anima, quando essa si pone con occhio limpido davanti alle cose, e, pur non essendo in grado di coglierne l'intima essenza, tuttavia riesce a intravederne la bellezza, la ricchezza e lo splendore, restandone folgorata.
Sia come sia, sembrerebbe che queste riflessioni ci debbano condurre verso un radiale pessimismo gnoseologico e, di conseguenza, affettivo: se non possiamo conoscere l'altro, pare inevitabile concludere che tutte le nostre relazioni con lui poggiano non solo su delle fondamenta terribilmente precarie ma anche illusorie; che poggiano, insomma, sul nulla.
Non esistono, dunque, vie d'uscita da un tale vicolo cieco? Illusione, disinganno, solitudine sono le inevitabili compagne di quel deserto affettivo cui si riduce, in realtà, la nostra esistenza, sfrondata delle sue ingannevoli apparenze?
Forse una via d'uscita esiste; ma è di natura tale, da richiedere all'anima un salto qualitativo eccezionale, che non si può improvvisare, né ricevere in dono da una qualche circostanza fortunata, ma che bisogna sforzarsi di realizzare mediante un lavoro incessante ed estremamente impegnativo su se stessi.
Si tratta di questo: imparare a guardare gli enti non come oggetto separati dall'Essere, ma come manifestazioni dell'Essere; in altre parole, bisogna imparare a vedere non solo le singole foglie, ma la foresta da cui scaturiscono. Chi sa vedere la foresta, può amare le foglie nel modo giusto: ma chi ama le singole foglie senza vedere la foresta, s'inganna, perché assolutizza qualche cosa che è relativo, cerca di ancorarsi a qualcosa che è mobile e fluttuante.
Saper vedere la foresta, vuol dire riconoscere la presenza dell'Essere; ed è quella presenza che conferisce la giusta prospettiva ed il giusto valore ai singoli enti e che ci permette di accostarci nel modo giusto al nostro simile: simile, ma al tempo stesso, così diverso, da risultarci come un perfetto sconosciuto.
Allora, sarà la consapevolezza del rapporto necessario che lega ciascun ente all'Essere, a fornirci gli strumenti per gettare dei ponti veri, e non puramente illusori, verso gli altri esseri umani; per creare delle relazioni interpersonali che non siano miseramente velleitarie.
Più precisamente, quello che rende possibile il superamento della distanza ontologica che separa le singole anime è il riconoscimento della dimensione eterna, della dimensione spirituale, della dimensione sacra che si cela in fondo a ciascuna anima, fosse pure la più decaduta e insozzata da tutta una vita di malvagie abitudini.
Riuscire a scorgere questo fondo sacro in ogni anima (vorremmo aggiungere: in ogni ente; ma è un discorso più ampio, che faremo un'altra volta), significa riconoscere il suo legame primario ed essenziale con l'Essere, la sua parentela con il divino; e, quindi, significa oltrepassare il luogo buio ed  intricato dei fraintendimenti e degli inganni, dove l'ente è visto come chiuso e isolato in se stesso, per accedere alla radura luminosa ove tutto diventa chiaro, trasparente.
Nel caso dell'amore fra uomo e donna, il riconoscimento di questo fondo sacrale è l'elemento che, solo, può mobilitare le forze positive e profonde che spingono all'unione e al completamento, in luogo delle forze maligne, egoistiche, che bramano il possesso in modo aggressivo e che godono non dell'armonia e del completamento, ma della divisione, della contrapposizione, del dominio e della ricerca narcisistica, con ogni mezzo, del potenziamento dell'ego.
Ha scritto Suzanne Lilar - membro dell'Academie Royale de Belgique, studiosa di filosofia, saggista, drammaturga, ammirata da scrittori come Bernanos - nel suo libro «Le couple» (Éditions Bernard Graset, 1963; traduzione italiana di Gianni Montagna: «L'amore. Storia e problematica» Brecia, Paideia, 1967, pp. 214-217):

«Francesco di Sales insegna che l'anima innamorata di Dio si cerca e si sceglie dei motivi d'amore. Essa li tira a sé prima di assaporarli. Cercare, scegliere, tirare a sé significa lasciar cadere il resto. Significa sottomettere ciò che si ama a una vera attività critica. Tuttavia l'amore sceglie soltanto per meglio adorare. Ora, tutto ciò che è di Dio, per definizione, è adorabile e sacro. Solo l'amore umano divinizza e consacra.
Ne risulta una relazione da stabilire tra la persona e il divino, il profano ed il sacro. Trattenendo nel suo crivello alcuni particolari per la loro esemplarità ed altri per la loro singolarità, l'amore non fa altro che ricavare i due termini di questa relazione. È probabile che acanto a ciò che c'era in D'Annunzio di più appropriato alle sublimazioni dell'amore divinizzante, di ciò che c'era in lui di più indiscutibilmente ADORABILE, Alessandra di Rudinì Carlotti si fosse messa ad adorare anche qualche particolarità d'intonazione o di portamento; il modo, poniamo, di tenere la spalla destra più bassa dell'altra o la cicatrice che aveva alla palpebra, l'odore della sua acqua di Colonia, o qualsiasi altra cosa incredibilmente profana e personale, ma il cui compito e la cui caratteristica fosse di rappresentare la singolarità del poeta chiaramente - benché simbolicamente - quanto un distintivo o una bandiera. In modo che, fondandosi su questo particolare, l'attività divinizzante potesse rassicurarsi ad ogni istante SULL'INTEGRAZIONE DELLA PERSONA.  Il vero oggetto delle consacrazioni amorose è di mettere a nudo questo apparentemente divino e di assaporarlo, nel senso mistico.
Raramente condotta a termine, questa esumazione appare come uno dei compiti più ammirevoli dell'amore. Perché, una volta raggiunta, non ci sono più "illusioni dell'amore", non c'è più inganno sul suo oggetto. La persona è realmente sacra nella misura in cui lascia trasparire il sacro.
C'è impostura soltanto se si distrae l'attenzione da questa trasparenza, se ci s'invischia in una adulazione beata della persona invece di venerare in essa "la scintilla divina" che attesta la sua filiazione. Qui è tutta la differenza dall'amore chiuso all'amore aperto. E nulla c'è da obiettare contro questa cernita alla quale procede l'amore, contro questo partito preso di trattenere l'uno e dimenticare l'altro, perché esso non fa che rimediare - fugacemente e nella misura del possibile - al disordine, non fa che sottrarre IDEALMENTE, mentalmente, la persona alla mescolanza, all'impurità adamica; si applica solo a restaurarla nella sua dignità originale, a risollevarla dalla CADUTA, dalla decadenza che consiste per l'anima nell'essersi allontanata dall'Uno per costituirsi dualità.
Così la generosità dell'amore, invece di ingannare e di lusingare, fa giustizia; la parzialità amorosa, lungi dall'esser cieca, penetra l'apparenza.
In verità, ogni essere meriterebbe, una volta almeno, di essere così guardato, amato, venerato in ciò che ha di autenticamente divino. E ogni essere vi è chiamato. È chiaro, infatti, che non sono i più belli e neppure i più giovani che, i quest'ottica, di discriminazione, offrono all'amore la sua più bella stoffa, ma le nature ricche, i "temperamenti", i corpi e le anime dotati di una bella vitalità. Talvolta scoraggianti, le bellezze perfette, come le anime votate alla bonaccia, offrono poca presa all'attività amorosa, non lasciandole niente da fare. Scoraggianti anche i corpi e le anime sgraziati che danno troppo da fare. Già Platone - nonostante il fanatismo greco della bellezza corporea - considerava superiore di un grado all'amore di un bel corpo quello di una "gentile anima in un corpo il cui fiore è senza splendore". Per piacere ad uno solo e profondamente, per risvegliare in lui un'attenzione appassionata, occorrono fortunatamente meno attrattive fisiche che per piacere ad una moltitudine e superficialmente. La nostra concezione bastarda, sviata dall'erotismo, ha sopravalutato l'importanza dei fattori fisiologici e delle tecniche di seduzione. Si tratta, per l'uomo, di una regressione verso la meccanica sessuale e l'erotismo animale. L'evoluzione dell'erotismo umano può avvenire soltanto nel senso di una presa di coscienza sempre maggiore. È una lunga dilucidazione dello spirito. Ma una tale PURIFICAZIONE non si rassegna alla brevità del desiderio; vuole la lunga, l'infinita pazienza del vero amore. Tutte le astuzie dell'erotismo moderno - che è già, mi sembra, l'erotismo di ieri - rimangono inoperanti a soddisfare la nostra vera sete che è spirituale. E la più bella, la più seducente, la più desiderata delle donne può morire - solitaria come un cane abbandonato - per la mancanza di un po' di quell'amore che il nostro mondo sdegna e che può sottrarre miracolosamente l'essere più sfortunato al suo decadimento  per stabilirlo in una dignità incomparabile.»

Parole talmente chiare, talmente acute e profonde, che non ci sembra vi sia proprio niente da aggiungere; ma soltanto da riflettere a lungo, facendo silenzio intorno.
Perché al mistero dell'incontro fra due anime bisogna accostarsi in punta di piedi: il più lieve rumore potrebbe spezzare l'incantesimo; ed ecco che, allora, l'immagine divina intravista nell'altro scomparirebbe, e non ci resterebbe fra le mani che un corpo banalmente nudo, simile a mille altri, e condannato a un'impietosa decadenza.