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Vita e morte tra cristianesimo e scientismo

di Emanuele Liut - 01/06/2009

Nella società italiana odierna, se togliamo una politica ormai fantasma e un’economia che si crede “non-gestibile” - data la fede nella ‘naturalità’ del libero mercato, sono due le grandi “correnti di pensiero” che fanno presa sull’uomo oggi, forgiandolo a propria immagine.

Da un lato ciò che rimane della Chiesa e dei suoi dogmi, dall’altro l’ambito scientifico o pseudo tale che ha fatto presa anche a livello popolare grazie all’informazione di massa (Piero Angela, Focus, etc…).

La forma mentis religiosa si è anzi mano a mano andata a unire, per sopravvivere alla modernità sradicante, alla cosiddetta scienza; sempre più ha cercato di trovare in essa una giustificazione, ancor più marmorea, alla sua fede altrimenti destituita dal relativismo imperante che ha finito, con ciò appunto, essa stessa per accettare. Invece di riscoprire l’antica mistica di una spiritualità, di un uomo che non vive di solo pane, anche la chiesa cattolica si è lasciata andare -grazie soprattutto a Wojtyla - alla cosiddetta secolarizzazione, a questa “modernizzazione” forzata che ci sta privando di ogni passato e futuro, nella stolta illusione di un oggi a tutti costi come unico valore.

vita-e-morte_fondo-magazineAllo stesso tempo la scienza si è accomodata in un atteggiamento fideistico che si avvicina molto alla visione dogmatica della chiesa: a volte arroccata in un’eccessiva ‘esperenzialità’, a volte troppo compiaciuta della sua ‘intellettualità’.

«La scienza come mezzo di stordimento, sapete voi di questo?» si domandava Nietzsche nella Genealogia della morale, paragonando lo scienziato, nel suo tumefarsi tra la polvere dei libri, al prete asceta, e con ciò ben lungi dal rappresentarne un contro-ideale.

Entrambe queste figure sono infatti l’espressione del potere odierno e di come esso non si identifichi nel solo apparato politico o giuridico ma, in maniera meno esplicita, sia annidato in tutti i meandri della cultura e abbia proprio lì il suo covo, ben protetto dall’autorità costituita. Le due cose sono anzi legate indissolubilmente: l’una ne accoglie i principi come motore della propaganda politica, l’altra ne difende in cambio i privilegi.

Tutto questo è basato sulla facile credenza che la scienza (così come la religione) sia immune da una scelta politica, che l’agire scientifico sia superiore alla politica e alla mancanza di moralità che questa contraddistingue. Si crede che uno scienziato sia a-morale, che sia super-partes, e con ciò gli si da credito mentre invece, qualsiasi atto umano è da considerarsi in sé come un atto politico ed etico, non di certo asettico e a maggior ragione quando contempla l’utilizzo massificato di tecniche invasive, di qualsiasi ambito esse siano. E il punto è che non ci si chiede quali effetti abbia tutto ciò sull’uomo e chi prova a dissentire - anche per il legittimo e salutare dubbio che dovrebbe accompagnare ogni innovazione - viene additato come fuori moda, estraneo alla morale del tempo, affossatore della modernità e delle sue presunte, stratosferiche, innovazioni.

Ma alla fine che abbiamo? Tecnogiochia invece che tecnologia, scientismo invece di scienza: allo stesso modo in cui la passionalità (il dimostrare di essere più che l’essere) ha soppiantato le passioni. Ed è qui il punto su cui batte Nietzsche quando vuole accomunare il prete asceta con lo scienziato moderno: la mancanza di una vera passione se non quella di un’erudizione fine a se stessa e rinchiusa nel castello fatato di una presunta scientificità.

In una necessaria visione olistica non possiamo che riportare questi temi, oltre che alla questione del, e per il, potere, anche alla umana sofferenza e al modo in cui l’uomo cerca di risolvere questo istinto di morte verso una presunta vitalità. Per cercare di rendere comprensibile quest’ argomento, possiamo pensare all’inferno cristiano: generalmente ‘il cristiano del 2000′ - e anche il “religioso più contadino” sembra, almeno apparentemente, non preoccuparsene più molto ormai - non ci crede più come, almeno suppongo, vi si credette in epoche meno tecnologiche e scientifiche di questa, in cui il popolo - avendo un grado di istruzione più basso credeva più facilmente alle superstizioni religiose. In ciò gli uomini dell’oggi hanno la loro piccola razionalità, si dice- nel non credere più a queste superstizioni. Ma poiché essi negano intimamente l’inferno (soprattutto per se stessi dato che se ne sentono immuni, in quanto credenti) appunto con ciò si negano una seria riflessione sull’oltretomba e sul suo significato simbolico. Indipendentemente vi sia o meno -e scientificamente non si può provare ne l’una ne l’altra eventualità-  non potrebbe questa credenza essere comunque, riscoperta in nuovo modo, più interessante? Un po’ come fecero i greci con il loro Ade?

Per ora, e già questa cosa da molto da pensare, mi limiterò a vedere come il cristianesimo abbia in qualche modo finito per unirsi alle idee del razionalismo scientifico nella sua deformazione scientista. E quest’ultima sappiamo essere la posizione degli agnostici per eccellenza: quelli cui Dante pose a dimorare tra la vita e l’inferno, nel limbo doloroso. Da parte mia, taglierei corto, lasciando al teologo-cameriere de La Via Lattea di Bunhuel la lieve e  ferrea sentenza: «Solo gli stupidi, non credo in Dio!»…

Ma a parte le credenze o meno, quel che conta è che in questo modo la questione della vita oltre la morte è ridicolizzata proprio da chi ne fa un baluardo della propria fede e di conseguenza ingiustamente negata, attraverso questo poco credibile inferno cristiano: il caposaldo delle più “poetiche” credenze essoteriche a cui, magnificamente, solo il Dante riuscì a dare un senso umano. L’Inferno è anzi la parte più riuscita delle Commedia, quasi che sarebbe meglio iniziare a leggerla dal Paradiso per trarne maggiore godimento.

Ad ogni modo, per tutti questi motivi il cristianesimo, per sopravvivere a una modernità appiattitrice delle tradizioni, ha dovuto inchinarsi al surrogato della razionalità scientifica. Negandosi infine con ciò la possibilità stessa di una spiritualità, mortale o immortale essa sia. E per riprendere infine le famose buone parole di Dostoevskij: «Se Dio non c’è, tutto è permesso».

L’uomo dell’oggi invece - e si badi bene, non “di oggi”, come se fosse una mera collocazione temporale, poiché egli, dall’oggi, è letteralmente posseduto… -  ha un finto rispetto per la morte e per la vita di conseguenza: il morire,  però, giace imperterrito dentro e fuori di lui e - a noi - par piuttosto spesso ch’egli, indaffarato proprio in ciò attraverso la sua quotidiana faccenda, non voglia ed aneli ad altro.  Allo stesso modo in cui cerca -non si capisce quanto volontariamente o meno-  la sofferenza: quasi la desidera! Senza essere troppo pessimisti, se guardiamo ‘esternamente’ -senza nemmeno avere la cura di scavare troppo a fondo- una buona parte degli uomini quasi non li vediamo in altro occupati se non nella ricerca della propria lenta morte nei vari metodi chimici, lavorativi, ideali,  morali,. . . Oppure mentre desiderano - più o meno consciamente - o causano - più o meno indirettamente - la morte o la sofferenza d’altri. In lungo e in largo vediamo come generalmente (anche quando ridono!) disprezzano la vita propria e altrui, prendendola ben poco sul serio. Tra le cause (ma qui cause e conseguenze finiscono per confondersi rendendosi indistinguibili) potremmo identificarla nel continuo bombardamento mediatico, che non facendo altro che “chiamare disastri”, ha finito per rendere irreale agli occhi della gente il bombardamento reale: ne è un esempio la desolante indifferenza, condita di buonismo, terrifica e divinamente bugiarda (senza offesa a Dio: capitemi la metafora…) con cui si assiste al proseguire di assurde e ben poco nobili guerre.

Tutto questo, soprattutto, evidentemente e sommamente irrazionale nelle sue giustificazioni “mediatico-religiose”, come l’oppressione Israeliana verso i palestinesi: così i tunnel - su cui l’ipotetica “mafia palestinese” (perlomeno così la descriveva un paio di mesi fa, proprio durante l’operazione “Piombo Fuso”,  il TGuno, ben guidato dall’opinione “scaltra” del buon Frattini) fa il suo “buiseness danaroso” ( a questo punto sembra con regolare gara d’appalto) - utilizzati in primo luogo per far passare generi di prima necessità, tra i quali giustamente le armi, divenute tali in questa situazione disumana.  Questi tunnel vanno quindi distrutti ma salvaguardando allo stesso tempo, non si sa con quali artifizi, il passaggio del cibo (ehm!?). L’intelligenza dello spettatore è presa in giro senza neppure troppi sofisticati stratagemmi: sembra anzi che più sia assurda la “spiegazione” dei fatti più sia poi “credibile” agli occhi dell’opinione pubblica, la quale par pure a volte compiaciuta -o forse semplicemente assuefatta- dall’”edificante spettacolo”. Pensiamo a “Ground zero” ma tutta l’ ‘eticità dei costumi’, come la definisce Nietzsche, è incentrata su credenze irrazionali che cavalcano l’onda emotiva.

Questi esempi contingenti, apparentemente fuori luogo per il tema che sto affrontando, sono invece l’emblema della paradossale idea, più generale, che sto descrivendo; la quale allargata alla situazione geopolitica di questo mondo pesudo-globalizzato, o nel micro della situazione individuale, vediamo presentarsi allo stesso modo.

Da qualsiasi prospettiva la vogliamo guardare, infatti, questa guerra perpetua è correlata paradossalmente alla sua paura, alla paura propria di chi la fa: se proviamo ad alzare nobilmente lo sguardo -trascendendo anche dall’odio che si può provare verso gli Stati Uniti e Israele in quanto oppressori del mondo - vedremo che, ad esempio, il modo di far guerra degli USA non è districabile da una loro paura per la guerra, di paura verso la vita in quanto guerra, nobilmente intesa… Vogliono starsene comodi insomma…e vigliaccamente spostare la guerra, quella loro personale forma di distruzione che chiamano esportazione della democrazia, per mantenere il loro ovattato “spirito” all’interno dei proprio confini e, cosa non meno importante, per mantenere quel buon 50 percento della popolazione obesa e stare competitivi nella produzione di grasso per scarpe, nonché di conseguenza nelle ultime tecniche per la liposuzione. . .

Ma torniamo propriamente al tema centrale del discorso: cos’è che rende l’uomo dell’oggi, che abbiamo definito a grandi linee come “sciento-cristiano”, così tenebrosamente -eppur giovialmente- paradossale nel vivere la morte e la guerra come lontane da sé? Sarà forse che la sua mente e il suo spirito sono occupati a prender troppo seriamente la morte?

La consacrano con tetri funerali e grigi cimiteri di cemento per esorcizzarla da sé, tenendola così, apparentemente lontano: la rendono altro da sé per non sentirla. La guerra la rinchiudono, invece della tomba, in televisione…

Tutto questo parlare  - e portare soprattutto! - di morte, questo tonto dilemma dell’eutanasia, del testamento biologico, come simbolo del più felicemente riuscito matrimonio tra “cecità religiosa” e “bieco scientismo”, ha finito per proporsi in una tragicità che è solo lo specchio di come la maggior parte degli uomini d’oggi affronta la vita: senza obbiettivi, come se non fosse reale, come se di reale vi fosse solo il tetro oltretomba, residuo inconscio che la razionalità scientifica nella sua ultrapessimistica deformazione scientista -per le suddette ragioni- non ha fatto altro che fortificare.

Quale sterile paradosso! Essi tremano così tanto di fronte all’Ade dal cercare di fuggirlo: eppur finiscono allo stesso tempo, senza rendersene conto… per cercarlo in mille modi capziosi! «Con questo infine possiamo ben dire che  non è in realtà la morte ciò di cui essi hanno paura, ma bensì della Vita!».

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