BABBO e figlio sono ancora accanto, e certo non soltanto perché oggi negli uffici della casa editrice il figlio siede vicino alla sagoma di cartone a figura intera del padre, che servì per la promozione di un altro libro, e ogni tanto alza gli occhi e la guarda, lo guarda. Ora che il Babbo (sempre con la maiuscola) non c'è più, è il figlio a portarne in giro per il mondo la storia, mentre ricerca e tesse in giro per il mondo la propria, di storia: con identica solitaria curiosità, con lo stesso fervore e la stessa «sprezzatura». Folco Terzani rischiò di chiamarsi Mao Terzani, e il libro estremo e commosso, solenne e divertito che il padre Tiziano gli ha consegnato è anche, fra tante altre cose, la storia di un uomo che visse con furore la speranza ideologica e che da vecchio giunse a definire sacrilega ogni idea di rivoluzione, perché non c'è rivoluzione se non interiore. Ed è insieme, fra molto altro, la storia di suo figlio, un giovane uomo che qui e ora guarda alla «straziante nebbia in cui vive la mia generazione, che non sa che cosa è certo e giusto», però la considera un'occasione, «perché noi possiamo cercare di capire chi siamo senza allacciarci a idee presistenti», e chissà che la mancanza del cappio ideologico non sprigioni davvero una rivoluzione.
Folco Terzani ha trentasei anni, precisamente due anni fa, nel marzo del 2004, ricevette un telegramma firmato «il babbo» (con la minuscola). Dalle aspre e magnifiche montagne appenniniche di Orsigna, dove era salito a morire, Tiziano Terzani gli chiedeva di raggiungerlo, e sedere a parlare insieme ogni giorno per tutti i giorni che gli sarebbero rimasti: per «un dialogo fra padre e figlio, così diversi e così uguali, un libro testamento che toccherà a te mettere insieme».
Il libro ora c'è, si chiama La fine è il mio inizio, titolo sontuoso che richiama un verso del poeta Eliot ma più ancora l'immagine del cerchio che si chiude, del viaggio terreno che ritorna al nulla iniziale, però avendo germinato: e così il libro, che è il racconto di una vita e anche di un'epoca, da una Firenze ancora pratoliniana all'America delle rivolte anni Sessanta al Vietnam alla Cina post-maoista all'India, si conclude con una fotografia di Tiziano sul letto di morte, barba bianca sotto lenzuolo bianco, sereno come soltanto chi ha vissuto l'avventura.
Nel telegramma in cui convoca il figlio, Terzani scrive: vieni, «ma solo a condizione che tu abbia finito il tuo lavoro», e quel lavoro erano tre anni fra i santoni dell'Himalaya per girare un documentario: precisamente fra quelle montagne, nella stessa solitudine e ricerca, dove già Tiziano si ritirava in eremitaggio. Sono i luoghi del mondo, alcuni luoghi e alcune persone, a unire padre e figlio, ciascuno nel proprio viaggio attraverso la vita. «Lui non era per nulla spirituale», dice Folco, «da noi c'erano moltissimi Buddha in giro, la casa sembrava un tempio, ma per ragioni estetiche. Io non ho mai capito il suo cammino, ma so che anche per il canone indiano è giusto così, che non si vada a sbattere nella spiritualità da giovani, che è bello arrivarci come lui da vecchi, mentre da giovani bisogna vivere il desiderio di azione». Lui, dice il figlio del padre, è arrivato alla spiritualità passo dopo passo, «ma erano sempre passi basati nella realtà, senza dio, senza concezioni astratte: era ostinato, la sua era una forma concreta di spiritualità».
Passo dopo passo, fino all'accettazione della sofferenza (lo raccontò in Un altro giro di giostra), fino al distacco dai desideri e dal corpo, fino alla morte: «la sua morte mi ha lasciato stupito, quando è morto come è morto mi sono chiesto: ma chi è questa persona?», dice ora il figlio del padre, e ricorda come i loro destini si sono incrociati ancora in un altro luogo e nell'incontro con un'altra persona, Madre Teresa di Calcutta. «Mio padre andò a intervistarla, ne rimase interessato ma non colpito. Anni dopo, io avevo studiato filosofia a Cambridge ma ero perduto, non capivo nulla, non avevo trovato non dico un maestro ma neppure qualcuno che assomigliasse a un maestro. Stavo male. D'istinto, sono partito per Calcutta. Arrivato lì, spaesato, ho chiesto dov'era Casa Madre, ho suonato il campanello, e poco dopo ero davanti a Madre Teresa. Lei mi ha detto: non farti tante domande, vai a lavorare fra i morenti. Sono rimasto quasi un anno. So quanto enorme sia stato anche per lei il costo del dare concretamente agli altri, giorno dopo giorno. Quando sollevi un uomo inscheletrito per le strade di Calcutta e il giorno dopo, morendo, lui ti guarda e ti ringrazia, sai perché sei lì». Un gesto semplice, e ti alzi ogni mattina sgomento e felice.
«Mio padre mi diceva di non esagerare, di fare un passo dopo l'altro, io invece sempre ho vissuto per sbalzi di passione e delusione, con fanatismo giovanile. Quando sono andato fra le giungle e le grotte dell'Himalaya per trovare e filmare i santoni che levitano, lui mi diceva: “non li troverai”». E Folco non li ha trovati. Poi però in un'altra foresta, in Amazzonia, una notte recente, al lume di una candela, mentre raccontava ad altri la sua ricerca infruttuosa, lui stesso, dice, ha levitato. Dunque ha trovato? «Ho imparato la logica della magia». Quando Folco e sua sorella Saskia erano bambini, fra Singapore e Pechino, il Babbo partiva e tornava, «ma non ho mai percepito la sua assenza, era sempre una figura di riferimento, discutevamo e litigavamo, anche mentre parlavamo per questo libro abbiamo fatto una litigatona e lui era contento, perché mi ha insegnato la forza e gli piaceva vederla in me pure se si ritorceva contro di lui». E anche quando Folco con ribellione filiale gli chiese «ma tu per gli altri che cosa hai fatto?» e Tiziano seccato gli rispose «ho scritto i libri» (compreso questo, dettato con sacrificio estremo), e quando altrettanta forza gli trasmetteva e trasmette la mamma Angela, «lui e lei erano come la luce e l'ombra, una cosa unica». E anche ora, in questo viaggio del figlio, senza più il padre ma comunque accanto a lui, nel mondo magico e nella magia del mondo, c'è sempre la coscienza umile di avere un privilegio. Quello di partire, vedere, fare esperienze. Ma poi tornare, a Orsigna, a Firenze, in questa Italia «spolpata e triste, che andrà cambiata, non è impossibile, bisogna fare qualcosa: e qualcosa si può fare qui, non negli Stati Uniti dove si fanno fregare dalla paura», e dove Folco anche vive e ha a sua volta un figlio... Delle ore e ore di dialogo puntiglioso e pieno di pathos fra Tiziano e Folco, le uniche che (magia!) il registratore non ha registrate sono state quelle in cui Tiziano ha parlato del futuro, «lui che era tostissimo e credeva nella forza ma era così preoccupato per il possibile disastro che era diventato pacifista, contro la sua stessa natura», e si era speso, già malato, con le Lettere contro la guerra e la celebre polemica contro Oriana Fallaci. Ma forse è giusto così, che il futuro non sia registrato e scritto da Tiziano Terzani, ma da suo figlio: e che la sua fine sia un inizio.
«La fine è il mio inizio»
La mia fine è il mio inizio è il titolo del libro di Tiziano Terzani, che Longanesi manderà in libreria dal 16 marzo (472 pg, 18,60 euro). Si tratta di una biografia parlata, il testamento di un padre che cerca di passare al figlio l’essenza di quello che nella vita ha imparato e soprattutto l’ultimo libro che Tiziano Terzani ha lasciato, l’ultima tappa di un lungo cammino per il mondo alla ricerca della verità. |