Il triangolo di ferro
di Dan Briody - 16/03/2006
Fonte: nuovimondimedia
Il triangolo di ferro Casa Bianca e affari sporchi: i segreti del gruppo Carlyle Dan Briody – Fusi Orari – pagg. 214 A Manhattan, tra la 76esima strada e Madison Avenue, si trova un edificio che, nonostante l’ostentata opulenza di tutta la zona – quel reticolato di vie regali che trasudano potere e prestigio – riesce comunque a spiccare per sfarzo e spavalderia: si tratta del Carlyle Hotel, un albergo per gente abituata al successo, una confortante dimora per coloro che trascorrono le proprie giornate tra sontuose gallerie d’arte ed eleganti boutique, in compagnia di teneri animali domestici rigorosamente di razza. Nell’estate del 1987, gli incontri al Carlyle Hotel tra David Rubeinstein – ex consigliere del presidente statunitense Jimmy Carter – e Stephen Norris, due tra gli uomini d’affari più influenti della Grande Mela di allora, si erano fatti più frequenti; i due manager, dopo aver guadagnato milioni di dollari facendo da intermediari in una serie di trattative che sfruttavano un’oscura scappatoia fiscale, stavano per dare vita ad una nuova società, il cui nome sarebbe stato un’omaggio al celebre edificio dell’Upper East Side e, volutamente, ne avrebbe evocato la magnificenza. A settembre la nuova creatura era nata: iniziava così la storia di Carlyle Group. Di certo, il progetto si presentava fin dalle sue prime fasi piuttosto ambizioso, ma nessuno dei suoi due fondatori avrebbe mai potuto pensare che il gruppo sarebbe diventato una delle società a capitale privato più potenti e di maggiore successo mai esistite, o che avrebbe gestito un patrimonio di quasi 14 miliardi di dollari e che avrebbe avuto più appoggio politico di un’impresa di Stato in un regime comunista. Tuttavia, più che per le sue performance aziendali, Carlyle si è resa nota per essere la società d’investimenti più controversa d’America. |
Attualmente Carlyle Group, una vera e propria piovra delle finanze internazionali, vanta un tasso annuale di recupero sugli investimenti del 34%, appartiene a 550 soci miliardari di 50 paesi diversi, si ramifica negli Stati Uniti come in Europa e in Asia, coltiva strette relazioni con tutti i paradisi fiscali sparsi per il globo. Nella sua storia figurano operazioni di copertura della Cia, vendite segrete di armi e, come accennato, un’impressionante collezione di coperture politiche. Sta tutta in questo trittico la legittimazione a parlare di Carlyle Group come parte integrante – o lato – di quel “triangolo di ferro” che dà il titolo al libro-inchiesta del giornalista newyorchese Dan Briody (Forbes, Wired, Red Herring, The Industry Standard). Il sottotitolo del volume sgombra il campo da ogni perplessità: “Casa Bianca e affari sporchi: i segreti del gruppo Carlyle”. Nel “triangolo” illustrato da Briody gli interessi dell’esercito più potente del mondo si legano a doppio filo con quelli del mondo politico e di quello dell’alta finanza. Sui tre lati stanno così il Governo, i militari, le imprese: il primo delinea gli obiettivi, i secondi effettuano gli acquisti necessari per raggiungerli, le terze “competono” tra loro per la fornitura del materiale richiesto. Il “triangolo” è riuscito a chiudere il suo cerchio? Le premesse sono buone perché – ci fa notare Briody – oggi Carlyle, avendo fatto dell’acquisizione di ditte appaltatrici della Difesa Usa il fondamento della propria strategia finanziaria, beneficia del più consistente aumento di spese militari della storia degli Stati Uniti d’America. Il saggio comincia con una puntuale cronologia che ripercorre tutte le tappe della parabola ascendente di Carlyle Group: si parte dal “prologo” del febbraio 1975, quando la Vinnell Corporation, una delle future compagnie di Carlyle, firma un contratto da 77 milioni di dollari per addestrare la guardia nazionale dell’Arabia Saudita; si va dalla fase di costituzione del gruppo Carlyle a tutta la seconda metà degli anni ottanta – la lunga fase di “avviamento” – e alla lunga battaglia vinta per il controllo della divisione difesa e aereospazio della Ltv Corporation nell’estate del 1992; da George Soros – un futuro investitore della Carlyle – che mette in ginocchio l’economia britannica speculando sul tracollo della sterlina alle dimissioni del co-fondatore Stephen Norris nel 1995; dall’acquisizione nel 1997 di United Defense per 850 milioni di dollari allo scandalo dei fondi pensione che si abbatte sull’ex tesoriere di stato del Connecticut, il quale investiva – anche su Carlyle – con i fondi pensione statali; dalle nuove commesse per Carlyle a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle (come commenta l’autore, “wartime is boom time”) alla nomina di Lou Gerstner, l’uomo che nello scorso decennio rivoluzionò l’Ibm, come presidente del gruppo nel novembre del 2002. Emerge come sia ricca e significativa la lista delle celebrità entrate negli anni nei quadri di Carlyle dopo aver ricoperto incarici pubblici e di quelle che li andranno poi a ricoprire: nel gennaio del 1989 Frank Gallucci, sei giorni dopo la fine del suo mandato come segretario della Difesa; nel febbraio 1990 George W. Bush, che viene nominato membro del consiglio di amministrazione della Caterair – società controllata da Carlyle dall’anno precedente – dal quale uscirà per manifesta incapacità nel momento in cui inizierà a concorrere per la carica di governatore del Texas; nel febbraio 1993 Richard Barman, direttore uscente dell’ufficio gestione e bilancio della Casa Bianca; un mese dopo James Baker III, dopo dodici ininterrotti anni al servizio prima di Reagan poi di Bush senior; nel marzo 1998 l’ex primo ministro del Regno Unito John Major, che nel 2001 diventerà presidente della Carlyle Europa. Persino Colin Powell ha lavorato per Carlyle. Tra i vari soci e consulenti figura anche Shafiq bin Laden, fratello del celebre Osama con il quale non ha (più) rapporti. E chissà chi saranno i prossimi. Basta pensare – ci fa notare Briody – a come, con l’ascesa al potere di George W. Bush, l’Ufficio Ovale ormai sia diventato zeppo di ex dipendenti, amici e soci in affari di Carlyle. Il canovaccio prosegue, capitolo per capitolo, narrando delle avventure del gruppo dei finanzieri senza scrupolo, delineanti la rete che unisce tra loro i tre lati del “triangolo”; una rete tessuta con metodicità da compagni di università e di partite a golf, da coloro che decidono le sorti del mondo nella hall di un hotel (naturalmente il Carlyle) o ad una festa in piscina, che in uno dei tanti incontri clandestini assumono l’uno la moglie (o l’amante) dell’altro; il tutto come in una soap opera della miglior specie. Briody presenta in un elenco tutti i primati stabiliti da Carlyle Group in America, una straordinaria successione di tanti “non era mai successo che”; non era mai successo che un presidente agisse in nome di una ditta appaltatrice della Difesa; non era mai successo che un ex presidente elargisse consigli a suo figlio, in carica, in merito a questioni di politica estera che influiscono direttamente sugli interessi economici di entrambi (come Bush senior nel giugno del 2001 fece con George W., invitandolo a rivedere la propria posizione sulla Corea del Nord alla luce degli interessi delle imprese Usa sulla penisola asiatica); non era mai successo che un’impresa a capitale privato del tipo di Carlyle aprisse i propri uffici a Washington, anziché in sedi più tradizionali come Chicago o New York; non era mai successo che una società raccogliesse un gruppo di personaggi in cui trovano spazio – oltre a tutti i big della vita politica statunitense – l’ex presidente delle Filippine Fidel Ramos, l’ex premier sudcoreano Park Tae-Joon e l’ex primo ministro tailandese Anan Panyarachun. Davvero sembra non sia mai successo niente prima di Carlyle. “Per l’America saranno anche tempi duri, ma la Carlyle ha il vento in poppa”, scrive Briody. In ogni caso, si può notare che, se per i primi dieci anni della sua storia il gruppo di New York è riuscito a schivare le luci dei riflettori, ultimamente le sue gesta hanno destato più attenzione. Alcune voci critiche negli Usa hanno parlato di “club degli ex presidenti”. Altre hanno paventato il rischio di ingerenze nella politica interna ed estera. L’ex deputata della Georgia Cynthia McKinney ha insinuato come George W. Bush abbia consentito che si verificasse l’apocalisse dell’11settembre per poter imporre lo sviluppo di una linea politica che sarebbe andata incontro alle esigenze di Carlyle. E non è stata l’unica ad avanzare questa ipotesi. Ciononostante, tutto ciò non sembra aver cambiato le cose di una virgola. Certo, Carlyle è stata oggetto di indagini dell’Fbi, è stata duramente criticata da alcuni parlamentari Usa, messa a disagio dagli scandali e denunciata dagli attivisti. Ma, alla fine, è sempre riuscita a far guadagnare montagne di soldi ai propri investitori, il suo scopo in vita. Dan Briody, immaginiamo tra chissà quali ostacoli e difficoltà, riesce nell’impresa di raccontare una storia dai contenuti più che mai ponderosi in una forma agile e snella. In realtà, colui che era stato intervistato da Michael Moore per Farenheit 9/11 “si limita” ad elencare una serie di fatti – come “I fatti” si chiama la collana della casa editrice Fusi Orari di cui Il triangolo di ferro fa parte – che realmente parlano da soli, e che, soprattutto, dai diretti interessati non sono mai stati smentiti. Fatti che palesano una storia di imbarazzanti scorrettezze, di monumentali conflitti d’interesse, di pericoli per la democrazia prima che di comportamenti sleali dal punto di vista del mercato. Ciò che stupisce di più è che il modus operandi di Carlyle negli Usa è diventato il modello di una nuova generazione di banche d’affari, le quali si affidano ai volti noti della politica per attirare investitori, capi di Stato stranieri, influenti gruppi d’interesse, partner commerciali. Un esempio è quello della Metropolitan West Financial di Los Angeles, compagnia che ha nominato vicepresidente Al Gore, uno che in materia di investimenti non ha certo accumulato troppa esperienza alle spalle. Con notevole preveggenza, nel 1961 Dwight Eisenhower così si congedò dalla carica di presidente: “Negli organismi di governo dobbiamo stare attenti a non lasciare spazio a influenze indebite, richieste o non richieste, da parte del complesso militare-industriale. La possibilità di un aumento disastroso del suo potere esiste ed esisterà sempre. Non dobbiamo mai permettere che il suo peso metta in pericolo le nostre libertà o il processo democratico”. Questo è Carlyle Group, questa è diventata l’America di oggi. |