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Iraq: non sanno più che fare

di Christian Elia - 17/03/2006

Fonte: peacereporter.net

 

Il vento sta cambiando
Il governo iracheno è paralizzato e si continua a morire, mentre negli Usa prendono coscienza del fallimento
Oggi si è tenuta la prima seduta del Parlamento iracheno eletto il 15 dicembre scorso. E' durata meno di un’ora ed è stata aggiornata a data da destinarsi. E’ stata una sessione puramente formale, visto che manca l’accordo sulla formazione del governo. Il Parlamento ha 60 giorni per eleggere il suo presidente e approvare la nomina del nuovo governo e del nuovo premier.
 
Paralisi politica. “Se il mio popolo me lo chiede, sono pronto a farmi da parte”, ha detto oggi Ibrahim al-Jaafari, primo ministro uscente. Il suo nome era stato indicato dall’Alleanza sciita che ha stravinto le elezioni come candidato premier, ma le divisioni all’interno del nuovo Parlamento hanno consigliato a Jaafari di fare un passo indietro. Il ritardo dell’accordo sul futuro mette in luce tutte le forzature che il voto del 15 dicembre scorso aveva mascherato. I 275 deputati riuniti nella sala del Parlamento, nella blindata ‘zona verde’ di Baghdad, sembravano l’orchestra del Titanic che suona mentre la nave affonda. Isolati e divisi tra loro, chiusi in una stanza a litigare mentre l’Iraq va in pezzi. Per questioni di sicurezza, dalle ore 20 di ieri sera e fino alle 16 di oggi, le autorità hanno imposto il blocco della circolazione nella capitale, ma questo non ha evitato che accadessero episodi di violenza. Solo nell’ultima settimana, sono stati ritrovati centinaia di cadaveri, legati tra loro, soffocati o assassinati brutalmente. La tensione tra sunniti e sciiti, dopo l’attentato di Samarra è sempre più evidente. Le comunità religiose si auto - organizzano in milizie di difesa, sulle quali il governo e i deputati non hanno alcun controllo.
 
Insorgono anche i curdi. Anche zone che parevano più tranquille, come il Kurdistan iracheno, danno segnali d’insofferenza. Oggi ricorre l’anniversario del massacro di Halabja, dove il 16 marzo 1982 gli aerei di Saddam usarono il gas contro la popolazione civile, uccidendo migliaia di innocenti. La commemorazione di Halabja era sempre stata un momento di aggregazione per i curdi, vessati da Baghdad. Ma oggi i dirigenti curdi giunti nella cittadina per la cerimonia sono stati accolti da centinaia di dimostranti inferociti. “Siamo stanchi delle promesse dei politici”, ha dichiarato Zacharia Mahmood, uno dei leader della protesta, “vengono qui solo per farsi pubblicità, ma non sono stati capaci di mantenere nessuna promessa. Sono tre anni che aspettiamo dei risultati, ma a Baghdad non sanno che pesci prendere”. La manifestazione è stata sciolta con la forza e la polizia ha sparato sui più facinorosi uccidendo un dimostrante. Ma si tratta di forme di protesta, mai viste in Kurdistan, verso gli stessi politici curdi. La rabbia è tanta che, dopo gli scontri, è rimasto danneggiato un simbolo del Kurdistan: il monumento che ricorda i curdi massacrati. L’insofferenza pare fuori controllo dopo tre anni di guerra che hanno portato alla caduta del regime di Saddam, ma che non hanno portato pace e sicurezza.
 
le salme dei militari usa tornano in patriaIl fronte occidentale. Anche gli Stati Uniti, dopo tre anni di guerra, sembrano essersi resi conto, a tutti i livelli, di aver sbagliato tutto in Iraq. “Abbiamo un dialogo con gli uomini armati che hanno come obiettivo gli interessi dell’Iraq, ma che si oppongono anche alla nostra presenza qui”. Zalmay Khalilzad, ambasciatore Usa a Baghdad, ha confermato il 12 marzo scorso in un’intervista quello che oramai era di dominio pubblico: gli Usa trattano con la guerriglia. Troppi militari Usa hanno perso la vita in Iraq e la situazione non sembra migliorare. La carenza di risultati nella campagna d’Iraq ha spinto molti personaggi favorevoli all’invasione a cambiare idea. Che il vento negli Stati Uniti abbia iniziato a cambiare, lo si era capito nei mesi scorsi quando, per la prima volta, i neo-con hanno cominciato ad avere dubbi sull’invasione dell’Iraq, che caldeggiavano dal 1998. "La democrazia non può essere imposta con la forza a un paese che non la vuole", ha dichiarato Francis Fukuyama il mese scorso. Al suo intervento sono seguiti una serie di ‘ripensamenti’ da parte di giornalisti, storici e intellettuali che avevano sempre sostenuto il rovesciamento forzato dei regimi mediorientali avversi.
 
La delusione a stelle e strisce. Un cambiamento che non riguarda solo i pensatori dei salotti culturali, ma che coinvolge anche la gente comune in Usa. Questa settimana un sondaggio effettuato dall’istituto Gallup, su richiesta del network televisivo Cnn, ha indicato che solo il 38 percento dei cittadini Usa sono convinti che le cose in Iraq stiano andando per il verso giusto. A gennaio 2006 erano il 46 percento. Un crollo verticale, dovuto anche alla mancata formazione del nuovo governo iracheno dopo l’entusiasmo mediatico suscitato dalle elezioni in Iraq del 15 dicembre scorso. Ma non è solo l’opinione pubblica ad aver perso la fiducia nella gestione della guerra in Iraq da parte dell’amministrazione Bush. “La nascita di questa Commissione è stata caldeggiata da alcuni membri del Congresso, che sentivano la necessità di una valutazione onesta sulla situazione attuale in Iraq”. Con queste parole James Baker, ex segretario di Stato ai tempi di Bush padre, ha commentato la nascita di un gruppo di lavoro composto da funzionari di primo piano della politica Usa, che si occuperanno di studiare politiche alternative per l’Iraq. Il gruppo, composto da 5 repubblicani e 5 democratici, ha cominciato a lavorare ieri e si avvarrà del contributo di personaggi di spicco della politica statunitense, come l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, Lee Hamilton (che ha co-presieduto la commissione d’inchiesta per l’11 settembre) e l’ex direttore della Cia Robert Gates. A loro si affiancheranno, come tecnici, militari e diplomatici. Baker non ha voluto esprimere un giudizio sulla guerra in Iraq, né positivo né negativo, ma il solo fatto che il Congresso prenda un’iniziativa del genere è indicativo di un certo clima di sfiducia verso la banda Bush.