di Giulietto Chiesa, in uscita su Galatea di ottobre '05
Ha scritto "The Nation", che le elezioni in Afghanistan"si sono svolte in un'atmosfera caratterizzata dalla violenza e dalla insicurezza". L'intero processo elettorale, del resto, è stato un susseguirsi di irregolarità di ogni genere e tipo, con violazioni di tutti gli standards occidentali ad ogni passo del procedimento preparatorio: dalla definizione delle liste elettorali, cioè dalla registrazione degli elettori, alla presentazione e accettazione dei candidati, inclusi diversi e numerosi episodi di liquidazione fisica degli stessi o di tentativi più o meno riusciti di realizzarla.
E' stato comunicato, dagli uffici del presidente Hamid Karzai, che corrispondono alla Commissione elettorale centrale, che si sono recati al voto "all'incirca" il 50% degli aventi diritto. Numero approssimativo quant'altri mai, come non può che essere altamente approssimativa la stima di coloro che, uomini e donne coperte dal burqa, si sono recati alle urne (quante urne, in quanti posti, in fondo a quali vallate e sotto il controllo di chi?) alla data del 18 settembre 2005.
Una buona metà del paese, gran parte del sud e delle regioni confinanti con il Pakistan, è in guerra, zona operativa di Enduring Freedom. Intere zone non sono in alcun modo sotto il controllo delle forze governative e americane.
Interrompiamo un attimo l'elenco delle ragioni per cui pare impossibile qualificare come 'fair' queste elezioni. Anche per dare il dovuto rilievo alla dichiarazione del commissario Ferrero-Waldner, che afferma di considerare le elezioni afghane come "una giornata storica e un'ulteriore pietra miliare sulla strada della pace e della stabilità, che l'Afghanistan ha intrapreso fin dalla fine del 2001". Cioè, a quanto pare, dopo la fine della guerra scatenata dagli Stati Uniti.
Alla signora commissario vorrei solo chiedere se ha idea di dove fossero collocati gli osservatori dell' Unione Europea, durante le elezioni. Ferrero-Waldner afferma che erano, dal 6 agosto scorso, "nelle varie zone del paese". Molto generico. Secondo ogni informazione la gran parte di loro erano concentrati a Kabul, qualcuno a Jalalabad, qualche altro a Mazar-i-Sharif, forse.
E il resto del paese chi lo controllava? E in tutti i mesi precedenti dov'erano gli osservatori internazionali?
Banale, ma utile da ricordare: semplicemente non erano là dove avvenivano gli eventi. E non per ignavia: semplicemente perchè non potevano esserci, per ragioni di sicurezza e d'incolumità. Ha un bel congratularsi, la commissario Ferrero-Waldner, per "il coraggio e l'entusiasmo" dimostrati dal "circa" 50% degli afghani, ma di elezioni democratiche si può parlare solo quando non occorre "coraggio" per andare a votare.
Se, per esercitare un diritto, occorre coraggio, allora della democrazia ci si può scordare tranquillamente, perchè non tutti coloro che hanno il diritto hanno anche il coraggio. E, come diceva Don Abbondio, uno il coraggio non se lo può dare.
Scherzi a parte, il problema è che noi occidentali continuiamo a sbattere la testa contro le prove della impossibilità di esportare la democrazia, anzi - per essere precisi - la nostra democrazia. Anzi, per essere ancora più precisi, quella strana cosa che noi chiamiamo democrazia, ma che si riduce drasticamente al cerimoniale del mettere una scheda (non importa come sia stata formata) in un'urna.
Questo lo possiamo esportare e, infatti, l'abbiamo esportato in alcune parti del mondo, con risultati a dire il vero, molto deludenti. Perchè questa non è democrazia, ma un suo simulacro, una sua ombra tenue. La democrazia è qualche cosa che nasce e si sviluppa in una data società, come un prodotto collettivo, come un'abitudine, come un insieme di regole comuni che vengono accettate proprio perchè comuni; regole che sono il frutto delle tradizioni, del comune sentire. Noi esportiamo elezioni, non democrazia, e poi ci illudiamo che i popoli - che vivono in altri tempi storici - siano diventati d'un tratto, in qualche mese, democratici.
Ma loro, che pure qualche volta partecipano a queste cerimonie che noi gli esportiamo gratuitamente, le vivono come a loro pare, come sono in grado di capirle. Che è invariabilmente assai diverso da come noi crediamo di conoscerle. In Irak andarono a votare gli sciiti e i curdi. Indipendentemente gli uni dagli altri, seguendo i primi gli ordini dei mullah, e i secondi quelli dei loro capi tribali. Ma cosa ha a che vedere questo con la democrazia nostra? Niente, proprio niente. Anche perchè i sunniti non sono andati a votare per niente, proprio per niente. E quindi di democrazia in Irak non si può parlare.
Anche in Afghanistan circa sei milioni sarebbero andati a votare. Meno della metà, ma - qualcuno potrebbe dire - meglio che niente. E sicuramente quelli che ci sono andati di loro volontà lo hanno fatto perchè sperano in una situazione in cui certe regole vengono ripristinate, la guerra e le violenze cessino, sia dato spazio al libero commercio, si possa muoversi sulle strade senza essere taglieggiati, si possa tornare a lavorare nei campi senza essere costretti a fuggire ogni volta che si avvicina un signore della guerra con i suoi scherani.
Ma - citando di nuovo "The Nation" - quale che sia il governo eletto, esso "dovrà dire all'America che la sua presenza militare costituisce la più irritante giustificazione per una resistenza armata che continua".
George Bush, invece, vorrebbe che gli afghani diventassero democratici (all'americana naturalmente), ma sotto occupazione militare. Buoni e zitti. Purtroppo per gli Stati Uniti non avverrà così. Ma l'errore ottico dell'occidente continua e si propaga senza sosta. Fonte di delusione e di altri errori e guerre.
Ci è stato raccontato che 135 mila urne erano state predisposte, e che i candidati erano oltre seimila. Ma non c'erano partiti, vietati rigorosamente. Eppure in Afghanistan, anni addietro, i partiti politici sono esistiti. Ma queste elezioni sono state organizzate sotto imperativi di sicurezza così pressanti da non poter consentire nemmeno una loro fugace riapparizione. Invece di andare avanti queste elezioni hanno fatto un passo indietro. Inutilmente, per altro, perchè i comunisti delle diverse correnti sono riapparsi, come sono riapparsi i taliban, come è certo andranno a sedere sui seggi parlamentari quasi tutti i capi guerrieri, come vi siederanno i grandi padrini della droga.
Per chi si è votato, dunque? Per candidati individuali. Gli elettori di Kabul di candidati ne avevano quattrocento sulla loro scheda. E gli elettori che sapevano leggere e scrivere - che sono la netta minoranza - avrebbero comunque dovuto ritrovarli su quel lenzuolo colorato che dovevano piegare in quattro per infilarlo nell'urna.. Penso che anche in Italia, o in Svizzera, un elettore normale avrebbe fatto parecchia fatica a raccapezzarsi. Figuriamoci in un paese per quattro quinti analfabeta e per i cinque sesti senza luce elettrica!
E poi - questione assolutamente decisiva – non è nota la composizione etnica dei candidati. Dire che ce n'erano 6038 (di cui 2838 concorrevano per i 249 seggi della Camera bassa, o Wolesi Jirga, mentre i restanti si contendevano i posti in uno dei 420 consigli provinciali) non significa niente se non si precisa quanti erano i pashtun, quanti i tagiki, quanti gli uzbeki, quanti gli hazarà. Chiunque conosca l'Afghanistan sa che la ripartizione etnica della rappresentanza conterà più di ogni altro criterio. Per esempio i taliban erano pashtun, ma non erano tagiki e uzbeki. Come verranno garantite le proporzioni?
Quale ripartizione è stata garantita, a chi, da chi, e come, non è noto. E quel poco che si sa non è incoraggiante. Piccolo esempio: la comunità nomade dei Kuchi sarà rappresentata in parlamento da dieci seggi, mentre gli hazarà, che sono di gran lunga più numerosi, ne avranno solo cinque.
Non solo gli elettori, ma anche gli eletti saranno in maggioranza analfabeti. E le liste elettorali come sono state composte? Quali autorità amministrative le hanno compilate? E sotto quali controlli? Altro mistero pressoché impenetrabile.
Adesso, nonostante gli entusiasmi lontani della commissario Ferrero-Waldner, quelli che sanno come stanno le cose cominciano a dire che la democrazia in Afghanistan sarà una cosa lunga, che "la comunità internazionale dovrà essere coinvolta per un numero di anni, imprecisato, a venire".
Ma - chiedo - non avremmo dovuto saperlo in anticipo e da gran tempo, anche noi?
I risultati, per intanto, non arriveranno prima di un mese. Dove abbiamo esportato la democrazia, come in Russia, l'unica cosa che i nostri discepoli, da noi liberati, sono riusciti a imparare è come truccare le elezioni. E siccome leggono i giornali anche loro, avranno visto che se il presidente Bush riesce a falsificare due elezioni presidenziali di seguito, una dietro l'altra (la prima volta, quattro anni fa, in Florida, la seconda, nel 2004, in Ohio) penseranno - e come dare loro torto? - che la democrazia è proprio questa cosa qui.