Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Una pagina al giorno: Morire, e poi?, di Bonaventura Tecchi

Una pagina al giorno: Morire, e poi?, di Bonaventura Tecchi

di Francesco Lamendola - 19/06/2009


tecchi.jpg
 

Dal romanzo di Bonaventura Tecchi «Gli egoisti» (Firenze, Bompiani Editore, 1959, 1980, cap. XIII, pp. 292-98):

«… Qualche cosa di amaro incominciava nelle loro relazioni. Jeanne aveva da parecchio tempo l'impressione che Fauni la schiacciasse con la superiorità del suo ingegno, con la secca implacabile  consequenzialità dei suoi assiomi. Aveva l'impressione che le impedisse di pensare, perfino di sentire a modo suo. E questo lei non lo voleva, si ribellava.
Tale cambiamento coincise con 'aggravarsi della malattia, con l'apparizione di un pensiero che, in un animo fino allora fiducioso di guarire, apparve come terribile: la sfiducia di guarire, la quasi certezza di finire."
Come fai a dire, - saltava sú a controbattere Jeanne dalla sua poltrona -, sulla quale passava ormai quasi tutta la sua giornata - come fai a dire che ti pisce il mio gusto della vita, la penetrazione di piccole cose particolari, di piccoli moti dell'animo, se anche l'anima umana - tu me lo dici, me lo hai insegnato cento volte - è soltanto energia, e l'energia è massa e la massa è materia? Che cosa vuoi che sia l'anima, la vita di uno solo, in confronto alla macchina dell'universo che tu vedi con tanta spaventosa chiarezza?".
Quest'idea della piccolezza dell'anima umana, della sua fragilità in mezzo a tante invenzioni nuove, di fronte all'immensità di quei mondi che Fauni, studiando l'infinitamente piccolo, presumeva di arrivare a conoscere e un giorno forse a vedere o ad averne notizie, era quella che più l'angosciava. E nella sua ribellione c'era qualche cosa d'infantile, e insieme di tragico.
"Ma come puoi pensare -, chiedeva amara ed impetuosa a Roberto, "come puoi pensare che l'anima umana, quella che tu chiami intelligenza, la quale è stata capace di tante meraviglie e domani arriverà forse a scoprire mondi nuovi, possa disintegrarsi, non essere più nulla, alla pari di un sasso o di una bomba?".
"Come coscienza individuale, sì -, ribatteva calmo Roberto - ma come intelligenza, o meglio forza energetica, anche se non si distinguerà più dalle altre, continuerà a vivere nell'armonia dell'universo".
"A me di questo non importa nulla!-, diceva Jeanne, e la mossa della mano dietro i capelli si allentava, gli occhi prendevano una tinta cupa di malinconia, - a me di questo non importa nulla. O sasso o genio, se non avrò più coscienza di me…L'armonia dell'universo, il tutto, sono per me troppo vaghe parole, e inconcludenti. O è cosa troppo grande".
Nel diario di Fauni, sotto la data del 29 settembre, comparve questa frase: "È difficile parlare con lei. Il fervore romantico in netta prevalenza." E subito dopo: "Ma queste donne del nord come son fatte!".
Fu il giorno in cui Jeanne gli si ribellò con più risolutezza di sempre, quasi passando all'accusa.
"Ma tu -, gli disse mettendosi a sedere sul letto, e il povero corpo, diventato magrissimo, apparve in tutta la sua debolezza, - ma tu perché hai tentato di distruggere in me la speranza?".
"Quale, cara, quale speranza?".
"Ma sì, la speranza di esistere 'dopo'".
"Ma, io non ho detto nulla".
"Sì, che l'hai detto, cento volte. Ed io - ribatté Jeanne, quasi con lo stesso scatto fanciullesco  con cui aveva risposto quella sera di vento a Nizza davanti alla bottega dell'antiquario - io non voglio soltanto questa vita, io voglio un'altra vita".
Roberto fauni non osò sorridere. Una specie di nebbia gli parve che sorgesse nella stanza, da tutti gli oggetti che aveva d'intorno, invadesse il letto in cui Jeanne era distesa. Temette che quella nebbia stesse per invadere anche il suo cervello.
Lo incontrò Contarini quella sera in uno dei corridoi della clinica. Non osò domandare. Contarini era ormai senza speranza. Consigliò soltanto al nipote la maggior cautela possibile, consigliò di condiscendere a ogni desiderio o volontà o capriccio: di non contrastare.
Come se gli leggesse sulla fronte, nello spazio breve fra le due sopracciglia che Roberto aveva folte e lunghe, Contarini vide con estrema lucidità la lotta che avveniva nell'animo de nipote fra una specie di dura volitiva ambizione, la volontà e l'ambizione di chi sa, o crede, di essere in possesso di una "verità" - di una pretesa sgradita "verità" -, la difficoltà di nasconderla completamente o almeno di dissimulare e, invece, dalla parte opposta, il desiderio d'essere pietoso.
Contarini vide, e capì anche questo; e la figura del nipote da quella sera gli fu meno enigmatica..
Nel diario di Fauni, sotto la data del 1 ottobre 19…, ci fu questa novità: "Cambiamento in Jeanne, una certa dolcezza".
La dolcezza era nata meravigliosamente dall'aver portato in fondo, con coraggio, un pensiero. Da un contrasto.
L'idea della piccolezza dell'anima umana, della sua fragilità, della possibilità di perdersi nel nulla, aveva recato per contraccolpo, come una misteriosa rivalsa della sofferenza, l'idea della nobiltà dell'anima umana, della sua dignità e grandezza. Proprio nel dolore, e perfino nel dubbio. Perfino nella possibilità e nel tormento di dubitare l'anima testimoniava il suo valore… Ma, anziché trovare in questo sentimento un senso d'orgoglio, Jeanne aveva sentito nascere, nello stesso momento, un'impressione d'amore, di riconoscenza verso una potenza più alta e benefica, nelle cui mani sempre le sembrava di esser stata, anche quando, presa dalla passione delle sue osservazioni minute in cui era brava, aveva poi tentato di passare a cose più grandi.
A quella forza sentiva ora d'abbandonarsi con fiducia. Facesse di lei quel che voleva.
Era come un amore nuovo, che non conosceva e che pure le sembrava d'aver conosciuto sempre. Ma - ed era la cosa non meno strana - insieme con questo amore nuovo rinasceva l'amore di sempre: quello per Roberto.
Non più però con un senso di paura, come contro qualcuno che le era superiore e minacciasse di soffocarla; neppure più con la voglia di discutere e di contrastare per non essere sopraffatta; ma invece con un desiderio di tenerezza e di protezione, quasi come verso una creatura, in fondo, debole, come lei. Non sapeva per quale ragione, ma le sembrava in quei giorni che se Roberto si fosse trovato in una situazione di pericolo come era la sua, se domani per esempio si fosse trovato sperduto in un viaggio avventuroso e terribile in mezzo agli astri, avrebbe avuto anche lui timore, come aveva timore lei, che adesso era in procinto di partire.
A questo nuovo stato d'animo corrispondeva una calma, anche nell'aspetto esterno, una serenità che meravigliò tutti.
Era ridiventata la Jeanne di Èze, benché debolissima nel corpo, ma con quel piglio d'indipendenza, di estro, e insieme di dolcezza che formavano la sua personalità. E con una cosa nuova: un senso materno, che fin allora in lei non si era completamente sviluppato.
Di questo cambiamento s'accorse il marito e sentì una punta di tristezza; come se avesse preferito le irrequietezze e i capricci e le irascibilità, le puntate amare contro di lui, e le violenze di prima.
Fu una sera che Jeanne lo chiamò più vicino del solito al suo letto, egli disse con un'aria tra di scherzo e di pena:
"Ho da dirti una cosa importante, Roby".
"Dilla".
"Lo sai che una volta, quando stavo bene, sono stata crudele con te?".
"Come, crudele?", chiese fauni quasi incredulo.
"Sì - disse Jeanne sorridendo, - pensavo che saresti morto prima te…".
"Ma è naturale, cara, che tu pensassi così. Io sono più vecchio".
"Oh, vecchio! -, disse lei. - Appena cinque o sei anni più di me", e lo guardò: così alto era, robusto e forte. E ancora l'occhio di Jeanne ebbe, guardandolo, un attimo non più di paura ma d'ammirazione e d'amore.
"Sì -, disse - pensavo che sarei diventata una vecchia vecchia signora, molto piccola e risecchita, proprio come la nonna, o almeno saremmo invecchiati insieme e che tu mi avresti accompagnato, sai?, dico così, mi avresti presa per mano, mi capisci?… Che non sarei mai stata così sola e debole e timorosa, e che tu mi avresti accompagnato anche…".
"Come vuoi che t'accompagni?", chiese ingenuamente Roberto.
"Oh -, fece lei - sei proprio come un bambino". E lo guardò, non più stizzita, quasi con tenerezza, come se fosse lei ancora a proteggerlo, a non lasciarlo solo in questo viaggio nel mondo, e di là dal mondo.
Fu allora, in quell'aria quasi incantata che ella gli disse:
"Roby, io ti ho sempre tradito".
"Come?", fece Roberto, spaventato e insieme sorridente, perché incredulo a quella strana rivelazione.
"Sì, Roby, anche quando non lo sapevi… Tu mi hai insegnato troppe cose, tu volevi che io capissi troppo. E io invece volevo soltanto adorare".
Passò un momento di silenzio. Poi riprese:
"Questo è stato il tuo sbaglio, e questo è stato il mio tradimento. Anche quando ti piacevo nelle osservazioni delle piccole cose, non gi sei accorto che quel modo di osservare e di amare e di lodare, era come una preghiera verso un Essere più alto… Scusa, Roberto, adesso io lo so".
Da quel momento, da quando le parve d'avergli detto tutta la "verità", fu più ferma, più chiara nelle decisioni.
Sua nonna e sua madre avevano appartenuto sempre a una confessione molto rigorosa di protestanti, di cui c'erano ancora alcuni seguaci nell'interno della Svezia. Nella famiglia di Jeanne, per parte materna, era come una tradizione.
Disse dunque che, anche se il marito non fosse stato d'accordo, voleva vedere, se non un rappresentante della sua confessione che certo difficilmente si sarebbe trovato a Roma, un pastore protestante.
Temé per un momento che non fosse possibile, che le suore, cattoliche, si sarebbero opposte all'entrata di un pastore.
Non fu, naturalmente, così. E in mezzo alle suore passò più d'una volta la figura del pastore svedese. Venne al suo letto; parlarono insieme.
Si affisò così una sera che c'era poca luce, nella seta lieve della stola di quel pastore che non apparteneva alla sua confessione. Era come se sognasse… Una barca passava lenta, quasi immobile, nella luce di un tramonto che non finiva mai, sulle acque lisce di un lago, davanti ala stanza di Stoccolma dove c'era la piccola "roulette" con la serie breve eppure mai finita dei numeri, dei misteriosi numeri dalle combinazioni e dai contatti infiniti.
Era, quella sera, come se la seta lieve della sua intelligenza, minuta e vibrante, capace di piccole acute osservazioni e insieme di fuggire più oltre; la delicata seta, in cui Roberto fauni aveva sperato di poter far trascorrere la sua vita, adagiare pacificamente i suoi pensieri di scienziato e che invece s'era, secondo la sua espressione, impigliata nelle frange del mistero.
Morì il giorno dopo, verso notte.»

Jeanne, la giovane donna svedese moglie dello scienziato Roberto Fauni, non è uno dei personaggi principali dell'importante romanzo di Bonaventura Tecchi «Gli egoisti»; pure, il dramma della sua malattia - la tubercolosi - e della sua morte, offre allo scrittore viterbese l'occasione di delineare una delle più soavi figure femminili della propria narrativa.
Jeanne è la donna innamorata della vita che non vorrebbe morire; che lotta per guarire, per continuare a vivere; ma che, quando si rende conto  che la fine si avvicina, riesce ad operare in se stessa, raccogliendosi nelle profondità della propria anima, la più straordinaria metamorfosi di cui un essere umano sia capace: la trasformazione del male in bene.
Come Manzoni, anche Tecchi era ossessionato - si direbbe - dal mistero del male, del dolore che colpisce l'innocente; e, come lui, non sale in cattedra e non grida ai quattro venti che, con la fede cristiana, quel mistero è svelato e che non c'è nulla di cui preoccuparsi, perché tanto, alla fine, il bene trionfa sempre. Niente affatto: per Tecchi, come per qualsiasi vero cristiano, il mistero del male rimane tale: nessuno ne possiede la chiave, neanche l'uomo di autentica fede.
Tutto quello che il cristianesimo può fare, è di additare un esempio: l'esempio sublime del Maestro: che non grida e non si ribella, ma che dice al Padre: «Se è possibile, passi da me questo calice; tuttavia avvenga non quello che voglio io, ma quello che vuoi Tu»; e che, ancora nell'agonia della croce, rivolge un pensiero d'amore per i suoi carnefici: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno»
Ecco: quello che fa Jeanne è accettare la volontà divina, abbandonarsi al mistero del male e della morte, con un supremo atto di fiducia che lo priva del suo carattere di sconsolata ineluttabilità e lo trasforma in una offerta volontaria, e perciò rasserenata.
La giovane donna, peraltro, non deve misurarsi soltanto, e in completa solitudine, con il mistero del dolore e della morte, della propria morte; deve anche affrontare la prova più difficile: quella di muovere gli ultimi passi in compagnia di un marito che ama, e dal quale è riamata, ma chiuso e corazzato nelle proprie gelide certezze materialistiche, fermamente convinto che la morte sia la fine di tutto e che l'idea della sopravvivenza dell'anima non sia altro che una favola consolatoria inventata dagli uomini per paura della morte.
La prova cui è chiamata Jeanne dalla provvidenza è, dunque, doppiamente faticosa: quella di morire giovane e piena di vita, e quella di conservare la dimensione della speranza, senza smettere di amare l'uomo che per anni ha cercato di soverchiarla con la sua pretesa verità razionalistica, facendo violenza alla sua anima ardentemente assetata di eternità.
Eppure, il miracolo si compie: Jeanne non perde la speranza e non smette di amare il marito; non smette di amare neanche la vita. Non si prepara a morire svalutando la vita, in modo da anestetizzare la propria angoscia; al contrario, si prepara a morire conservando la fede nella bellezza e nella suprema dignità della vita; e, tuttavia, fiduciosamente aperta verso quella dimensione ulteriore che il suo cuore, per vie misteriose, continua ad additarle.
Questo, dunque, è il grande mistero di cui Bonaventura Tecchi ha voluto essere il sommesso cantore; un mistero cosmico: quello per cui Dio riesce a trasformare il male in bene, a servirsi anche dello stesso male per realizzare il bene, agendo attraverso l'interiorità degli esseri umani. È il mistero della provvidenza, il mistero della Grazia: che - come per Manzoni - non agisce dall'esterno, come un «Deus ex machina», ma fa leva proprio sulle profondità insondabili dell'anima.
Lo aveva già detto Sant'Agostino: è l'anima umana il mistero più grande; è in essa che si compie e si rinnova continuamente il dramma della caduta e della redenzione, perché è in essa che agisce la potenza infinitamente benefica della Grazia.
Bonaventura Tecchi, uno dei pochi scrittori italiani che hanno visto e misurato tutto il dramma della scomparsa della civiltà contadina, mentre la maggioranza si lasciava abbagliare dalle luci ingannevoli del «miracolo economico», sapeva che il mondo moderno è particolarmente esposto alla perdita dei valori, all'inaridimento, alle tentazioni simmetriche e complementari dell'orgoglio e della disperazione; e, più di molti altri, si è chinato, con dolente partecipazione, sul dramma della solitudine e dell'angoscia dell'essere umano in un mondo ormai dimentico della presenza divina, con una particolare attenzione e sensibilità per la condizione della donna.
Ha osservato a proposito di questo romanzo il critico e scrittore trevigiano Ferruccio Mazzariol nel suo libro «I capelli di Sansone. Narrativa della Grazia e dell'esilio, Treviso, Editrice Santi Quaranta, 1989, pp. 69-70):

«"Gli egoisti", che è del 1959, pone al suo centro "la misteriosa collaborazione del male col bene, del basso con l'alto". Ha scritto Giorgio Petrocchi: "Il romanzo è concretamente costruito su una serie di precise circostanze narrative, che si chiariscono dalla scena iniziale: un banchetto in casa del medico Contarini. Si fronteggiano l'egoismo e la carità, quest'ultima impersonata nell'unica figura di 'presenza del bene', un sacerdote inglese; l'egoismo si adatta via via agli altri personaggi assumendo le forme di un gelido e crudele distacco (il fisico Roberto Fauni), di una bonaria spregiudicatezza (un monsignore romano), di una moralità accanita e compiaciuta (un docente universitario, Fausto Almirante), di una solitaria sofferenza (lo scrittore Marcello Rudòr)". L'opera si caratterizza come un itinerario di redenzione, che culmina in queste parole di Marcello Rudòr: "Vincere i dèmoni; trasformare il male in bene, l'orrore in amore: questo era il vero mistero, più grande ancora di quello della presenza del male".
La posizione di Tecchi riguardo alla violenza e al dolore è quella evangelica di resistenza passiva, di rassegnazione anche: "non resistere. Accogliere il dolore. Essere sommersi. Accettarlo pienamente. Nella vita,  qualunque cosa venga accettata, SUBISCE POI UN MUTAMENTO. Così, la sofferenza deve mutarsi in amore" (l'autore fa, qui, proprie le famose parole della Mansfield). La narrativa tecchiana è, dunque, dentro la grande circolarità della Comunione dei santi, che sa tramutare il dolore in bene e in Grazia; ; il dolore, inoltre, rende saggi e riscatta il peccato..  Non si deve però sottacere in lui, una radicale coscienza del peccato originale e quindi un emblematico pessimismo, che talvolta rimane a sé, come un nucleo duro e  anche forzato, come una moralità in cesura rispetto alla sua armoniosa capacità di narrare (Claudio Marabini). Un filo pascaliano, e pure agostiniano, attraversa la sua opera; l'angoscia può nascere dal fatto che non è possibile afferrare la realtà profondamente. Inoltre: "Il cuore di tutti, e non solo dei contadini, è oggi irrequieto, e non si accontenta mai" (ne "la terra abbandonata"). Anche per lo scrittore cristiano c'è il dramma di sentirsi solo (Silvana Marini).»

Bonaventura Tecchi: uno scrittore da riscoprire, da rivalutare, da rileggere.
Così: con umiltà, con fede; come si fa con uno di quei maestri silenziosi, ma benefici, che hanno accompagnato l'avvento della modernità, tenendo alta una fiammella di luce, perché noi potessimo evitare di smarrirci del tutto.
Sarebbe ora che smettessimo di girare attorno alle luci ingannevoli di tanti falsi maestri, con le loro presuntuose e disumane certezze, come fanno le falene nelle notti d'estate, finché non si bruciano le ali e cadono a terra, morte; e ritornassimo, con speranza e gratitudine, a questi maestri dimenticati, che non hanno fatto molto rumore, perché ciò che essi chiedono a chi li voglia ascoltare, è in primo luogo il silenzio riverente dell'anima.