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Il «principio di realtà» non è che il nichilismo freudiano spacciato per verità obiettiva

di Francesco Lamendola - 19/06/2009

 


Chi ci abbia seguiti nel precedente articolo: «Una pagina al giorno: La morte, e poi?, di Bonaventura Tecchi» (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice), avrà senza dubbio riconosciuto, nel marito della povera Jeanne, il fisico Roberto Fauni, quella tipica figura di intellettuale materialista che non è soltanto chiuso e corazzato nelle proprie certezze laiciste e immanentiste, ma anche bramoso di spegnere nel prossimo ogni anelito alla trascendenza, ogni speranza in una dimensione ulteriore della realtà.
Abbiamo detto che egli è una figura tipica; aggiungiamo: «della modernità», perché è solo con la modernità - e, in particolare, a partire dal libertinismo del XVI e XVII secolo, e poi con l'Illuminismo e il Positivismo - che la smania di dissacrare il mondo, di fare piazza pulita di ogni idea trascendente, di distruggere negli uomini fin la speranza o l'anelito verso una vita «altra», insomma quel furore iconoclasta che non si limita a negare per sé, ma che vuole anche annientare negli altri il richiamo della trascendenza, è un fenomeno caratteristico e inconfondibile del mondo moderno.
Potremmo aggiungere che esso è il vero surrogato della religione, che ritiene di aver distrutta una volta per sempre. Come dice Freud nel suo libro «L'avvenire di una illusione», la religione non ha futuro, perché gli uomini si sono ormai persuasi, essendo divenuti «adulti», che la vita non è quello che essi vorrebbero (principio di piacere), ma quello che è (principio di realtà), ossia una necessità; e, così come non possono più essere blanditi o intimoriti, allo stesso modo non hanno più motivo di rifugiarsi nella illusione (della sopravvivenza) e della consolazione (che la loro morte abbia un significato trascendente).
È proprio nello zelo missionario con il quale il filone principale della psicanalisi si accanisce e si illividisce nell'opera di demolizione dei vecchi dei, che si possono riconoscere i segni inequivocabili di una nuova religiosità, dove la scienza ha preso il posto della religione; o, per dir meglio, non la scienza in quanto tale, ma la sua versione ottocentesca e positivista: quantitativa, materialista, riduzionista, meccanicista.
Ora, se tutto questo fosse presentato semplicemente come un nuovo orientamento filosofico, uno fra i tanti, potremmo anche perdonargli il suo «peccatum originalis»: essere nato dalle teorie di un medico ebreo viennese che, a partire da un certo momento, e sulla base di risultati clinici estremamente dubbi, se non proprio falsificati (come per il celebre caso dell'«uomo dei lupi», al quale i discepoli di Freud giunsero a offrire del denaro perché emigrasse in America e il pubblico europeo non venisse mai a sapere che la psicanalisi non lo aveva affatto guarito), si è improvvisato filosofo, sentenziando a trecentosessanta gradi sulla realtà e costruendo un vero e proprio «sistema» che, quanto a pretese di esaustività e assolutezza, non ha nulla da invidiare a quelli classici, culminanti con l'idealismo hegeliano.
Ma Freud e i suoi seguaci non si sono limitati a fare della filosofia, a proposito e a sproposito, senza averne gli strumenti concettuali e, in genere, senza avere nemmeno la «forma mentis» che ne è il presupposto indispensabile: ossia quel particolare gusto delle distinzioni e delle sfumature, senza il quale si finisce per semplificare e per impoverire tutto.
No: Freud e la sua scuola hanno voluto fare, della loro particolare teoria, e della loro particolare visione del mondo, niente di meno che LA REALTÀ, «sic et simpliciter».
Il filosofo francese Paul Ricoeur, nel suo fondamentale testo «Della interpretazione. Saggio su Freud», ha così delineato la posizione del «padre» della psicanalisi riguardo al principio di realtà e all'accettazione della morte, come appare nelle ultime opere dello psicanalista austriaco (titolo originale: «De l'interprétation. Essai sur Freud», Paris, Éditions du Seuil, 1965; traduzione italiana di Emilio Renzi, Milano, Il Saggiatore, 1966, 1979, pp. 359-61):

«Che cosa è, infine, il principio della realtà? […]
Abbiamo preso le mosse da una opposizione elementare, riguardante il "funzionamento dell'apparato psichico".  Nella misura in cui il principio del piacere possedeva una significazione semplice, allo stesso modo il principio della realtà non presentava misteri; tutte le interpretazioni avanzate da Freud, sia quelle direte che quelle indirette, sono il prolungamento dell'unica linea tracciata dal saggio  del 1911 sui "Due principi regolatori della vita psichica", la linea dell'utile, la quale, mentre il principio del piacere è biologicamente pericoloso, rappresenta il reale e correttamente inteso interesse dell'essere vivente. […] Così la realtà è innanzitutto l'opposto della fantasia, è il fatto quale lo constata l'uomo normale, è il contrario del sogno e dell'allucinazione. In un senso più specificamente analitico, il principio della realtà designa l'adattamento al tempo e alle necessità della vita nella società, e la realtà diventa quindi il correlato della coscienza, poi dell'Io; mentre l'inconscio - l'Es - ignora il tempo, la contraddizione e obbedisce solo al principio del piacere., la coscienza - l'Io - possiede una organizzazione temporale e tiene conto del possibile e del ragionevole.
È chiaro che nulla in questa analisi implica un accento tragico, nulla anuncia la visione del mondo dominata dalla lotta tra l'Eros e la morte.
A buon diritto si pone l'interrogativo su che cosa diviene questa opposizione semplice tra desiderio e realtà, quando la si ricolloca nel campo della nuova teoria degli istinti.  È certo che la questione è legittima: innanzitutto nella misura in cui il primo termine della coppia, il piacere, oscilla nella sua più fondamentale significazione; e poi nella misura in cui la realtà ha in sé la morte. Ma questa morte che la realtà tiene in riserva non è più l'istinto di morte, ma il mio morire, la morte come destino, ed è questa morte che dà alla realtà l'aspetto dell'ineluttabile, dell'inesorabile; a causa della morte-destino, la realtà si chiama necessità e prende il tragico nome di Ananke. Seguiamo quindi questa traccia e chiediamoci fino a che punto l'elemento più antico del freudismo - il duplice funzionamento dell'apparato psichico - è stato innalzato al trono della grande drammaturgia delle ultime opere.
Non si può non riconoscere che la filosofia finale di Freud non ha realmente trasformato, quanto piuttosto rafforzato,  e, vorrei dire, irrigidito, i vecchi tratti del principio della realtà. Solo entro strettissimi e rigidissimi limiti è possibile affermare che il tema "romantico" dell'Eros ha trasformato, per contraccolpo, il principio della realtà. Ma questo scarto tra la relativa mitizzazione del'Eros e la fredda considerazione della realtà è degno di attenzione e di riflessione: la sottile discordanza è forse rivelatrice dell'essenziale dello spirito filosofico del freudismo.
Effettivamente, nel momento stesso in cui Freud accentuava il dualismo dell'Eros e della morte, accentuava anche la lotta contro l'illusione, ultima trincea del principio del piacere, rafforzando in tal modo ciò che potremmo chiamare la sua "concezione scientifica del mondo", il cui motto potrebbe essere: al di là dell'illusione e della consolazione.
Sotto questo rispetto gli ultimi capitoli dell'"Avvenire di una illusione" sono estremamente significativi: la religione, afferma Freud, non ha avvenire, ha esaurito le sue risorse di costrizione e di consolazione. Il principio della realtà, in cui "Totem e tabù" aveva già riconosciuto una fase della storia umana parallela a una fase della libido, diviene allora il principio che presiede all'età post-religiosa della cultura. In questa età prossima, lo spirito scientifico assumerà il rilievo della motivazione religiosa e solo l'interesse sociale darà vita alle proibizioni morali. Modellando le precedenti prospettive sul sovrappiù di esigenza del super-Io, Freud suggerisce che ciò che sarà perduto dalla parte della santità e del comandamento, lo sarà anche per ciò che riguarda la sua rigidità e la sua intolleranza; è possibile che 'uomo, smettendo di sognarne l'abolizione, si dedichi al suo miglioramento, trovandolo infine ragionevole e perfino piacevole.
Tutto ciò potrebbe far pensare alle profezie razionalistiche e ottimistiche del secolo scorso [ossia dell'Ottocento], ma lo stesso Freud obietta a se stesso che la proibizione non è mai stata fondata sulla ragione, ma su potenti forze emotive, come il rimorso per l'assassinio primitivo, lo stesso, senza dubbio, che ha svelato la potenza delle forze distruggitrici che lavorano contro l'etica e, quel che è peggio, nel cuore dell'etica. Freud non ha dimenticato niente di tutto questo, e lo ribadirà ancora con maggior energia, alcuni anni dopo, nel "Disagio nella civiltà". La sua timida speranza si aggrappa a un punto solo:  se la religione è la nevrosi universale dell'umanità, essa è in parte responsabile del ritardo intellettuale dell'umanità, ma è anche l'espressione di possenti forsze sopravvenute dal basso così come ne è la educatrice. Il progetto d una umanità non religiosa comporta quindi una probabilità, misurata con estrema esattezza dal parallelismo tra la crescita dell'umanità e quella dell'individuo:
"L'infantilismo, non è forse vero, è destinato a essere superato; gli uomini non possono essere dei fanciulli per sempre, è necessario che alla fine si avventurino nell'universo ostile. Questo possiamo chiamarlo educazione alla realtà: devo confessare che il mio unico scopo, scrivendo questo libro, è stato di attirare l'attenzione sulla necessità di fare questo passo in avanti?" [da: "L'avvenire di una illusione" G. W., XIV, p. 373].»

Da un punto di vista filosofico, questa pagina d prosa è semplicemente imbarazzante; e davvero verrebbe da chiedersi per quale ragione questo «maestro del sospetto» sia stato acclamato come un grande filosofo, se non fosse piuttosto evidente che la ragione consiste proprio nel fatto che egli ha estesamente teorizzato e innalzato al rango di paradigma un modo di sentire ormai largamente diffuso nella società e nella cultura moderna, ma percepito - nella maggior parte dei casi - in maniera vaga e confusa.
L'affermazione che l'infantilismo è destinato ad essere superato, ad esempio, è di quelle che lasciano senza parole per la loro rozzezza filosofica e per l'assoluta mancanza di senso, assenza di una definizione di cosa si intenda per «infantilismo». È semplicemente un inno alla visione razionalistica e scientista propria del positivismo, secondo la quale il progresso è un processo lineare di accumulazione del sapere (e del potere ad esso correlato, come sosteneva Francis Bacon), e, quindi, essere adulti è meglio che essere bambini
Non ci si prende nemmeno la briga di spiegare perché sia meglio; lo si dà per scontato, per auto-evidente; al lettore sta dedurre che, se essere bambini vuol dire essere imperfetti (perché privi di una visione razionale delle cose), allora essere adulti è cosa migliore dell'essere bambini, in quanto si sa di più (e si è in grado di esercitare un potere maggiore). E quell'intercalare quasi gergale, tipico del discorso parlato (nei bar o negli autobus, non propriamente in sede filosofica): «non è forse vero», senza neanche il punto di domanda, perché non è una domanda ma un'affermazione, è la conferma indiretta, ma estremamente precisa sul piano psicologico, di quanto il modo di ragionare freudiano sia approssimativo e semplicistico sul piano concettuale.
Freud non si domanda se l'infantilismo debba essere superato; lo proclama: e la sua persuasione al riguardo sembra riposare unicamente sulla certezza kantiana che, senza i lumi della ragione, l'umanità è destinata a rimanere eternamente bambina. Ma ora, per fortuna, la ragione è arrivata: si chiama principio di realtà, e reca la firma di Sigmund Freud.
Quanto ai contenuti di quel passo, il minimo che si possa dire è che se, per il loro autore, diventare adulti (anche metaforicamente) significa addentrarsi nell'universo ostile, allora vuol dire che prendere atto della realtà equivale al disincanto totale, a vedere il mondo come qualche cosa di brutto, sgradevole e minaccioso e con cui, tuttavia, bisogna venire a patti.
Subentra, qui, la concezione freudiana di Ananke, intesa come rassegnazione e sottomissione a un principio superiore: il principio di realtà, appunto. Non si può non vedere come Freud, a questo punto, faccia passare un concetto meramente psicologico (un SUO concetto psicologico; anzi, una sua ipotesi) per una vera e propria concezione del mondo: il mondo come dominio della necessità, alla quale bisogna piegarsi, se si vuol diventare «adulti».
Dopo di che (zuccherino di consolazione) gli uomini, adattandosi alla necessità, finiranno per trovare ragionevole, e perfino piacevole, quel mondo ostile e sgradevole che, all'inizio, li aveva intimoriti: il mondo senza Dio, il mondo senz'anima.
Sembra il copione di un brutto film di fantascienza: una volta rinunciato all'incanto del mondo, alla speranza, alla tensione verso la trascendenza (cioè, a  nostro avviso, verso la propria essenza), gli uomini, ormai lobotomizzati e ridotti allo stato di androidi volontari, finiranno per vivere «sereni», cioè senza rimpianti, in un mondo privato da essi delle cose più belle, tali da renderlo amabile e desiderabile.
Freud, il profeta del mondo senza Dio e senza anima, chiama tutto questo «educazione alla realtà», intendendo per realtà essenzialmente la necessità di accettare la morte come evento definitivo e di rifiutare ogni ipotesi sull'esistenza di una dimensione trascendente. Ma di quale realtà si tratta, in effetti? Solo e unicamente della sua particolare visione del mondo, della sua «Weltanschauung», che qui assurge al rango di realtà oggettiva e assoluta: anzi, della sola realtà concepibile e degna dell'umanità adulta.
Data l'enorme diffusione odierna non solo della psicanalisi, ma anche e soprattutto della filosofia ad essa sottesa, bisognerebbe fare una salutare opera di demitizzazione delle sue pretese di obiettività e scientificità e ricordare che Freud, proprio come l'altro ebreo tedesco che tanto ha influito sulla storia del mondo moderno, Marx, è stato al tempo stesso il giudice e l'avvocato della propria dottrina, pomposamente definita «scientifica», in un'epoca in cui l'idea della scienza che circolava non solo fra il pubblico, ma anche fra gli intellettuali, era quella - grossolana e semplicistica - del positivismo: quantitativa, materialistica, dogmatica e intollerante.
Fino ad anni recenti, non condividere la visione «scientifica» della storia di Marx, significava essere dei nemici di classe del proletariato, ossia dei servi prezzolati del capitale; non condividere la visione «scientifica» dell'uomo di Freud, significava essere dei nemici della verità, dei repressi sessuali, degli ignoranti superstiziosi, delle marionette nelle mani dei preti. Insomma, rifiutare o criticare la visione del mondo di Freud significava essere doppiamente nevrotici: poiché tutti gli uomini civili, per Freud, sono dei nevrotici (ancora l'intramontabile mito del «buon selvaggio»!), ma coloro che rifiutano la loro condizione di malati, lo sono due volte.
Di qui ai manicomi di Stato e ai centri di rieducazione psichiatrica per i dissidenti, non c'è che un passo, sul piano concettuale.
Ci penseranno gli psichiatri sovietici, fedeli sacerdoti della religione marxista-psicanalistica, a compierlo nella pratica, senza remore né ripensamenti, internando migliaia di cittadini indocili, allo scopo di rieducarli al necessario «principio di realtà».