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Operaio e filosofo, ricordo di Mario Marcolla

di Andrea Sciffo - 19/06/2009

 

“Esser nato povero è la condizione più comune di questo mondo” scriveva Mario Marcolla all’inizio della sua bellissima autobiografia filosofica Una vita in fabbrica. Itinerario spirituale : difatti, il morso dello svantaggio sociale sembrò dover ferire con graffio indelebile l’animo di quest’uomo poiché “quando si vive nella miseria più cruda, anche al gioco dei bimbi è tolta giocondità e gaiezza”. Ottant’anni fa, Marcolla nasceva a Rivoli presso Torino, da una famiglia del Trentino emigrata in cerca di lavoro; oggi però invano cercheremmo la sua firma tra la carta stampata, perché Marcolla è morto sul finire del 2003, dopo una lunga eclissi che è coincisa con l’avanzata del grigiore sulla cultura italiana, europea e occidentale. Da più di dieci anni, la scomparsa dei grandi testimoni della posizione antimoderna ci impoverisce di giorno in giorno, simile e parallela all’incessante abbattimento degli alberi, alla frenetica follia della deforestazione.
Marcolla operaio e autodidatta senza titoli. Eppure nel 1971 Alfredo Cattabiani gli affidò la curatela di un testo di Augustin Cochin dal titolo Meccanica della rivoluzione: così un attento direttore editoriale, che reggeva la famigerata collana Rusconi nel bel mezzo del lungo Sessantotto italiano, dava un compito intellettuale di prim’ordine all’allora rinomato “filosofo-operaio” che però non conosceva la lingua francese. Ma la cultura non è l’istruzione. Del resto proprio nell’abitazione monzese di Marcolla, Cattabiani si era fermato un pomeriggio del 1969 a discutere per l’ultima volta con lui l’elenco dei primi libri “proibiti” che Edilio Rusconi avrebbe finanziato, prima di recarsi a Lugano da Giuseppe Prezzolini il cui autorevole parere aveva tutta l’ufficialità di un placet. Si era agli albori dell’ultima, per ora, grande avventura del pensiero antimoderno in Europa occidentale. In un certo senso, la decisione di mandare alle stampe nel nostro Paese un libro-bomba come Il Signore degli Anelli (Rusconi, 1970), dopo che Ubaldini si era arreso al primo volume della trilogia, fu una decisione presa nel soggiorno di casa Marcolla: di concerto, da un fine studioso-giornalista piemontese trapiantato a Roma e da un pensatore piemontese d’adozione, ma impiegato nell’industria lombarda, irregolare e senza entrature, e che per l’occasione aveva dovuto chiedere un permesso al suo datore di lavoro.


Il contrario di una rivoluzione
La qualità dell’opera di Marcolla appariva già a suo tempo in tutta la sua profondità soltanto se vista attraverso gli incontri, le conversazioni e i dialoghi: Socrate, com’è noto, non ha lasciato nulla di scritto. Marcolla però, fatte le debite proporzioni, sì e il corpus dei suoi studi, cresciuto nel corso di cinque decenni e sparso sinora in articoli e saggi su periodici e riviste ormai irreperibili, segna uno dei sentieri più suggestivi per capire quali siano stati i termini della situazione dei lavoratori nell’industria, durante il periodo d’espansione economica in Italia (1947-1992).
E ci avvisa del pericolo in cui sono incorsi gli “intellettuali” organici e no, dopo la stagione degli Anni di Piombo: cadere la sterile autoreferenzialità, cioè il leggere-scrivere-riscrivere solo di se stessi, isolandosi dalla vita reale, quella che si ferma sempre alle soglie delle redazioni o appena fuori dalle stanze in cui si decidono le “linee editoriali”.


 Nato il 28 giugno del 1929, primo di sei fratelli di una famiglia che, decaduta per un rovescio finanziario, cercava fortuna presso la cintura industriale torinese, Marcolla crebbe nella povertà degli anni trenta, nell’habitat di periferia di un grande centro: poca scuola, tanta fame, i primi moti dell’adolescenza smorzati dall’impatto col conflitto mondiale. Lo ritroviamo nel dopoguerra, interrotti gli studi inferiori, nei panni del garzone di fornaio che quasi quasi gioisce alla prospettiva di entrare in fabbrica, là dove il salario è perlomeno stabile. Sono anni, questi, che il nostro racconterà con asciutta nostalgia nei primi capitoli della bellissima “autobiografia filosofica” pubblicata nel 1998 col titolo di Una vita in fabbrica da Maurizio Minchella (alla quale sono costretto a rimandare tutti i lettori che volessero indagare il cuore della vocazione del nostro).
 In quegli anni Marcolla si forma una personale maniera di interpretare i fatti del presente alla luce dell’eterno: stava a metà tra il Guénon dei Valori Tradizionali e l’Augusto Del Noce che si definì “filosofo attraverso la storia”. Per lui, l’Apocalisse di san Giovanni, Le soirées de Saint Peterbourg di De Maistre o L’educazione di Henry Adams, e una pagina di Solženičyn stavano sul medesimo piano, astrale, di verità assoluta ma incarnata nell’Hic et Nunc per ricondurre l’io alla sua sorgente infinita. Allora, Marcolla non pronunciava ancora il nome di Dio perché si proclamava un “figlio del sole” ma più avanti, con altri tradizionalisti neopagani, compirà l’opzione per un cattolicesimo almeno della mente e alla fine, presso la penultima e l’ultima stagione, sarà Gesù Cristo il suo salvatore.
 Così Marcolla divenne un pensatore e dunque, in valore assoluto, uno studioso e un originale analista politico: però fu antimoderno. Oggi bisognerebbe pentirsi amaramente per avere emarginato la prospettiva anti-progressista dal novero delle discipline fertili per salvare il mondo: chi ancora è convinto che lo “sviluppo” o la “scienza” siano un “bene” per l’umanità? Nel ‘900 alcune verità poterono venir avvistate solo da uomini come il nostro, ossia un autodidatta dilettante. Difatti, abbandonata la scuola prestissimo, da solo perfezionò il proprio lessico per mezzo della lettura dei giornali, e senza lezioni imparò i rudimenti del tedesco studiando su una grammatica dalle pagine bruciacchiate superstite al trasloco della Val di Sole. Marcolla arrivò a sapere l’inglese senza frequentare alcun corso: ci riuscì per forza d’intelletto d’amore, grazie alle tante ore trascorse nella sala di lettura dell’USIS di Milano dove giungevano libri e riviste direttamente dagli States. Signoreggiare una lingua è diverso che padroneggiarla: qui parliamo di un uomo appassionato, e che per quella sua passione veniva sovente ferito nelle carni dell’anima. Fu un anglista a suo modo, amatoriale, al punto che quando nel 1957 scrisse una lettera a Ezra Pound questi gli rispose da un hotel di Rapallo alla solita scabra maniera (cioè con veemenza contro gli “usurai” dell’intelletto e contro Toynbee): ignorava però che il giovane interlocutore con cui discettava di storiografia apparteneva, privo di titoli di studio, al ceto della manodopera tessile.
 Marcolla lo prese come un incoraggiamento.


La condizione antimoderna
 Questo, per capire quale fosse l’ardore del fuoco che mosse Marcolla a studiare, a sottrarre ore preziose al sonno, a intervenire sul piano politico nelle cose. Lui, operaio al turno di notte per necessità, di giorno leggeva e studiava: Gentile, Marx, Lenin, Gramsci, perché voleva darsi ragione del proprio essere tutto il giorno di fronte agli assordanti telai. E dato che visse sulla propria pelle la “condizione operaia” (un po’ più profondamente dell’amata Simone Weil), comprese subito come l’ideologia comunista fosse insufficiente ad affrontare l’alienazione del lavoro subordinato. Superati i vent’anni, subì invece il fascino oscuro di Nietzsche e di Evola, e trasferì su tali maestri l’ombra del proprio disagio, emergente dai recessi del dolore: e frequentando le frange della gioventù post-fascista in una Torino partigiana e partecipò anche ad alcuni scontri di piazza, dei quali preferiva però non parlare. Fu la sua opera al nero. Qui conobbe gli esponenti della destra sociale: Primo Siena, Piero Femore, Ennio Innaurato, Fausto Gianfranceschi e Giano Accame, dal quale ebbe l’incarico di “occuparsi della questione americana” (e che in anni recenti ha definito genio l’opera di Marcolla). Ne sortirono risultati gravidi di conseguenze: innanzitutto la scoperta del filone politico dei Conservatori statunitensi, che la cultura italiana ignorava, e poi l’incontro con Russell Kirk, il maggiore rappresentante del conservative mind, venuto in Italia per alcune conferenze; Marcolla tenne i contatti con lo scrittore John Dos Passos, con il politologo James Burnham, con lo studioso Thomas Molnar.
 Gli articoli scritti in quell’epoca sono segnati nel profondo da un’impostazione tradizionalista: dalla persuasione cioè che la struttura socio-economica, dunque metafisica, dei “tempi moderni” sia irrimediabilmente malvagia poiché maledetta. E che lo spirito di nobiltà grazie al quale si viveva una volta è corrotto dagli errori delle ideologie “moderne” derivate dall’illuminismo e dalla Rivoluzione Francese. Con questi dogmi deve oggi fare i conti il pensiero ecologista, olista, ambientalista, antagonista: proseguire su quella strada equivale a perpetuare il disastro. Marcolla l’aveva capito mezzo secolo prima, e fu in tale frangente che Marcolla incrociò i propri studi con quelli di un giovanissimo politologo genovese, don Gianni Baget Bozzo, e strinse sodalizio con uno studente che aveva appena discusso presso l’Università di Torino una tesi su De Maistre: il presidente della commissione (tale Norberto Bobbio) gliel’aveva letteralmente gettata per terra all’atto di conferire la laurea, esprimendo il suo disprezzo per l’argomento. Quel laureando si chiamava Alfredo Cattabiani e in seguito chiamerà Marcolla a collaborare prima con le Edizioni dell’Albero poi con la casa editrice Borla.
 Così la svolta avvenne. Dopo essere stato più volte invitato a intervenire a convivi estemporanei attorno ai tavolini del torinese Caffè Augustus, il filosofo Augusto Del Noce ospitò Marcolla nel suo studio di Torino, corrente l’anno 1960; i due passeggiarono tra pile di fogli dattiloscritti, sparsi sul pavimento secondo un criterio concettuale: erano le bozze del libro delnociano Il problema dell’ateismo. L’incontro fu, com’è ovvio, decisivo perché confermava in Marcolla la vocazione alla filosofia cioè alla “ricerca della verità attraverso la storia”; il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce, e il destino attendeva Marcolla al varco, sotto le spoglie del caso: ossia, in occasione del suo trasferimento presso una fabbrica tessile di Monza. In tale frangente, avvenne un fatto nuovo: le colleghe operaie gli insegnarono a recitare il Rosario nelle pause del lavoro. Nel 1962 ritroviamo Marcolla felicemente sposato e poi padre di famiglia: manzonianamente, nemmeno ai suoi quattro figli racconterà le circostanze della “conversione”.
 Con questo secondo esordio, entriamo in un’altra stagione: avvicinatosi al fervido ambiente milanese, prese a collaborare con la rivista Studi Cattolici dove incontrò uno dei più promettenti filosofi di allora, Emanuele Samek Lodovici, studioso delle forme dello gnosticismo nella società contemporanea. Ed ecco l’episodio clamoroso: il 15 marzo 1968 Marcolla inizia a scrivere per la terza pagina dell’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede. Della sua vita, fu uno dei momenti più intensi, del quale sentivo ancora la forza nei discorsi che ebbi con lui: non si può non provare emozione quando si legge la corrispondenza che il direttore on.Manzini, il cardinal Piolanti (rettore della Pontificia Università Lateranense) e il professor Alessandrini ebbero con  quel collaboratore autodidatta e operaio. Il porporato a un certo punto ammise che, in seguito a un articolo di Marcolla, ci fu chi credette che dietro quel nome si celasse qualche alto prelato… E ripetuti furono gli inviti del Direttore, che incitavano a perseverare nonostante le difficoltà del lavoro in fabbrica e le responsabilità famigliari; Manzini una volta giunse a dirgli: “la ringrazio… scriva: ci aiuterà a far luce e conforterà molti spiriti e lo stesso cuore del Pastore Supremo” (lettera del 13.XI.1968). Ma che cosa scriveva Marcolla? Se si legge tra le righe, a parlare era la voce stessa del dolore umano, della sofferenza universale che voleva prendere la parola sulla pagina, come in Tolstoi o in Gandhi: per chiamare a raccolta gli uomini pietosi, farli chinare gli uni sugli altri, a soccorso della gioia della vita brutalmente spezzata dal progetto “scientifico” di un pianificazione del destino, un piano che si è imposto in seguito alla Rivoluzione Industriale. Per questo Marcolla fu antimoderno cioè antimassone, con tutto quello che ciò implica fuori e dentro la Chiesa, le chiese e, appunto, le Logge.
 Assieme a intellettuali “inorganici” come Cattabiani, Del Noce, Elémire Zolla e Barbiellini Amidei si poté, in quegli anni di plumbea in cultura rivoluzionaria, parlare delle Cose Perenni ai lettori impigliati negli schemi del materialismo storico o dialettico: erano gli anni in cui studiare lo psicologo Jung significava essere “di destra”. Incominciavano a fare capolino anche nel panorama  culturale blindato dal gramscismo italiano i grandi nomi del pensiero tradizionale novecentesco: Mircea Eliade, Simone Weil, Hans Sedlmayr, Hossein Nasr, Cornelio Fabro, Cristina Campo, Eric Voegelin, Guido Ceronetti. E quando, a fine 1969, le edizioni RUSCONI incominciarono a pubblicare quei testi che segneranno un’epoca della cultura antiprogressista in Italia, Marcolla era della partita. In quegli anni, era facile vedere i protagonisti del “capitolo rimosso” della cultura recente passeggiare nelle adiacenze di via Vitruvio a Milano: c’erano Quirino Principe, Rodolfo Quadrelli, Guido Ramacciotti. Soprattutto con questi ultimi fiorì un’amicizia piena di gratitudine. Del resto, furono momenti grevi perché, mentre il Paese era visitato dalla violenza, dallo sradicamento, dalla corruzione, gli studiosi rusconiani additavano le insidie dei facili linguaggi dell’ideologia, osservavano dove andassero a parare le filosofie implicite delle sedicenti “conquiste civili” democristiane e/o radicali;  in parole povere, resistevano all’umiliazione di una società già allora intollerante, che oggi appare infine nel suo sconcio: il dominio dell’edonismo obbligatorio.
 Nel 1978, al termine del decennio di piombo (che Del Noce chiamò del “suicidio della rivoluzione”), Marcolla si ritrovava moralmente estenuato: alla svolta dei cinquant’anni, il bilancio della sua vita activa segnava un ampio passivo, cioè un apparente fallimento; venne così il momento della prova. Ma è fondamentale vedere in quale modo egli uscì dalle zone depresse della desolazione: dalla Terra di Nessuno si esce grazie agli incontri inaspettati. E infatti, dalle ceneri dentro cui sembrava ridursi la sua energia intellettuale, l’operaio-pensatore risorse.

Il sole del tramonto
 Al principio degli anni ottanta, Marcolla è di nuovo al centro di un incrocio di esperienze intellettuali: e sono tutte decisive. Un giorno lui stesso capì che io avrei voluto chiedergli come era uscito dal periodo buio, perché mi disse all’improvviso (e poi lo ripeté più volte nei nostri incontri) che era uscito dalla depressione, su consiglio del padre Guido Sommavilla, “recitando il Rosario e leggendo i Quattrio quartetti di Eliot”.
Sono gli anni in cui viene a contatto con i “ragazzacci” ciellini del settimanale Il Sabato e con Renato Farina, Marcello Frediani, Riccardo Bonacina, Giuseppe Frangi, Antonio Socci, interviene a giudicare in maniera controcorrente la tendenza al neopotere tecnocratico che va consolidandosi in Italia. La sua conoscenza delle correnti politiche statunitensi si dirama e porta frutto in tante direzioni: è Cesare Cavalleri delle edizioni ARES a pubblicargli quelle lettere dall’America con una oggi storica fotografia delle Twin Towers; è con il gesuita Sommavilla e con Tina Beretta, allieva di Guitton alla Sorbona di Parigi, che Marcolla consolida il proprio sapere filosofico-teologico nutrendosi dell’opera di Romano Guardini; infine, collaborando con Giovanni Cantoni e Marco Invernizzi di Alleanza cattolica potrà mettere in atto i suoi lunghi studi di politica internazionale, stringendo con Thomas Fleming, presidente della Rockford Foundation (Illinois) e della rivista Chronicles, un’amicizia intellettuale piena di stima reciproca. L’episodio culminante è l’organizzazione della conferenza tenuta da Russl Kirk sulla poesia di T.S. Eliot, al Teatrino della Villa Reale di Monza, nel 1989. Peraltro, collabora con interventi di alto profilo alla terza pagina di Avvenire, e inaugura un’amicizia con lo scrittore Eugenio Corti.
Negli anni novanta, Marcolla partecipa alla nascita di un settimanale di idee come Tempi (ancora nell’area del cattolicesimo dei Movimenti, dove lascia tracce nel modo di fare cultura di Amicone, Valenti, Respinti e Tringali) e incomincia a raccogliere un anticipo, una caparra del raccolto umano ed esistenziale della sua vita: nel novembre 1995 è a Roma e tiene un’importante relazione al Convegno internazionale di studi su Augusto Del Noce, organizzato dall’Università La Sapienza e dal professor Francesco Mercadante; nel 1997 partecipa al congresso milanese su Ezra Pound. Dopo l’uscita della propria autobiografia, riscuote un certo successo di pubblico (ma soprattutto suscita commozione in tanti presenti) al Meeting di Rimini del 1999 e del 2001, dove è introdotto da un relatore del calibro di mons. Luigi Negri. E’ forse in quell’occasione che ha la controprova di come la Chiesa sia anche il Corpo di Cristo presente nella storia degli uomini.
Sino all’ultimo Marcolla conservò posizioni culturali controcorrente e scomode per qualunque prospettiva: continuava a sostenere che esiste una grande differenza tra Europa e Occidente; o che gli Usa non sono quella realtà che ci viene mostrata dalla vulgata dei media: lo ricordo furibondo, all’annuncio che Bush avrebbe invaso l’Iraq; oppure, insisteva a sostenere che non si può spiegare il presente soltanto attraverso il presente. Nell’opera marcolliana, del resto, il richiamo al passato non fu mai archeologia o filologia ma piuttosto la stretta di mano con l’uomo che ora non è più in questo mondo, l’impronta di un passo cancellato dai decenni eppure una volta impresso sul terreno. Leggere oggi le sue riflessioni è riecheggiare il verso di una poesia di T.S. Eliot, dove un uccello cinguetta: “via, via! Gli uomini non possono sopportare troppa realtà!”.
Appunto. Però, io ho avuto il dono di frequentare Mario Marcolla per dieci anni esatti, dal settembre 1993 sino al suo giorno estremo: sono stato l’ultimo tra i non-famigliari ad averlo visitato quel tardo pomeriggio del 23 ottobre 2003, poco prima che un improvviso malore lo portasse via dall’affetto dei suoi cari. Gli avevo portato la prima copia dei miei racconti Il cervo bianco e me n’ero andato in una sera di pioggia autunnale. Dopo breve agonia, all’alba di due giorni dopo, nell’ottava della festività di Ognissanti, la morte che tutti credevamo lontana è infine venuta: e adesso, dopo cinque anni, le sue opere appaiono lontanissime, vaganti in spazi siderali; le idee che servì per anni, ora si allontanano inesorabilmente alla velocità della luce da un mondo che non vuole vedere né ascoltare, e che dunque non sa parlare né leggere né scrivere. Se n’è perso il gusto, l’odore e il suono; segno che è avvenuta la svolta a gomito dell’epoca, quello che Jünger chiamava “il muro del tempo”.

 

Questo quadro [vedi sopra] che raffigura un alpeggio adagiato su verdi prati sotto le innevate vette di montagna era appeso alla parete del soggiorno di Marcolla nei lunghi anni delle nostre conversazioni: io una volta gli chiesi come mai fosse lì e lui abbozzò vagamente,  glissando forse per pudore. Ma è l’immagine di un paradiso reale, una di quelle icone anonime che guidano la linea dei nostri giorni sino al margine dell’infinito, per non farci perdere il filo.
Marcolla, come il colombiano Nicolàs Gomez Dàvila o come l’austriaco Hugo von Hofmannsthal (che morì a Vienna giusto ottant’anni fa), appartiene per sempre alla schiera degli esploratori controcorrente, quelli che sanno che il vero progresso è a ritroso, come un futuro che recupera le origini e brucia le scorie: mi piace pensare che questi spiriti saggi stiano adesso volando, vigili dentro quella “materia oscura” cosmica che i telescopi non sanno vedere ma c’è. Qui, anche nella siccità della terra nostra guasta, inquinata dalle azioni dello Sviluppo e dunque dai residui fissi dello spreco, siamo confortati dalla medesima visione a cui Marcolla e Gomez Dàvila e Hofmannsthal indirizzavano lo sguardo, quando guardavano con fede addolorata alla Croce. Il pensiero unico è un maglio violento, d’accordo, ma la confusione che rallenta l’efficacia del pensiero alternativo, oggi, viene anche dal non fare i conti con il nucleo del Vangelo (e qui devo ancora citare Tolstoi, profeta sconosciuto nei suoi scritti dopo il 1878). Dalla Croce la Luce, recitano i detti esoterici onesti e la catechetica dei due millenni appena trascorsi: occorre ri-allenare l’occhio. Così finiscono per raddrizzarsi anche i peggiori difetti visivi, come in una lente ortottica, stereoscopica: dall’illusione alla visione, dalla morte alla vita.
Come conferma un testo antimoderno per eccellenza, la Liturgia della Messa dei Defunti secondo il Rito cattolico: Vita mutatur non tallitur. Una affermazione interessantissima, per il discorso che stiamo conducendo, perché può essere tradotta anche così: “la vita si trasforma, ma non viene tolta”