IlRe del Mondo
di René Guénon - 20/06/2009
Il Re del Mondo.
1. Nozioni sull'«Agarttha» in Occidente
2. Regalità e pontificato
3. La «Shekinah» e «Metatron»
4. Le tre funzioni supreme
5. Il simbolismo del Graal
6. «Melki-Tsedeq»
7. «Luz» o il soggiorno d'immortalità
8. Il centro supremo nascosto durante il «Kali-Yuga».
9. L'«Omphalos» e i betili
10. Nomi e rappresentazioni simboliche dei centri spirituali
11. Localizzazione dei centri spirituali.
12. Alcune conclusioni
NOTA DELL'EDITORE.
Nel 1924 apparve a Parigi un singolare libro di Ferdinand Ossendowski, dal titolo "Bestie, uomini e dèi". Vi si raccontava un avventuroso viaggio nell'Asia centrale, nel corso del quale l'autore affermava di essere venuto in contatto con un centro iniziatico misterioso, situato in un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono ovunque: il capo supremo di questo centro era detto Re del Mondo.
René Guénon (1856-1951) prese spunto da tale pubblicazione per mostrare, in questo breve e splendido libro, come, dietro alle confuse narrazioni di Ossendowski e di altri scrittori, si profilassero dottrine e miti immemoriali, di cui si ritrovavano tracce dal Tibet (con la sua nozione dell'"Agarttha", la terra 'inviolabile') alla tradizione ebraica (con la figura di Melchisedec e della città di Salem), e così anche nei più antichi testi sanscriti, nel simbolismo del Graal, nelle leggende sull'Atlantide e in tanti altri miti e immagini. A mano a mano che si svelano questi rapporti, siamo còlti come da una vertigine: con pochi e sobri gesti Guénon riesce a mettere in contatto tali e così diverse cose che alla fine ci troviamo dinanzi a una sterminata prospettiva, che traversa tutta la storia fino a oggi, dalle origini inattingibili della Tule iperborea fino all'occultamento del centro iniziatico nella nostra 'età nera', il "Kali-Yuga". In poche pagine, e tutto per immagini, Guénon disegna dunque la linea della trasmissione della Tradizione primordiale, sicché questo libro potrà valere per molti come introduzione al pensiero di un maestro solitario e indispensabile del nostro tempo.
IL RE DEL MONDO.
1.
NOZIONI SULL'«AGARTTHA» IN OCCIDENTE.
L'opera postuma di Saint-Yves d'Alveydre intitolata "Mission de l'Inde", pubblicata nel 1910 (1), contiene la descrizione di un centro iniziatico misterioso indicato col nome di "Agarttha"; fra i lettori di quel libro, molti probabilmente pensarono che si trattasse solo di un racconto del tutto immaginario, una sorta di finzione priva di qualsiasi fondamento reale. Vi si trovano infatti, se si vuol prendere tutto alla lettera, inverosimiglianze che, almeno per coloro che si attengono alle apparenze esteriori, potrebbero giustificare un tale giudizio; e Saint-Yves aveva senz'altro avuto delle buone ragioni per non pubblicare egli stesso quell'opera scritta tanto tempo prima e mai veramente portata a termine. D'altra parte, prima di allora, non era stata fatta menzione in Europa né dell'"Agarttha" né del suo capo, il "Brahmƒtmƒ", se non da uno scrittore di scarsa serietà, Louis Jacolliot (2), alla cui autorità non si può certo fare riferimento; da parte nostra, pensiamo che egli avesse realmente inteso parlare di quelle cose durante un suo soggiorno in India, ma per manipolarle poi, come tutto il resto, alla sua maniera eminentemente fantasiosa.
Tuttavia nel 1924 è avvenuto un fatto nuovo e inatteso: il libro "Bˆtes, Hommes et Dieux", nel quale Ferdinand Ossendowski racconta le sue peripezie nel corso di un laborioso viaggio compiuto fra il 1920 e il 1921 attraverso l'Asia centrale, contiene, soprattutto nell'ultima parte, racconti quasi identici a quelli di Saint-Yves; e i molti commenti che hanno accompagnato questo libro ci offrono, crediamo, l'occasione di rompere finalmente il silenzio sulla questione dell'"Agarttha".
Spiriti scettici o malevoli non hanno mancato, naturalmente, di accusare Ossendowski di aver semplicemente plagiato Saint-Yves, segnalando tutti i passi concordanti delle due opere; e infatti ve ne sono parecchi che presentano, anche nei particolari, somiglianze davvero sorprendenti. Vi troviamo innanzitutto, cosa che poteva parere inverosimile anche in Saint-Yves, l'affermazione dell'esistenza di un mondo sotterraneo, le cui ramificazioni si estenderebbero dappertutto, sotto i continenti e anche sotto gli oceani, e per mezzo del quale si stabilirebbero invisibili comunicazioni fra tutte le regioni della terra; Ossendowski, del resto, non rivendica la paternità di una simile asserzione e anzi dichiara di non sapere cosa pensare in proposito; la attribuisce invece a vari personaggi incontrati lungo il viaggio. Passando a questioni più particolari, c'è il passo in cui il «Re del Mondo» è raffigurato dinanzi alla tomba del suo predecessore, quello in cui si parla dell'origine degli Zingari, i quali un tempo avrebbero vissuto nell'"Agarttha" (3), e molti altri ancora. Saint-Yves dice che, durante la celebrazione sotterranea dei «Misteri cosmici», vi sono momenti in cui i viaggiatori che si trovano nel deserto si fermano, in cui anche gli animali rimangono silenziosi (4); Ossendowski sostiene di aver assistito personalmente a uno di quei momenti di generale raccoglimento. E poi, fra le strane coincidenze, vi è la storia di un'isola, oggi scomparsa, dove sarebbero vissuti uomini e animali straordinari: a questo proposito, Saint-Yves cita il riassunto del periplo di Iambulo fatto da Diodoro Siculo, mentre Ossendowski parla del viaggio di un antico buddista del Nepal, e tuttavia le loro descrizioni non differiscono quasi; se davvero esistono due versioni di questa storia provenienti da fonti così lontane l'una dall'altra, potrebbe essere interessante ritrovarle e confrontarle accuratamente.
Abbiamo voluto segnalare tutte queste concordanze, ma teniamo anche a dire che non ci convincono affatto della realtà del plagio; è nostra intenzione, del resto, non addentrarci in questa sede in una discussione che, in fondo, ci interessa ben poco. Indipendentemente dalle testimonianze che Ossendowski stesso ci ha indicato, sappiamo da altre fonti che racconti di questo genere sono frequenti in Mongolia e in tutta l'Asia centrale; e aggiungeremo subito che qualcosa di simile esiste nelle tradizioni di quasi tutti i popoli. D'altra parte, se Ossendowski avesse parzialmente copiato la "Mission de l'Inde", non vediamo perché avrebbe omesso certi passi di grande effetto, né perché avrebbe cambiato la forma di certe parole, scrivendo per esempio
"Agharti" invece di "Agarttha", il che invece si spiega molto bene qualora egli abbia ottenuto da fonte mongola le informazioni che Saint-Yves aveva ottenuto da fonte indù (di fatto sappiamo che egli fu in relazione con almeno due Indù) (5); né capiamo perché avrebbe usato, per designare il capo della gerarchia iniziatica, il titolo di «Re del Mondo», che non figura mai in Saint-Yves. Anche se si ammettessero certi prestiti, resta sempre il fatto che Ossendowski dice talora cose che non hanno il loro equivalente nella "Mission de l'Inde", e che egli non ha certo potuto inventare di sana pianta, tanto più che, essendo interessato più alla politica che alle idee e
alle dottrine, e ignorando tutto ciò che riguarda l'esoterismo, è stato evidentemente incapace di coglierne egli stesso l'esatta portata: citeremo in proposito la storia di una «pietra nera» inviata un tempo dal «Re del Mondo» al "Dalai-Lama", poi trasportata a Urga, in Mongolia, e scomparsa circa cento anni fa (6): ora, in molte tradizioni le «pietre nere» hanno un ruolo importante, da quella che era il simbolo di Cibele fino a quella incastonata nella "Kaabah" della Mecca (7). Ecco un altro esempio: il "Bogdo-Khan" o «Buddha vivente», che risiede a Urga, conserva, insieme ad altre cose preziose, l'anello di Gengis-Khan su cui è inciso uno "swastika", e una placca di rame che porta il sigillo del «Re del Mondo»; sembra che Ossendowski abbia potuto vedere solo il primo di questi due oggetti, ma ben difficilmente avrebbe potuto immaginare l'esistenza del secondo; e in tal caso non gli sarebbe venuto più naturale parlare di una placca d'oro?
Queste poche osservazioni preliminari sono sufficienti per lo scopo che ci siamo proposti, poiché intendiamo rimanere assolutamente estranei a qualsiasi polemica e questione personale; se citiamo Ossendowski e Saint-Yves è solo perché quello che hanno detto può servire come punto di partenza per considerazioni che nulla hanno a che vedere con quanto si potrà pensare dell'uno o dell'altro, e la cui portata supera di molto le loro individualità e anche la nostra che, in questo ambito, non deve certo contare di più. Riguardo alle loro opere, non vogliamo dedicarci a una «critica del testo» più o meno inutile, ma fornire piuttosto indicazioni che, almeno per quanto ne sappiamo, non sono ancora state date da nessuno e che possono in
qualche misura aiutare a chiarire quello che Ossendowski chiama il «mistero dei misteri» (8).
2. REGALITA' E PONTIFICATO.
Il titolo di «Re del Mondo», inteso nella sua accezione più elevata, più completa e insieme più rigorosa, viene attribuito propriamente a "Manu", il Legislatore primordiale e universale il cui nome si ritrova, sotto forme diverse, presso numerosi popoli antichi; ricordiamo soltanto, a questo proposito, il "Mina" o "Menes" degli Egizi, il "Menw" dei Celti e il "Minosse" dei Greci (1). Tale nome, del resto, non indica un personaggio storico o più o meno leggendario.
Esso designa, in realtà, un principio, l'Intelligenza cosmica che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge ("Dharma") propria delle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza; ed è, al tempo stesso, l'archetipo dell'uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito "mƒnava").
D'altra parte, l'importante qui è far rilevare che tale principio può essere reso manifesto da un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre, da una organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine «non umana» ("apaurushˆya"), per mezzo della quale la Sapienza primordiale si comunica attraverso le epoche a coloro che sono in grado di riceverla. Il capo di tale organizzazione, in quanto rappresenta in
certo modo "Manu" stesso, potrà legittimamente portarne il titolo e gli attributi; inoltre, dato il grado di conoscenza che deve aver raggiunto per poter esercitare la sua funzione, si identifica
realmente col principio di cui è in certo modo l'espressione umana e davanti al quale la sua individualità scompare. Così è per l'"Agarttha", se questo centro ha raccolto, come dice Saint-Yves, l'eredità dell'antica «dinastia solare» ("S–rya-vansha") che risiedeva un tempo a Ayodhyƒ (2) e che faceva risalire la propria origine a "Vaivaswata", il "Manu" del ciclo attuale. Come già si è detto, Saint- Yves non considera tuttavia il capo supremo dell'"Agarttha" quale «Re del Mondo»; lo presenta come «Sovrano Pontefice» e inoltre lo pone a capo di una «Chiesa brƒhmanica», designazione che deriva da una concezione un po' troppo occidentalizzata (3). A parte quest'ultima riserva, ciò che egli dice completa, a questo riguardo, quanto a sua volta dice Ossendowski; si direbbe che ciascuno dei due abbia visto soltanto l'aspetto più direttamente corrispondente alle proprie tendenze e preoccupazioni dominanti, poiché qui, in verità, si tratta di un doppio potere, al tempo stesso sacerdotale e regale.
Il carattere «pontificale», nel senso più vero che ha questa parola, appartiene realmente, e per eccellenza, al capo della gerarchia iniziatica, e ciò richiede una spiegazione: letteralmente, il "Pontifex" è un «costruttore di ponti», e questo titolo romano è in qualche modo, per la sua origine, un titolo «massonico»; ma, simbolicamente, il "Pontifex" è colui che adempie la funzione di mediatore, in quanto stabilisce la comunicazione fra questo mondo e i mondi superiori.
In tal senso, l'arcobaleno, il «ponte celeste», è un simbolo naturale del «pontificato»; e tutte le tradizioni gli attribuiscono significati perfettamente concordanti: così, presso gli Ebrei, esso è il pegno dell'alleanza di Dio con il suo popolo; in Cina, è il segno dell'unione del Cielo con la Terra; in Grecia, rappresenta Iride, la «messaggera degli Dèi»; un po' dappertutto, presso gli Scandinavi, i Persiani, gli Arabi, in Africa centrale e anche presso certi popoli dell'America del Nord, è il ponte che collega il mondo sensibile a quello sovrasensibile.
Presso i Latini, poi, l'unione dei due poteri, sacerdotale e regale, era rappresentata da un certo aspetto del simbolismo di "Janus", simbolismo estremamente complesso e dai molteplici significati; le chiavi d'oro e d'argento raffiguravano, in tale contesto, le due iniziazioni corrispondenti (5). Si tratta, per usare la terminologia indù, della via dei "Brƒhmani" e di quella degli "Kshatriya"; ma, alla sommità della gerarchia, si arriva al principio comune da cui gli uni e gli altri traggono i loro attributi rispettivi, dunque al di là della loro distinzione, poiché lì è la sorgente di ogni autorità legittima, in qualsiasi ambito essa si eserciti; e gli iniziati dell'"Agarttha" sono "ativarna", cioè a al di là delle caste» (6).
Vi era, nel medioevo, un'espressione che riuniva in sé, in un modo che vale la pena di sottolineare, i due aspetti complementari dell'autorità: a quell'epoca, si parlava spesso di una contrada misteriosa chiamata «regno del prete Gianni» (7). Era il tempo in cui quella che si potrebbe designare la «copertura esteriore» del centro in questione era costituita, in buona parte, dai Nestoriani (o da quanto si è convenuto, a torto o a ragione, di chiamare così) e dai Sabei (8); proprio questi ultimi si attribuivano il nome di "Mendayyeh di Yahia", cioè «discepoli di Gianni». A questo proposito, possiamo fare subito un'altra osservazione: è per lo meno curioso che numerosi gruppi orientali a carattere molto chiuso, dagli Ismaeliti o discepoli del «Vecchio della Montagna» ai Drusi del Libano, abbiano assunto tutti, similmente agli ordini cavallereschi occidentali, il titolo di «guardiani della Terra Santa». Quanto segue aiuterà senza dubbio a capire meglio il significato di tutto ciò; si direbbe che Saint-Yves abbia trovato una parola molto giusta, forse ancor più di quanto lui pensasse, quando parla dei «Templari dell'"Agarttha"». Perché non ci
si meravigli dell'espressione «copertura esteriore» che abbiamo appena usato, aggiungeremo che bisogna aver ben presente il fatto che l'iniziazione cavalleresca era essenzialmente un'iniziazione di "Kshatriya"; il che spiega, fra l'altro, il ruolo preponderante che vi svolge il simbolismo dell'Amore (9).
A prescindere da queste ultime considerazioni, l'idea di un personaggio che è sacerdote e re al tempo stesso non è molto comune in Occidente, benché, proprio all'origine del Cristianesimo, essa sia rappresentata in modo assai evidente dai «Re Magi»; ancora nel medioevo il potere supremo (stando per lo meno alle apparenze esteriori) era diviso fra il Papato e l'Impero (10). Tale separazione può essere considerata il segno di un'organizzazione incompleta al vertice, se così possiamo esprimerci, poiché non vi appare il principio comune da cui procedono e dipendono regolarmente i due poteri; dunque il vero potere supremo doveva trovarsi altrove. In
Oriente, al contrario, il mantenimento di una separazione al vertice stesso della gerarchia è abbastanza eccezionale, e solo in certe concezioni buddiste si può incontrare qualcosa del genere; intendiamo alludere alla incompatibilità dichiarata tra la funzione di "Buddha" e quella di "ChakravartŒ" o «monarca universale» (11), là dove si dice che "Shƒkya-Muni", a un certo momento, dovette scegliere fra l'una e l'altra. E' opportuno aggiungere che il termine "Chakravart Œ", che non ha nulla di particolarmente buddistico, si adatta molto bene, in rapporto ai dati della tradizione indù, alla funzione del "Manu" o dei suoi rappresentanti: letteralmente è «colui che fa girare la ruota», colui cioè che, posto al centro di tutte le cose, ne dirige il movimento senza parteciparvi egli stesso, o che, secondo l'espressione di Aristotele, ne è il «motore immobile» (12).
Richiamiamo particolarmente l'attenzione su questo: il centro di cui si tratta è il punto fisso che tutte le tradizioni sono concordi a designare simbolicamente come il «Polo», perché è attorno a esso che si effettua la rotazione del mondo, rappresentata generalmente dalla ruota, sia presso i Celti sia presso i Caldei e gli Indù (13). Tale è il vero significato dello "swastika", segno che troviamo diffuso dappertutto, dall'Estremo Oriente all'Estremo Occidente (14), e che è essenzialmente il «segno del Polo». Il suo senso reale viene qui fatto conoscere certamente per la prima volta nell'Europa moderna. Gli studiosi contemporanei, di fatto, hanno cercato invano di spiegare questo simbolo con le più fantasiose teorie; nella maggior parte, ossessionati da una sorta di idea fissa, hanno voluto vedervi, come in quasi ogni altra cosa, un segno esclusivamente «solare»(15), mentre, se anche talvolta lo è diventato, ciò non è potuto avvenire che accidentalmente e per vie traverse. Altri si sono avvicinati maggiormente alla verità considerando lo "swastika" come simbolo del movimento; ma tale interpretazione, pur non essendo falsa, è molto riduttiva, poiché non si tratta di un movimento qualunque, ma di un
movimento di rotazione che si compie intorno a un centro o a un asse immobile; ed è il punto fisso, ripetiamo, l'elemento essenziale cui si riferisce direttamente il simbolo in questione (16).
Da quanto abbiamo detto, si potrà già capire che il «Re del Mondo» deve avere una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice (e si noterà che non senza ragione quest'ultima parola ha la stessa radice di "rex" e "regere"), funzione che può riassumersi in una parola come «equilibrio» o «armonia», il che viene reso esattamente in sanscrito dal termine "Dharma" (17): con ciò intendiamo il riflesso, nel mondo manifestato, dell'immutabilità del Principio supremo. Si potrà capire anche, sulla base delle stesse considerazioni, perché il «Re del Mondo» ha come attributi fondamentali la «Giustizia» e la «Pace», che sono appunto le forme rivestite specificamente da tale equilibrio e tale armonia nel «mondo dell'uomo» ("mƒnava-loka") (18). Anche questo è un punto della massima importanza; e, a parte la sua portata generale, lo segnaliamo a coloro che si abbandonano a certi chimerici timori di cui si trova una qualche eco anche nelle ultime righe del
libro di Ossendowski.
3. LA «SHEKINAH» E «METATRON».
Vi sono spiriti timorosi, la cui capacità di comprendere è stranamente limitata da idee preconcette, i quali sono rimasti turbati dalla denominazione stessa di «Re del Mondo», che hanno subito avvicinato a quella del "Princeps hujus mundi" di cui si parla nel Vangelo. Tale
assimilazione, ovviamente, è del tutto erronea e priva di fondamento; per accantonarla, potremmo limitarci a far osservare che il titolo di «Re del Mondo», in ebraico e in arabo, è di solito attribuito a Dio stesso (1). Tuttavia, dato che ciò può dar luogo a qualche osservazione interessante, considereremo a questo proposito le teorie della Cabbala ebraica concernenti gli «intermediari celesti». Tali teorie, per altro, hanno un rapporto estremamente diretto col tema principale del presente studio.
Gli «intermediari celesti» di cui si tratta sono la "Shekinah" e "Metatron"; diremo innanzitutto che, nel suo senso più generale, la "Shekinah" è la «presenza reale» della Divinità. Si noti che i passi della Scrittura dove ne è fatta menzione sono soprattutto quelli in cui si tratta dell'istituzione di un centro spirituale: la costruzione di un Tabernacolo, l'edificazione dei Templi di Salomone e di Zorobabel. Un simile centro, costituito in condizioni definite secondo la regola, doveva essere di fatto il luogo della manifestazione divina, sempre rappresentata come «Luce»; è curioso osservare che l'espressione «luogo illuminatissimo e regolarissimo», conservata dalla Massoneria, sembra proprio essere un ricordo dell'antica scienza sacerdotale che presiedeva alla costruzione dei templi e che, del resto, non era peculiare degli Ebrei; torneremo più tardi su questo argomento. Non è il caso che ci addentriamo nello sviluppo della teoria degli «influssi spirituali» (preferiamo questa espressione alla parola «benedizioni» per tradurre l'ebraico "berakoth", tanto più che tale è il senso che ha conservato in arabo la parola "barakah"); ma, anche limitandosi a considerare le cose da questo solo punto di vista, sarebbe possibile spiegarsi le parole di Elias Levita che Vulliaud riporta nella sua opera "La Kabbale juive": «I Maestri della Cabbala hanno a questo proposito grandi segreti».
La "Shekinah" si presenta sotto aspetti molteplici, tra cui due principali, l'uno interno, l'altro esterno; d'altra parte vi è nella tradizione cristiana una frase che indica nel modo più chiaro questi
due aspetti: «"Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonae voluntatis"». Le parole "Gloria" e "Pax" si riferiscono rispettivamente all'aspetto interno, in rapporto al Principio, e
all'aspetto esterno, in rapporto al mondo manifestato; e, se intendiamo in questo senso tali parole, si può capire immediatamente perché siano pronunciate dagli Angeli ("Malakim") per annunciare la nascita del «Dio con noi» oppure «in noi» ("Emmanuel"). Per quanto riguarda il primo aspetto, si potrebbero anche ricordare le teorie dei teologi sulla «luce di gloria» nella quale e per mezzo della quale si opera la visione beatifica ("in excelsis"); quanto al secondo aspetto, ritroviamo qui la «Pace» alla quale alludevamo prima e che, nel suo significato esoterico, è indicata dappertutto come uno degli attributi fondamentali dei centri spirituali situati in questo mondo (in terra).
Del resto, il termine arabo "SakŒnah", che è evidentemente identico all'ebraico "Shekinah", si traduce con «Grande Pace», che è l'equivalente della "Pax Profunda" dei Rosacroce; e così si potrebbe spiegare che cosa essi intendessero per «Tempio dello Spirito Santo», come pure si potrebbero interpretare in modo preciso i numerosi testi evangelici nei quali si parla della «Pace» (2), tanto più che «la tradizione segreta concernente la "Shekinah" avrebbe qualche rapporto
con la luce del Messia». E sarà poi accidentale che Vulliaud, nel fornire quest'ultima indicazione (3), dica che si tratta della tradizione «riservata a coloro che seguivano la via che porta al "Pardes"», cioè, come vedremo poi, al centro spirituale supremo?
Questo ci induce a fare un'altra osservazione: Vulliaud parla in seguito di un «mistero relativo al Giubileo» (4), il che si ricollega in certo senso all'idea di «Pace», e a questo proposito cita il
seguente testo dello "Zohar" (III, 52 b): «Il fiume che esce dall'Eden porta il nome di "Jobel"», come pure il testo di Geremia (XVII, 8): «estenderà le sue radici verso il fiume», da cui risulta che «l'idea centrale del Giubileo è la restituzione di tutte le cose al loro stato primitivo». Si tratta chiaramente di quel ritorno allo «stato primordiale» che tutte le tradizioni contemplano e sul quale noi abbiamo avuto occasione di soffermarci un po' nel nostro studio "L'Esotérisme de Dante"; e, se si aggiunge che «il ritorno di tutte le cose al loro stato primitivo segnerà l'èra messianica», coloro che hanno letto quello studio potranno ricordarsi di quanto dicevamo sui
rapporti del «Paradiso terrestre» e della «Gerusalemme celeste». Del resto, a dire il vero, qui si tratta sempre, in fasi diverse della manifestazione ciclica, del "Pardes", il centro di questo mondo, che il simbolismo tradizionale di tutti i popoli paragona al cuore, centro dell'essere e «residenza divina» ("Brahma-pura" nella dottrina indù), come il Tabernacolo che ne è l'immagine e che perciò è detto in ebraico "mishkan" o «abitacolo di Dio», parola la cui radice è la stessa di "Shekinah".
Secondo un altro punto di vista, la "Shekinah" è la sintesi delle "Sephiroth"; ora, nell'albero sephirotico, la «colonna di destra» è il lato della Misericordia, e la «colonna di sinistra» è il lato del Rigore (5); dobbiamo dunque ritrovare tali aspetti anche nella "Shekinah" e possiamo notare subito, per collegare questo a quanto precede, che, almeno sotto un certo rispetto, il Rigore si identifica con la Giustizia e la Misericordia con la Pace (6). «Se l'uomo pecca e si allontana dalla "Shekinah", cade in balìa delle potenze ("Sƒrim") che dipendono dal Rigore» (7), e allora la "Shekinah" è detta «mano di rigore», il che ricorda subito il noto simbolo della «mano di giustizia»; ma, all'opposto, «se l'uomo si avvicina alla "Shekinah", si libera» e la "Shekinah" è la «mano destra» di Dio, come dire che la «mano di giustizia» diviene allora la «mano benedicente» (8). Sono questi i misteri della «Casa di Giustizia» ("Beith-Din"), che ancora
una volta è una designazione del centro spirituale supremo (9); quasi non occorre far notare che i due lati ora esaminati sono quelli in cui si ripartiscono gli eletti e i dannati nelle rappresentazioni cristiane del «Giudizio Universale». Si potrebbe anche fare un raffronto con le due vie che i Pitagorici raffigurano mediante la lettera Y e che il mito di Ercole fra la Virtù e il Vizio
rappresentava in forma essoterica; con le due porte, celeste e infernale, che presso i Latini erano associate al simbolismo di "Janus"; con le due fasi cicliche, ascendente e discendente (10), che presso gli Indù similmente si collegano al simbolismo di "Ganˆsha" (11). Insomma, da tutto questo è facile capire che cosa significhino in verità espressioni come «retta intenzione», che troveremo in seguito, e «buona volontà» («Pax hominibus bonae voluntatis», e coloro che conoscono un po' i vari simboli di cui abbiamo parlato vedranno come non senza motivo la festa del Natale coincida con l'epoca del solstizio d'inverno), se si ha cura di tralasciare tutte le interpretazioni esteriori, filosofiche e morali, cui hanno dato luogo dagli Stoici fino a Kant.
«La Cabbala dà alla "Shekinah" un paredro che porta nomi identici ai suoi e che possiede, per conseguenza, i medesimi caratteri» (12) e naturalmente ha tanti aspetti diversi quanti ne ha la "Shekinah" stessa; il suo nome è "Metatron", nome che equivale numericamente a quello di "Shaddai" (13), l'«Onnipotente» (che si dice essere il nome del Dio di Abramo). L'etimologia della parola "Metatron" è molto incerta; fra le diverse ipotesi formulate al riguardo una delle più
interessanti è quella che la fa derivare dal caldaico "Mitra", che significa «pioggia» e che, per la sua radice, ha un certo rapporto con la «luce». D'altra parte non bisogna credere che la somiglianza con il "Mitra" indù e zoroastriano costituisca una ragione sufficiente per ammettere che vi sia qui un prestito del Giudaismo da dottrine straniere, perché non è certo in questo modo affatto esteriore che vanno considerati i rapporti esistenti fra le varie tradizioni; e lo stesso va detto per quanto riguarda il ruolo attribuito alla pioggia in quasi tutte le tradizioni quale simbolo della discesa degli «influssi spirituali» dal Cielo sulla Terra. A questo proposito, bisogna notare che la dottrina ebraica parla di una «rugiada di luce» che emana dall'«Albero della Vita» e per mezzo della quale deve operarsi la resurrezione dei morti; e parla anche di una «effusione di rugiada» che rappresenta l'influsso celeste che si comunica a tutti i mondi, il che ricorda singolarmente il simbolismo alchemico e rosacroce.
«Il termine "Metatron" comporta tutte le accezioni di guardiano, Signore, inviato, mediatore»; egli è a l'autore delle teofanie nel mondo sensibile» (14); è l'«Angelo della Faccia» e anche il «Principe del Mondo» ("Sƒr ha-“lam"): quest'ultima designazione mostra che non ci siamo affatto allontanati dal nostro argomento. Per applicare il simbolismo tradizionale già spiegato in precedenza, potremmo dire che, come il capo della gerarchia iniziatica è il «Polo terrestre», così
"Metatron" è il «Polo celeste»; e l'uno si riflette nell'altro, essendo con esso in relazione diretta attraverso l'«Asse del Mondo».
«Il suo nome è "Mikael", il Grande Sacerdote, che è olocausto e oblazione dinanzi a Dio. E tutto ciò che fanno gli Israeliti sulla terra si compie seguendo i tipi di quanto avviene nel mondo celeste.
Il Grande Pontefice quaggiù simboleggia "Mikael", principe della Clemenza... In tutti i passi in cui la Scrittura parla dell'apparizione di "Mikael", si tratta della gloria della "Shekinah"» (15). Ciò che qui è detto degli Israeliti può essere detto parimenti di tutti i popoli che possiedono una tradizione veramente ortodossa; a maggior ragione deve essere detto dei rappresentanti della tradizione primordiale da cui tutte le altre derivano e alla quale tutte sono subordinate; e questo è in rapporto con il simbolismo della «Terra Santa», immagine del mondo celeste al quale abbiamo già fatto allusione. D'altra parte, è stato detto, "Metatron" non ha solo l'aspetto della Clemenza, ma anche quello della Giustizia, non è solo il «Grande Sacerdote» ("Kohen ha-gadol") ma anche il «Grande Principe» ("Sƒr ha-gadol") e il «capo delle milizie celesti», come dire che in
lui è il principio del potere regale e insieme del potere sacerdotale o pontificale al quale corrisponde propriamente la funzione di «mediatore». Bisogna notare, del resto, che "Melek", «re», e "Maleak", «angelo» oppure «inviato», non sono, in realtà, che due forme di un'unica parola; inoltre, "Malaki", «il mio inviato» (cioè l'inviato di Dio, o «l'angelo nel quale è Dio», "Maleak ha-Elohim"), è l'anagramma di "Mikael" (16).
E' opportuno aggiungere che se, come abbiamo visto, "Mikael" si identifica con "Metatron", ne rappresenta però soltanto un aspetto; accanto alla faccia luminosa, ve ne è una oscura, rappresentata da "Samael", chiamato anch'esso "Sƒr ha-“lam"; torniamo qui al punto di partenza delle nostre considerazioni. Di fatto, soltanto quest'ultimo aspetto rappresenta «il genio di questo mondo» in un senso inferiore, il "Princeps hujus mundi" di cui parla il Vangelo; e i suoi rapporti
con "Metatron", del quale è l'ombra, giustificano l'uso di una medesima designazione in un doppio senso, e al tempo stesso fanno intendere perché il numero apocalittico 666, il «numero della Bestia», è anche un numero solare (17). Del resto, secondo sant'Ippolito (18), «il Messia e l'Anticristo hanno entrambi per emblema il leone», che è un altro simbolo solare; si potrebbe fare la stessa osservazione per il serpente (19) e per molti altri simboli. Dal punto di vista cabbalistico, si tratta in questo caso ancora una volta delle due facce opposte di "Metatron"; non ci dilungheremo qui sulle teorie che si potrebbero formulare in generale su tale doppio senso dei simboli, ma diremo soltanto che la confusione fra l'aspetto luminoso e l'aspetto tenebroso costituisce propriamente il «Satanismo»; e appunto in tale confusione cadono, involontariamente e certo per ignoranza (il che è una scusa ma non una giustificazione) coloro che credono di scoprire un significato infernale nella designazione di «Re del Mondo» (20).
4. LE TRE FUNZIONI SUPREME.
Secondo Saint-Yves, il capo supremo dell'"Agarttha" porta il titolo di "Brahƒtmƒ" (sarebbe più corretto scrivere "Brahmƒtmƒ"), «supporto delle anime nello Spirito di Dio»; i suoi due coadiutori sono il "Mahƒtmƒ", «rappresentante dell'Anima universale» e il "Mahƒnga", «simbolo di tutta l'organizzazione materiale del Cosmo» (1): questa è la divisione gerarchica che le dottrine occidentali rappresentano mediante il ternario «spirito, anima, corpo», e che è applicata qui secondo l'analogia costitutiva del Macrocosmo e del Microcosmo. E' importante notare che tali termini, in sanscrito, designano propriamente dei princìpi e non possono essere applicati a esseri umani se non in quanto rappresentanti di questi stessi princìpi, in modo che, anche in tale caso, sono collegati essenzialmente a funzioni e non a individualità. Secondo Ossendowski, il "Mahƒtmƒ" «conosce gli avvenimenti del futuro», e il "Mahƒnga" «dirige le cause di tali avvenimenti»; quanto al "Brahƒtmƒ", può «parlare a Dio faccia a faccia» (2), ed è facile capire che cosa significhi questo, ricordando che esso occupa il punto centrale in cui si stabilisce la comunicazione diretta del mondo terrestre con gli stati superiori e, per loro mezzo, con il Principio supremo (3). Del resto, l'espressione «Re del Mondo», intesa in senso stretto ed esclusivamente in rapporto col mondo terrestre, sarebbe assai inadeguata; ben più esatto, per
certi riguardi, sarebbe attribuire al "Brahƒtmƒ" quella di «Signore dei tre mondi» (4) perché, in ogni vera gerarchia, colui che possiede il grado superiore possiede al tempo stesso e per ciò stesso tutti i gradi subordinati, e quei «tre mondi» (che costituiscono il "Tribhuvana" della tradizione indù) sono, come spiegheremo più avanti, i regni che corrispondono rispettivamente alle tre funzioni che abbiamo appena enumerato.
«Quando esce dal Tempio,» dice Ossendowski «il Re del Mondo è raggiante di Luce divina». La Bibbia ebraica dice esattamente lo stesso di Mosè quando scende dal Sinai (5) e, a proposito di questo raffronto, bisogna notare che la tradizione islamica considera Mosè come colui che è stato il «Polo» ("El-Qutb") della sua epoca; del resto, non è questa la ragione per cui la Cabbala dice che fu istruito da "Metatron" stesso? Converrebbe anche fare una distinzione fra il
centro spirituale supremo del nostro mondo e i centri secondari che possono essergli subordinati e che lo rappresentano solo in rapporto a tradizioni particolari, adattate specialmente a determinati popoli.
Senza dilungarci su questo punto, faremo osservare che la funzione di «legislatore» (in arabo "ras–l"), che è propria di Mosè, presuppone necessariamente una delega del potere che il nome di "Manu" designa; e, d'altra parte, uno dei significati inerenti al nome di "Manu" indica appunto la riflessione della Luce divina.
«Il Re del Mondo» disse un lama a Ossendowski «è in rapporto con i pensieri di tutti coloro che dirigono il destino dell'umanità... Conosce le loro intenzioni e le loro idee. Se esse piacciono a Dio, il Re del Mondo le favorirà col suo aiuto invisibile; se dispiacciono a Dio, il Re provocherà il loro fallimento. Tale è il potere dato all'"Agharti" mediante la scienza misteriosa di "Om", parola con cui diamo inizio a tutte le nostre preghiere». Segue subito dopo una frase che lascia senz'altro stupefatto chi ha una sia pur vaga idea del significato del monosillabo sacro "Om": «"Om" è il nome di un santo antico, il primo dei "Goro" [Ossendowski scrive "goro" per "guru"], che visse trecentomila anni fa». Questa frase, infatti, è assolutamente inintelligibile se non si tiene conto del fatto che l'epoca di cui si tratta, e che del resto a noi pare indicata in modo assai vago, è molto anteriore all'èra del presente "Manu"; d'altra parte, l'"Adi-Manu" o primo "Manu" del nostro "Kalpa" (in cui "Vaivaswata" è il settimo) è chiamato "Swƒyambhuva", cioè uscito da "Swayambh–", «Colui che sussiste di per sé», o il "Logos" eterno; ora il "Logos", o chi lo rappresenta direttamente, può veramente essere designato come il primo dei "Guru" o «Maestri spirituali»; e, in realtà, "Om" è un nome del "Logos" (6).
D'altra parte, la parola "Om" fornisce immediatamente la chiave della ripartizione gerarchica delle funzioni fra il "Brahƒtmƒ" e i suoi due coadiutori, quale noi abbiamo indicato prima. Di fatto, secondo la tradizione indù, i tre elementi di questo monosillabo sacro simboleggiano rispettivamente i «tre mondi» ai quali alludevamo prima, cioè i tre termini del "Tribhuvana": la Terra ("Bh–"), l'Atmosfera ("Bhuvas"), il Cielo ("Swar"), cioè, in altri termini, il mondo della
manifestazione corporea, il mondo della manifestazione sottile o psichica, il mondo principiale non manifestato (7). Sono questi, dal basso in alto, i regni propri del "Mahƒnga", del "Mahƒtmƒ" e del "Brahƒtmƒ", come si può constatare riferendosi all'interpretazione dei loro titoli che abbiamo data in precedenza; e i rapporti di subordinazione esistenti fra i diversi regni giustificano per il "Brahƒtmƒ" l'appellativo di «Signore dei tre mondi» che abbiamo già usato (8): «Questi è il Signore di tutte le cose, l'onniscente (che vede immediatamente tutti gli effetti nella loro causa), l'ordinatore interno (che risiede al centro del mondo e lo regge dal di dentro, dirigendone il movimento senza parteciparvi), la fonte (di ogni potere legittimo), l'origine e la fine di tutti gli esseri (della manifestazione ciclica di cui egli rappresenta la legge)» (9).
Servendoci di un altro simbolismo, parimenti esatto, diremo che il "Mahƒnga" rappresenta la base del triangolo iniziatico e il "Brahƒtmƒ" il suo vertice; fra i due, il "Mahƒtmƒ" incarna in certo senso un principio mediatore (la vitalità cosmica, l'"Anima Mundi" degli Ermetici), la cui azione si svolge nello «spazio intermedio»; e tutto ciò è raffigurato molto chiaramente dai corrispondenti caratteri dell'alfabeto sacro che Saint-Yves chiama "vattan" e Ossendowski
"vatannan", o, il che è lo stesso, dalle forme geometriche (linea retta, spirale, punto) alle quali si riferiscono essenzialmente i tre "mƒtrƒ" o elementi costitutivi del monosillabo "Om".
Spieghiamoci con chiarezza ancora maggiore: al "Brahƒtmƒ" appartiene la pienezza dei due poteri sacerdotale e regale, considerati principialmente e in certo senso allo stato indifferenziato; i due poteri si distinguono in seguito per manifestarsi, il "Mahƒtmƒ" rappresenta allora in particolare il potere sacerdotale e il "Mahƒnga" il potere regale. Tale distinzione corrisponde a quella dei "Brƒhmani" e degli "Kshatriya"; essendo però «al di là delle caste», il "Mahƒtmƒ" e il "Mahƒnga" hanno in se stessi, come il "Brahƒtmƒ", un carattere sacerdotale e regale a un tempo. A questo proposito, chiariremo un punto forse non ancora spiegato in modo soddisfacente e tuttavia molto importante: abbiamo alluso prima ai «Re Magi» del Vangelo, dicendo che essi riuniscono in sé i due poteri; diremo ora che tali personaggi misteriosi non rappresentano altro, in realtà, che i tre capi dell'"Agarttha" (10). Il "Mahƒnga" offre a Cristo l'oro e lo saluta come «Re»; il "Mahƒtmƒ" gli offre l'incenso e lo saluta come «Sacerdote»; il "Brahƒtmƒ", infine, gli offre la mirra (cioè il balsamo d'incorruttibilità, immagine dell'"Amritƒ") (11) e lo saluta come «Profeta» o Maestro spirituale per eccellenza. L'omaggio reso in tal modo al Cristo nascente, nei tre mondi che sono anche i loro rispettivi regni, dai rappresentanti autentici della tradizione
primordiale, è nello stesso tempo, si noti bene, il pegno della perfetta ortodossia del Cristianesimo nei confronti di essa.
Ossendowski, naturalmente, non poteva pensare a considerazioni di questo ordine; ma, se avesse capito certe cose più profondamente di quanto non abbia fatto, avrebbe potuto almeno rilevare la rigorosa analogia che esiste fra il ternario supremo dell'"Agarttha" e quello del Lamaismo, come egli stesso lo descrive: il "Dalai-Lama", «che realizza la santità (o la pura spiritualità) di "Buddha"», il "Tashi- Lama", «che realizza la sua scienza» (non «magica», ma piuttosto «teurgica»), e il "Bogdo-Khan", «che rappresenta la sua forza materiale e guerriera»; esattamente la stessa ripartizione, secondo i «tre mondi». Questa osservazione avrebbe potuto farla molto facilmente poiché gli era stato indicato che «la capitale dell'"Agharti" ricorda Lhassa dove il palazzo del "Dalai-Lama", il "Potala", si trova sulla cima di una montagna coperta di templi e di monasteri»; tale modo di esporre le cose, del resto, è errato in quanto rovescia i rapporti: dell'immagine, infatti, si può dire che ricorda il suo prototipo, ma non l'inverso. Ora il centro del Lamaismo non può essere che un'immagine del vero «Centro del Mondo»; ma tutti i centri di questo genere presentano, per quanto riguarda i luoghi in cui sono situati, alcune particolarità topografiche comuni le quali, lungi dall'essere irrilevanti, hanno un valore simbolico incontestabile e, inoltre, devono essere in relazione con le leggi secondo cui agiscono gli «influssi spirituali»; ma tale questione riguarda propriamente quella scienza tradizionale cui si può dare il nome di «geografia sacra».
Vi è poi un'altra concordanza non meno degna di nota: Saint-Yves, descrivendo i diversi gradi o cerchi della gerarchia iniziatica, i quali sono in relazione con determinati numeri simbolici riferentisi particolarmente alle divisioni del tempo, termina dicendo che «il cerchio più alto e più vicino al centro misterioso si compone di dodici membri, che rappresentano l'iniziazione suprema e corrispondono, fra l'altro, alla zona zodiacale». Tale struttura si trova riprodotta nel cosiddetto «consiglio circolare» del "Dalai-Lama", costituito dai dodici grandi "Namshan" (o "Nomekhan"); e la si può ritrovare, del resto, persino in certe tradizioni occidentali, in particolare in quelle che concernono i «Cavalieri della Tavola Rotonda». Aggiungeremo inoltre che i dodici membri del cerchio interno dell'"Agarttha", dal punto di vista dell'ordine cosmico, non
rappresentano soltanto i dodici segni dello Zodiaco, ma anche (e, benché le due interpretazioni non si escludano, saremmo tentati di dire «piuttosto»), i dodici "Aditya", che sono altrettante forme del Sole, in rapporto con quegli stessi segni zodiacali (12); e naturalmente, come "Manu Vaivaswata" è chiamato «figlio del Sole», così il «Re del Mondo» ha tra i suoi emblemi anche il Sole (13).
La prima conclusione che risulta da tutto questo è che vi sono veramente legami molto stretti fra le descrizioni che, in tutti i paesi, si riferiscono a centri spirituali più o meno nascosti, o almeno difficilmente accessibili. La sola spiegazione plausibile di questo fatto, qualora tali descrizioni si riferiscano, come sembra, a centri diversi, è che questi non sono per così dire altro che emanazioni di un centro unico e supremo, così come tutte le tradizioni particolari sono in fondo solo adattamenti della grande tradizione primordiale.
5. IL SIMBOLISMO DEL GRAAL.
Abbiamo appena alluso ai «Cavalieri della Tavola Rotonda»; non sarà fuori luogo accennare qui al significato della «cerca del Graal» che, nelle leggende di origine celtica, è presentata come loro funzione principale; si fa così allusione, in tutte le tradizioni, a qualcosa che, a partire da una certa epoca, sarebbe andato perduto o nascosto: il "Soma" degli Indù, per esempio, o lo "Haoma" dei Persiani, la «bevanda d'immortalità» che ha appunto un rapporto molto diretto col "Graal" poiché questo, si dice, è il vaso sacro che contiene il sangue di Cristo, anch'esso «bevanda d'immortalità». Altrove, il simbolismo è diverso: così, presso gli Ebrei, ciò che è andato perduto è la pronuncia del gran Nome divino (1); ma l'idea fondamentale è sempre la stessa e vedremo poi a che cosa corrisponde esattamente. Il Santo Graal, si dice, è la coppa che servì alla Cena e nella qu