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IlRe del Mondo

di René Guénon - 20/06/2009


        Il Re del Mondo.
    1. Nozioni sull'«Agarttha» in Occidente
    2. Regalità e pontificato
    3. La «Shekinah» e «Metatron»
    4. Le tre funzioni supreme
    5. Il simbolismo del Graal
    6. «Melki-Tsedeq»
    7. «Luz» o il soggiorno d'immortalità
    8. Il centro supremo nascosto durante il «Kali-Yuga».
    9. L'«Omphalos» e i betili
    10.  Nomi e rappresentazioni simboliche dei centri spirituali
    11. Localizzazione dei centri spirituali.
    12. Alcune conclusioni


    NOTA DELL'EDITORE.


    Nel 1924 apparve a Parigi un singolare libro di Ferdinand Ossendowski, dal  titolo  "Bestie,  uomini e dèi".  Vi si raccontava un avventuroso viaggio nell'Asia centrale,  nel corso del quale l'autore affermava di essere venuto in contatto con un centro iniziatico misterioso, situato in  un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono ovunque: il capo supremo di questo centro era detto Re del Mondo.
    René  Guénon  (1856-1951)  prese  spunto  da  tale  pubblicazione  per mostrare, in questo breve e splendido libro, come, dietro alle confuse narrazioni  di  Ossendowski  e  di  altri  scrittori,  si profilassero dottrine e miti immemoriali,  di cui si ritrovavano tracce  dal  Tibet (con  la  sua  nozione  dell'"Agarttha",  la terra 'inviolabile') alla tradizione ebraica (con la figura di  Melchisedec  e  della  città  di Salem),  e così anche nei più antichi testi sanscriti,  nel simbolismo del Graal,  nelle leggende sull'Atlantide e  in  tanti  altri  miti e immagini.  A  mano a mano che si svelano questi rapporti,  siamo còlti come da una vertigine: con pochi e sobri gesti Guénon riesce a mettere in contatto tali e così diverse cose che alla fine ci troviamo dinanzi a una sterminata prospettiva,  che traversa tutta  la  storia  fino  a  oggi,   dalle   origini   inattingibili   della  Tule  iperborea  fino all'occultamento del centro iniziatico nella  nostra  'età  nera',  il "Kali-Yuga".  In  poche pagine,  e tutto per immagini,  Guénon disegna dunque la  linea  della  trasmissione  della  Tradizione  primordiale, sicché  questo  libro  potrà  valere  per  molti  come introduzione al pensiero di un maestro solitario e indispensabile del nostro tempo.

 

    IL RE DEL MONDO.


    1.
    NOZIONI SULL'«AGARTTHA» IN OCCIDENTE.


    L'opera  postuma  di  Saint-Yves  d'Alveydre  intitolata  "Mission  de l'Inde", pubblicata nel 1910 (1), contiene la descrizione di un centro iniziatico  misterioso indicato col nome di "Agarttha";  fra i lettori di quel libro,  molti probabilmente pensarono che si trattasse solo di un  racconto  del  tutto  immaginario,  una sorta di finzione priva di qualsiasi fondamento reale. Vi si trovano infatti, se si vuol prendere tutto alla lettera,  inverosimiglianze che,  almeno per coloro che  si attengono  alle  apparenze esteriori,  potrebbero giustificare un tale giudizio;  e Saint-Yves aveva senz'altro avuto delle buone ragioni per non pubblicare egli stesso quell'opera scritta tanto tempo prima e mai    veramente portata a termine.  D'altra parte,  prima di allora, non era stata fatta menzione in Europa né dell'"Agarttha" né del suo capo,  il "Brahmƒtmƒ",  se  non  da  uno  scrittore  di  scarsa  serietà,  Louis Jacolliot (2), alla cui autorità non si può certo fare riferimento; da parte nostra,  pensiamo che egli avesse realmente  inteso  parlare  di  quelle cose durante un suo soggiorno in India, ma per manipolarle poi, come  tutto  il  resto,  alla  sua  maniera  eminentemente fantasiosa.
    Tuttavia nel 1924 è avvenuto un  fatto  nuovo  e  inatteso:  il  libro "Bˆtes,  Hommes et Dieux", nel quale Ferdinand Ossendowski racconta le sue peripezie nel corso di un laborioso viaggio compiuto fra il 1920 e il 1921 attraverso l'Asia centrale, contiene,  soprattutto nell'ultima parte,  racconti  quasi  identici  a  quelli di Saint-Yves;  e i molti commenti che hanno accompagnato questo  libro  ci  offrono,  crediamo, l'occasione   di   rompere  finalmente  il  silenzio  sulla  questione dell'"Agarttha".
    Spiriti scettici  o  malevoli  non  hanno  mancato,  naturalmente,  di accusare   Ossendowski  di  aver  semplicemente  plagiato  Saint-Yves, segnalando tutti i passi concordanti delle due opere;  e infatti ve ne sono  parecchi  che  presentano,  anche  nei particolari,  somiglianze davvero sorprendenti. Vi troviamo innanzitutto, cosa che poteva parere inverosimile anche in Saint-Yves,  l'affermazione dell'esistenza di un mondo sotterraneo, le cui ramificazioni si estenderebbero dappertutto, sotto i continenti e anche sotto gli oceani,  e per mezzo del quale si stabilirebbero invisibili comunicazioni fra  tutte  le  regioni  della terra;  Ossendowski,  del  resto,  non  rivendica  la paternità di una simile asserzione e anzi  dichiara  di  non  sapere  cosa  pensare  in proposito; la attribuisce invece a vari personaggi incontrati lungo il viaggio.  Passando a questioni più particolari, c'è il passo in cui il «Re del Mondo» è raffigurato dinanzi alla tomba del suo  predecessore, quello  in  cui si parla dell'origine degli Zingari,  i quali un tempo avrebbero vissuto nell'"Agarttha" (3),  e molti altri  ancora.  Saint-Yves  dice  che,  durante  la  celebrazione  sotterranea  dei «Misteri    cosmici»,  vi sono momenti in cui i viaggiatori  che  si  trovano  nel deserto si fermano, in cui anche gli animali rimangono silenziosi (4); Ossendowski  sostiene  di  aver  assistito personalmente a uno di quei momenti di generale raccoglimento.  E poi,  fra le strane coincidenze, vi  è  la storia di un'isola,  oggi scomparsa,  dove sarebbero vissuti uomini e animali straordinari: a questo proposito,  Saint-Yves cita il riassunto  del  periplo  di  Iambulo  fatto da Diodoro Siculo,  mentre Ossendowski parla del viaggio di  un  antico buddista del Nepal, e tuttavia  le  loro  descrizioni  non  differiscono  quasi;  se davvero esistono due versioni di  questa  storia  provenienti  da  fonti  così lontane  l'una  dall'altra,  potrebbe essere interessante ritrovarle e confrontarle accuratamente.
    Abbiamo voluto segnalare tutte queste concordanze,  ma teniamo anche a dire  che non ci convincono affatto della realtà del plagio;  è nostra intenzione,  del  resto,   non  addentrarci  in  questa  sede  in  una discussione che,  in fondo,  ci interessa ben poco.  Indipendentemente dalle testimonianze che Ossendowski stesso ci ha indicato, sappiamo da altre fonti che racconti di questo genere sono frequenti in Mongolia e in tutta l'Asia centrale; e aggiungeremo subito che qualcosa di simile esiste nelle tradizioni di quasi tutti i  popoli.  D'altra  parte,  se Ossendowski  avesse  parzialmente copiato la "Mission de l'Inde",  non vediamo perché avrebbe omesso certi passi di grande effetto, né perché avrebbe cambiato la forma  di  certe  parole,  scrivendo  per  esempio
"Agharti"  invece  di  "Agarttha",  il che invece si spiega molto bene qualora egli abbia ottenuto  da  fonte  mongola  le  informazioni  che Saint-Yves aveva ottenuto da fonte indù (di fatto sappiamo che egli fu in  relazione  con  almeno  due  Indù) (5);  né capiamo perché avrebbe usato, per designare il capo della gerarchia iniziatica,  il titolo di «Re  del  Mondo»,  che  non  figura  mai  in  Saint-Yves.  Anche se si ammettessero certi prestiti,  resta sempre il  fatto  che  Ossendowski dice  talora  cose che non hanno il loro equivalente nella "Mission de l'Inde",  e che egli non ha certo potuto  inventare  di  sana  pianta, tanto  più che,  essendo interessato più alla politica che alle idee e
alle dottrine,  e ignorando tutto ciò  che  riguarda  l'esoterismo,  è stato   evidentemente  incapace  di  coglierne  egli  stesso  l'esatta portata: citeremo in proposito la storia di una «pietra nera»  inviata un  tempo dal «Re del Mondo» al "Dalai-Lama",  poi trasportata a Urga, in Mongolia,  e scomparsa circa cento  anni  fa  (6):  ora,  in  molte tradizioni  le «pietre nere» hanno un ruolo importante,  da quella che era il simbolo di Cibele fino  a  quella  incastonata  nella  "Kaabah" della  Mecca  (7).  Ecco  un  altro esempio: il "Bogdo-Khan" o «Buddha vivente»,  che  risiede  a  Urga,  conserva,  insieme  ad  altre  cose preziose,  l'anello  di Gengis-Khan su cui è inciso uno "swastika",  e una placca di rame che porta il sigillo del «Re del Mondo»; sembra che Ossendowski abbia potuto vedere solo il primo di questi  due  oggetti, ma   ben  difficilmente  avrebbe  potuto  immaginare  l'esistenza  del secondo;  e in tal caso non gli sarebbe venuto più naturale parlare di una placca d'oro?
    Queste  poche  osservazioni  preliminari sono sufficienti per lo scopo che  ci  siamo  proposti,  poiché  intendiamo  rimanere  assolutamente estranei  a  qualsiasi  polemica  e  questione  personale;  se citiamo Ossendowski e Saint-Yves è solo perché  quello  che  hanno  detto  può    servire  come  punto  di partenza per considerazioni che nulla hanno a che vedere con quanto si potrà pensare dell'uno o dell'altro, e la cui portata supera di molto le loro individualità e anche la  nostra  che, in  questo ambito,  non deve certo contare di più.  Riguardo alle loro opere,  non vogliamo dedicarci a una «critica del testo»  più  o  meno inutile,  ma  fornire piuttosto indicazioni che,  almeno per quanto ne sappiamo,  non sono ancora state date da  nessuno  e  che  possono  in
qualche  misura  aiutare  a  chiarire quello che Ossendowski chiama il «mistero dei misteri» (8).
   

2.  REGALITA' E PONTIFICATO.

    Il titolo di «Re del Mondo»,  inteso nella sua accezione più  elevata, più  completa e insieme più rigorosa,  viene attribuito propriamente a "Manu",  il Legislatore  primordiale  e  universale  il  cui  nome  si ritrova,   sotto  forme  diverse,   presso  numerosi  popoli  antichi; ricordiamo soltanto,  a questo proposito,  il "Mina" o  "Menes"  degli Egizi,  il  "Menw" dei Celti e il "Minosse" dei Greci (1).  Tale nome, del resto, non indica un personaggio storico o più o meno leggendario.
    Esso designa,  in realtà,  un principio,  l'Intelligenza  cosmica  che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge ("Dharma") propria delle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza;  ed è, al tempo stesso,  l'archetipo dell'uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito "mƒnava").
    D'altra parte,  l'importante qui è far rilevare che tale principio può essere reso manifesto da un  centro  spirituale  stabilito  nel  mondo terrestre,    da   una   organizzazione   incaricata   di   conservare integralmente il deposito della  tradizione  sacra,  di  origine  «non umana» ("apaurushˆya"),  per mezzo della quale la Sapienza primordiale si comunica attraverso le  epoche  a  coloro  che  sono  in  grado  di riceverla.  Il  capo di tale organizzazione,  in quanto rappresenta in
certo modo "Manu" stesso,  potrà legittimamente portarne il  titolo  e gli  attributi;  inoltre,  dato  il  grado di conoscenza che deve aver raggiunto  per  poter  esercitare  la  sua  funzione,   si  identifica
realmente  col  principio di cui è in certo modo l'espressione umana e davanti  al  quale  la  sua  individualità  scompare.   Così   è   per  l'"Agarttha",  se  questo  centro  ha raccolto,  come dice Saint-Yves, l'eredità dell'antica «dinastia solare» ("S–rya-vansha") che risiedeva un tempo a Ayodhyƒ (2) e che faceva  risalire  la  propria  origine  a "Vaivaswata", il "Manu" del ciclo attuale. Come già si è detto, Saint- Yves  non considera tuttavia il capo supremo dell'"Agarttha" quale «Re   del Mondo»;  lo presenta come «Sovrano Pontefice» e inoltre lo pone  a capo  di  una  «Chiesa  brƒhmanica»,  designazione  che  deriva da una concezione un po' troppo occidentalizzata (3).  A  parte  quest'ultima riserva,  ciò che egli dice completa,  a questo riguardo, quanto a sua volta dice Ossendowski;  si direbbe che ciascuno dei due  abbia  visto soltanto   l'aspetto  più  direttamente  corrispondente  alle  proprie tendenze e preoccupazioni dominanti, poiché qui, in verità,  si tratta di un doppio potere, al tempo stesso sacerdotale e regale.
    Il  carattere «pontificale»,  nel senso più vero che ha questa parola, appartiene realmente,  e  per  eccellenza,  al  capo  della  gerarchia iniziatica,   e  ciò  richiede  una  spiegazione:  letteralmente,   il "Pontifex" è un «costruttore di ponti»,  e questo titolo romano  è  in qualche  modo,   per  la  sua  origine,  un  titolo  «massonico»;  ma, simbolicamente,  il "Pontifex" è colui  che  adempie  la  funzione  di mediatore,  in quanto stabilisce la comunicazione fra questo mondo e i mondi superiori.
    In tal senso, l'arcobaleno, il «ponte celeste»,  è un simbolo naturale del «pontificato»; e tutte le tradizioni gli attribuiscono significati perfettamente  concordanti:  così,  presso gli Ebrei,  esso è il pegno dell'alleanza  di  Dio  con  il  suo  popolo;  in  Cina,  è  il  segno dell'unione del Cielo con la Terra;  in Grecia,  rappresenta Iride, la «messaggera degli Dèi»; un po' dappertutto,  presso gli Scandinavi,  i Persiani,  gli  Arabi,  in Africa centrale e anche presso certi popoli dell'America del Nord,  è il ponte che collega il  mondo  sensibile  a quello sovrasensibile.
    Presso i Latini,  poi,  l'unione dei due poteri, sacerdotale e regale, era rappresentata da un  certo  aspetto  del  simbolismo  di  "Janus",  simbolismo  estremamente  complesso  e dai molteplici significati;  le chiavi d'oro e d'argento  raffiguravano,  in  tale  contesto,  le  due iniziazioni corrispondenti (5).  Si tratta,  per usare la terminologia indù, della via dei "Brƒhmani" e di quella degli "Kshatriya"; ma, alla sommità della gerarchia,  si arriva al principio comune da cui gli uni e  gli  altri  traggono  i loro attributi rispettivi,  dunque al di là della loro distinzione,  poiché lì è  la  sorgente  di  ogni  autorità legittima,  in  qualsiasi  ambito  essa  si  eserciti;  e gli iniziati dell'"Agarttha" sono "ativarna", cioè a al di là delle caste» (6).
    Vi era, nel medioevo, un'espressione che riuniva in sé, in un modo che vale  la  pena  di   sottolineare,   i   due   aspetti   complementari dell'autorità:  a  quell'epoca,  si  parlava  spesso  di  una contrada misteriosa chiamata «regno del prete Gianni» (7).  Era il tempo in cui quella  che  si potrebbe designare la «copertura esteriore» del centro in questione era costituita,  in buona parte,  dai  Nestoriani  (o  da quanto  si è convenuto,  a torto o a ragione,  di chiamare così) e dai Sabei (8); proprio questi ultimi si attribuivano il nome di "Mendayyeh di Yahia",  cioè «discepoli di Gianni».  A questo proposito,  possiamo fare  subito un'altra osservazione: è per lo meno curioso che numerosi gruppi orientali a carattere molto chiuso, dagli Ismaeliti o discepoli del «Vecchio della Montagna» ai  Drusi  del  Libano,  abbiano  assunto tutti,  similmente agli ordini cavallereschi occidentali, il titolo di «guardiani della Terra Santa».  Quanto segue aiuterà  senza  dubbio  a capire  meglio il significato di tutto ciò;  si direbbe che Saint-Yves abbia trovato una parola molto giusta,  forse ancor più di quanto  lui pensasse,  quando parla dei «Templari dell'"Agarttha"».  Perché non ci
si meravigli dell'espressione «copertura esteriore» che abbiamo appena usato,  aggiungeremo che  bisogna  aver  ben  presente  il  fatto  che l'iniziazione   cavalleresca   era  essenzialmente  un'iniziazione  di "Kshatriya"; il che spiega, fra l'altro, il ruolo preponderante che vi svolge il simbolismo dell'Amore (9).
    A  prescindere  da  queste  ultime  considerazioni,   l'idea   di   un  personaggio che è sacerdote e re al tempo stesso non è molto comune in Occidente,  benché,  proprio all'origine del Cristianesimo,  essa sia rappresentata in  modo  assai  evidente  dai  «Re  Magi»;  ancora  nel medioevo  il  potere  supremo  (stando  per  lo  meno  alle  apparenze esteriori) era diviso fra il Papato e l'Impero (10).  Tale separazione può  essere  considerata  il  segno di un'organizzazione incompleta al  vertice,  se  così  possiamo  esprimerci,  poiché  non  vi  appare  il principio  comune  da  cui  procedono  e  dipendono regolarmente i due poteri;  dunque il vero potere supremo  doveva  trovarsi  altrove.  In
Oriente,  al contrario,  il mantenimento di una separazione al vertice stesso della gerarchia è  abbastanza  eccezionale,  e  solo  in  certe concezioni buddiste si può incontrare qualcosa del genere;  intendiamo alludere alla incompatibilità dichiarata tra la funzione di "Buddha" e quella di "ChakravartŒ" o «monarca universale» (11),  là dove si  dice che "Shƒkya-Muni",  a un certo momento,  dovette scegliere fra l'una e l'altra. E' opportuno aggiungere che il termine "Chakravart Œ", che non ha nulla di particolarmente  buddistico,  si  adatta  molto  bene,  in rapporto ai dati della tradizione indù, alla funzione del "Manu" o dei suoi  rappresentanti:  letteralmente è «colui che fa girare la ruota», colui cioè che,  posto al centro  di  tutte  le  cose,  ne  dirige  il movimento senza parteciparvi egli stesso, o che, secondo l'espressione di Aristotele, ne è il «motore immobile» (12).
    Richiamiamo  particolarmente  l'attenzione su questo: il centro di cui si tratta è il punto fisso che tutte le  tradizioni  sono  concordi  a designare  simbolicamente come il «Polo»,  perché è attorno a esso che si effettua la rotazione del mondo,  rappresentata generalmente  dalla ruota,  sia presso i Celti sia presso i Caldei e gli Indù (13). Tale è il vero significato  dello  "swastika",  segno  che  troviamo  diffuso dappertutto,  dall'Estremo Oriente all'Estremo Occidente (14), e che è  essenzialmente il «segno del Polo». Il suo senso reale viene qui fatto conoscere certamente per  la  prima  volta  nell'Europa  moderna.  Gli studiosi  contemporanei,  di  fatto,  hanno cercato invano di spiegare questo simbolo con le più  fantasiose  teorie;  nella  maggior  parte, ossessionati da una sorta di idea fissa, hanno voluto vedervi, come in quasi ogni altra cosa,  un segno esclusivamente «solare»(15), mentre, se anche talvolta lo è diventato, ciò non è potuto avvenire che accidentalmente   e  per  vie  traverse.   Altri  si  sono  avvicinati maggiormente alla verità considerando lo "swastika" come  simbolo  del movimento;  ma  tale interpretazione,  pur non essendo falsa,  è molto riduttiva,  poiché non si tratta di un movimento qualunque,  ma di  un
movimento  di  rotazione che si compie intorno a un centro o a un asse immobile; ed è il punto fisso, ripetiamo, l'elemento essenziale cui si riferisce direttamente il simbolo in questione (16).
    Da quanto abbiamo detto,  si potrà già capire che il  «Re  del  Mondo» deve avere una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice (e si noterà  che  non senza ragione quest'ultima parola ha la stessa radice di "rex" e "regere"),  funzione che può riassumersi in una parola come «equilibrio»  o «armonia»,  il che viene reso esattamente in sanscrito dal termine "Dharma" (17): con ciò intendiamo il riflesso,  nel  mondo manifestato,  dell'immutabilità del Principio supremo. Si potrà capire anche,  sulla base delle stesse  considerazioni,  perché  il  «Re  del Mondo» ha come attributi fondamentali la «Giustizia» e la «Pace»,  che sono appunto le forme rivestite specificamente da  tale  equilibrio e tale armonia nel «mondo dell'uomo» ("mƒnava-loka") (18).  Anche questo è un punto della  massima  importanza;  e,  a  parte  la  sua  portata generale,  lo segnaliamo a coloro che si abbandonano a certi chimerici timori di cui si trova una qualche eco anche nelle  ultime  righe  del
libro di Ossendowski.


    3.  LA «SHEKINAH» E «METATRON».

    Vi sono spiriti timorosi, la cui capacità di comprendere è stranamente limitata  da  idee  preconcette,  i  quali  sono rimasti turbati dalla denominazione stessa di «Re del Mondo»,  che hanno subito avvicinato a quella  del  "Princeps hujus mundi" di cui si parla nel Vangelo.  Tale
assimilazione, ovviamente,  è del tutto erronea e priva di fondamento; per accantonarla,  potremmo limitarci a far osservare che il titolo di «Re del Mondo»,  in ebraico e in arabo,  è di solito attribuito a  Dio stesso  (1).   Tuttavia,   dato  che  ciò  può  dar  luogo  a  qualche osservazione interessante,  considereremo a questo proposito le teorie della  Cabbala  ebraica  concernenti gli «intermediari celesti».  Tali teorie,  per altro,  hanno un rapporto estremamente diretto  col  tema principale del presente studio.
Gli  «intermediari  celesti»  di  cui  si  tratta sono la "Shekinah" e "Metatron";  diremo innanzitutto che,  nel suo senso più generale,  la "Shekinah"  è la «presenza reale» della Divinità.  Si noti che i passi della Scrittura dove ne è fatta menzione sono  soprattutto  quelli  in cui si tratta dell'istituzione di un centro spirituale: la costruzione di  un  Tabernacolo,  l'edificazione  dei  Templi  di  Salomone  e  di Zorobabel. Un simile centro, costituito in condizioni definite secondo la regola,  doveva essere  di  fatto  il  luogo  della  manifestazione divina,  sempre  rappresentata  come  «Luce»;  è curioso osservare che l'espressione  «luogo  illuminatissimo e regolarissimo», conservata dalla Massoneria, sembra proprio essere un ricordo dell'antica scienza sacerdotale  che  presiedeva  alla  costruzione dei templi e che,  del resto,  non era peculiare degli Ebrei;  torneremo più tardi su questo argomento.  Non  è  il  caso  che  ci addentriamo nello sviluppo della teoria degli «influssi spirituali» (preferiamo questa espressione alla parola «benedizioni» per tradurre l'ebraico "berakoth",  tanto più che tale  è il senso che ha conservato in arabo la parola "barakah");  ma, anche limitandosi a considerare le cose da questo solo punto di vista, sarebbe possibile spiegarsi le parole di  Elias  Levita  che  Vulliaud riporta  nella  sua opera "La Kabbale juive": «I Maestri della Cabbala hanno a questo proposito grandi segreti».
    La "Shekinah" si  presenta  sotto  aspetti  molteplici,  tra  cui  due principali,  l'uno interno,  l'altro esterno; d'altra parte vi è nella tradizione cristiana una frase che indica nel modo più  chiaro  questi
due aspetti: «"Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonae voluntatis"».    Le   parole   "Gloria"   e   "Pax"   si   riferiscono rispettivamente all'aspetto  interno,  in  rapporto  al  Principio,  e
all'aspetto  esterno,   in  rapporto  al  mondo  manifestato;   e,  se  intendiamo in questo senso tali parole,  si può capire  immediatamente perché  siano  pronunciate  dagli Angeli ("Malakim") per annunciare la nascita del «Dio con noi» oppure «in  noi»  ("Emmanuel").  Per  quanto riguarda il primo aspetto, si potrebbero anche ricordare le teorie dei teologi  sulla «luce di gloria» nella quale e per mezzo della quale si opera la visione beatifica ("in excelsis"); quanto al secondo aspetto, ritroviamo qui la «Pace» alla quale alludevamo prima e  che,  nel  suo significato esoterico, è indicata dappertutto come uno degli attributi fondamentali dei centri spirituali situati in questo mondo (in terra).
    Del  resto,  il termine arabo "SakŒnah",  che è evidentemente identico all'ebraico  "Shekinah",   si  traduce  con  «Grande  Pace»,   che   è l'equivalente  della "Pax Profunda" dei Rosacroce;  e così si potrebbe spiegare che cosa essi intendessero per «Tempio dello Spirito  Santo», come  pure si potrebbero interpretare in modo preciso i numerosi testi evangelici nei quali si parla della «Pace»  (2),  tanto  più  che  «la tradizione  segreta concernente la "Shekinah" avrebbe qualche rapporto
con la luce del Messia».  E sarà poi  accidentale  che  Vulliaud,  nel fornire  quest'ultima  indicazione  (3),  dica  che  si  tratta  della tradizione «riservata a coloro che  seguivano  la  via  che  porta  al "Pardes"», cioè, come vedremo poi, al centro spirituale supremo?
    Questo  ci  induce  a  fare  un'altra  osservazione: Vulliaud parla in seguito di un «mistero relativo al Giubileo» (4),  il che si ricollega in  certo  senso  all'idea  di  «Pace»,  e  a questo proposito cita il
seguente testo dello "Zohar" (III, 52 b): «Il fiume che esce dall'Eden porta il nome di "Jobel"»,  come pure il testo di Geremia  (XVII,  8): «estenderà  le sue radici verso il fiume»,  da cui risulta che «l'idea centrale del Giubileo è la restituzione di tutte le cose al loro stato primitivo».   Si  tratta  chiaramente  di  quel  ritorno  allo  «stato primordiale»  che  tutte  le  tradizioni  contemplano  e sul quale noi abbiamo avuto occasione  di  soffermarci  un  po'  nel  nostro  studio "L'Esotérisme de Dante"; e, se si aggiunge che «il ritorno di tutte le cose  al  loro  stato primitivo segnerà l'èra messianica»,  coloro che  hanno letto quello studio potranno ricordarsi di quanto  dicevamo  sui
rapporti  del «Paradiso terrestre» e della «Gerusalemme celeste».  Del resto,  a dire il vero,  qui si tratta sempre,  in fasi diverse  della manifestazione ciclica,  del "Pardes",  il centro di questo mondo, che il simbolismo tradizionale di tutti i popoli paragona al cuore, centro dell'essere e «residenza divina» ("Brahma-pura" nella dottrina  indù), come  il  Tabernacolo  che  ne  è  l'immagine  e che perciò è detto in ebraico "mishkan" o «abitacolo di Dio»,  parola la  cui  radice  è  la stessa di "Shekinah".
    Secondo  un  altro  punto  di vista,  la "Shekinah" è la sintesi delle "Sephiroth"; ora, nell'albero sephirotico, la «colonna di destra» è il lato della Misericordia,  e la «colonna di sinistra»  è  il  lato  del Rigore  (5);  dobbiamo  dunque  ritrovare  tali  aspetti  anche  nella "Shekinah" e possiamo notare subito,  per collegare  questo  a  quanto precede,  che, almeno sotto un certo rispetto, il Rigore si identifica con la Giustizia e la Misericordia con la Pace (6). «Se l'uomo pecca e  si allontana dalla "Shekinah",  cade in balìa delle potenze  ("Sƒrim") che dipendono dal Rigore» (7), e allora la "Shekinah" è detta «mano di rigore»,  il  che  ricorda  subito  il  noto  simbolo  della  «mano di giustizia»; ma,  all'opposto,  «se l'uomo si avvicina alla "Shekinah", si libera» e la "Shekinah" è la «mano destra» di Dio, come dire che la «mano  di  giustizia»  diviene allora la «mano benedicente» (8).  Sono questi i misteri della «Casa di Giustizia» ("Beith-Din"),  che  ancora
una volta è una designazione del centro spirituale supremo (9);  quasi non occorre far notare che i due lati ora esaminati sono quelli in cui si ripartiscono gli eletti  e  i  dannati  nelle rappresentazioni cristiane  del  «Giudizio  Universale».  Si  potrebbe  anche  fare  un raffronto con le due vie che  i  Pitagorici  raffigurano  mediante  la lettera  Y  e  che  il  mito  di  Ercole  fra  la  Virtù  e  il  Vizio
rappresentava in  forma  essoterica;  con  le  due  porte,  celeste  e infernale,  che  presso  i  Latini  erano  associate  al simbolismo di "Janus"; con le due fasi cicliche, ascendente e discendente (10),  che presso  gli  Indù  similmente  si collegano al simbolismo di "Ganˆsha" (11).  Insomma,  da tutto questo è facile capire che cosa significhino in  verità  espressioni  come  «retta  intenzione»,  che  troveremo in seguito, e «buona volontà» («Pax hominibus bonae voluntatis», e coloro che conoscono un po' i vari simboli di cui  abbiamo  parlato  vedranno come  non  senza  motivo  la festa del Natale coincida con l'epoca del solstizio  d'inverno),   se  si  ha  cura  di  tralasciare  tutte   le interpretazioni esteriori,  filosofiche e morali, cui hanno dato luogo dagli Stoici fino a Kant.
    «La Cabbala dà alla "Shekinah" un paredro che porta nomi  identici  ai suoi  e  che possiede,  per conseguenza,  i medesimi caratteri» (12) e naturalmente ha tanti aspetti  diversi  quanti  ne  ha  la  "Shekinah" stessa;  il  suo nome è "Metatron",  nome che equivale numericamente a quello di "Shaddai" (13),  l'«Onnipotente» (che si dice essere il nome del  Dio  di  Abramo).  L'etimologia  della  parola "Metatron" è molto incerta;  fra le diverse ipotesi formulate al riguardo una  delle  più
interessanti  è  quella  che la fa derivare dal caldaico "Mitra",  che significa «pioggia» e che, per la sua radice, ha un certo rapporto con la «luce». D'altra parte non bisogna credere che la somiglianza con il "Mitra" indù e zoroastriano costituisca una  ragione  sufficiente  per ammettere  che  vi  sia  qui  un  prestito  del  Giudaismo da dottrine  straniere,  perché non è certo in questo modo  affatto  esteriore  che vanno  considerati i rapporti esistenti fra le varie tradizioni;  e lo stesso va detto per quanto riguarda il ruolo attribuito  alla  pioggia  in  quasi  tutte  le  tradizioni  quale  simbolo  della  discesa degli  «influssi spirituali» dal  Cielo  sulla  Terra.  A  questo  proposito, bisogna  notare che la dottrina ebraica parla di una «rugiada di luce» che emana dall'«Albero della  Vita»  e  per  mezzo  della  quale  deve  operarsi la resurrezione dei morti; e parla anche di una «effusione di rugiada»  che rappresenta l'influsso celeste che si comunica a tutti i mondi,   il  che  ricorda  singolarmente  il  simbolismo  alchemico  e rosacroce.
    «Il  termine  "Metatron"  comporta tutte le accezioni di guardiano, Signore,  inviato,  mediatore»;  egli è a l'autore delle teofanie  nel mondo sensibile» (14);  è l'«Angelo della Faccia» e anche il «Principe del Mondo» ("Sƒr ha-“lam"): quest'ultima designazione mostra  che  non ci  siamo  affatto allontanati dal nostro argomento.  Per applicare il simbolismo tradizionale già spiegato in precedenza, potremmo dire che, come il capo della gerarchia iniziatica è il  «Polo  terrestre»,  così
"Metatron"  è  il  «Polo  celeste»;  e  l'uno  si riflette nell'altro, essendo con esso in relazione diretta attraverso l'«Asse  del  Mondo».
    «Il  suo  nome  è  "Mikael",  il  Grande Sacerdote,  che è olocausto e oblazione dinanzi a Dio.  E tutto ciò che fanno  gli  Israeliti  sulla terra  si  compie seguendo i tipi di quanto avviene nel mondo celeste.
    Il Grande  Pontefice  quaggiù  simboleggia  "Mikael",  principe  della Clemenza...   In tutti i passi in cui la Scrittura parla dell'apparizione di "Mikael", si tratta della gloria della "Shekinah"» (15).  Ciò che qui è detto degli Israeliti può essere detto  parimenti di tutti i popoli che possiedono una tradizione veramente ortodossa; a maggior  ragione deve essere detto dei rappresentanti della tradizione primordiale da cui tutte le altre derivano e  alla  quale  tutte  sono subordinate;  e  questo  è  in rapporto con il simbolismo della «Terra Santa»,  immagine  del  mondo  celeste  al  quale  abbiamo  già  fatto allusione.  D'altra  parte,  è  stato  detto,  "Metatron"  non ha solo l'aspetto della Clemenza, ma anche quello della Giustizia,  non è solo il «Grande Sacerdote» ("Kohen ha-gadol") ma anche il «Grande Principe» ("Sƒr  ha-gadol") e il «capo delle milizie celesti»,  come dire che in
lui è il principio del potere regale e insieme del potere  sacerdotale o pontificale  al  quale  corrisponde  propriamente  la  funzione  di «mediatore». Bisogna notare, del resto, che "Melek", «re», e "Maleak", «angelo» oppure «inviato»,  non sono,  in realtà,  che  due  forme  di un'unica parola;  inoltre,  "Malaki", «il mio inviato» (cioè l'inviato di  Dio,  o  «l'angelo  nel  quale  è  Dio»,  "Maleak  ha-Elohim"),  è l'anagramma di "Mikael" (16).
    E'  opportuno  aggiungere  che  se,  come  abbiamo visto,  "Mikael" si identifica con "Metatron",  ne rappresenta però soltanto  un  aspetto; accanto  alla  faccia luminosa,  ve ne è una oscura,  rappresentata da "Samael",  chiamato anch'esso "Sƒr ha-“lam";  torniamo qui al punto di partenza delle nostre considerazioni.  Di fatto, soltanto quest'ultimo aspetto rappresenta «il genio di questo mondo» in un senso  inferiore, il  "Princeps hujus mundi" di cui parla il Vangelo;  e i suoi rapporti
con "Metatron",  del  quale  è  l'ombra,  giustificano  l'uso  di  una medesima  designazione  in  un  doppio senso,  e al tempo stesso fanno intendere perché il numero apocalittico 666, il «numero della Bestia», è anche un numero solare (17). Del resto,  secondo sant'Ippolito (18), «il Messia e l'Anticristo hanno entrambi per emblema il leone»,  che è un altro simbolo solare;  si potrebbe fare la stessa osservazione  per il  serpente  (19)  e  per  molti  altri  simboli.  Dal punto di vista   cabbalistico,  si tratta in questo caso ancora  una  volta  delle  due  facce opposte di "Metatron";  non ci dilungheremo qui sulle teorie che si potrebbero formulare in generale su tale doppio senso dei  simboli,  ma  diremo  soltanto  che  la  confusione  fra  l'aspetto  luminoso  e l'aspetto tenebroso costituisce propriamente il «Satanismo»; e appunto in tale confusione cadono, involontariamente e certo per ignoranza (il che è una scusa ma non una  giustificazione)  coloro  che credono di  scoprire un significato infernale nella designazione di «Re del Mondo» (20).

 

    4.   LE TRE FUNZIONI SUPREME.

    Secondo Saint-Yves, il capo supremo dell'"Agarttha" porta il titolo di "Brahƒtmƒ"  (sarebbe  più  corretto  scrivere "Brahmƒtmƒ"),  «supporto delle anime nello Spirito di Dio»;  i  suoi  due  coadiutori  sono  il "Mahƒtmƒ",  «rappresentante  dell'Anima  universale»  e  il "Mahƒnga",   «simbolo di tutta l'organizzazione materiale del Cosmo»  (1): questa è  la divisione gerarchica  che  le  dottrine  occidentali  rappresentano mediante il ternario «spirito,  anima,  corpo»,  e che è applicata qui secondo l'analogia costitutiva del Macrocosmo  e  del  Microcosmo.  E' importante   notare   che  tali  termini,   in  sanscrito,   designano propriamente dei princìpi e non  possono  essere  applicati  a  esseri umani  se  non in quanto rappresentanti di questi stessi princìpi,  in modo che, anche in tale caso, sono collegati essenzialmente a funzioni e non a individualità. Secondo Ossendowski,  il "Mahƒtmƒ" «conosce gli avvenimenti  del  futuro»,  e  il  "Mahƒnga"  «dirige le cause di tali avvenimenti»;  quanto al "Brahƒtmƒ",  può  «parlare  a  Dio  faccia  a faccia» (2), ed è facile capire che cosa significhi questo, ricordando che   esso   occupa   il  punto  centrale  in  cui  si  stabilisce  la comunicazione diretta del mondo terrestre con gli stati  superiori  e, per loro mezzo, con il Principio supremo (3). Del resto, l'espressione «Re del Mondo»,  intesa in senso stretto ed esclusivamente in rapporto col mondo terrestre,  sarebbe assai inadeguata;  ben più  esatto,  per
certi  riguardi,  sarebbe  attribuire al "Brahƒtmƒ" quella di «Signore dei tre mondi» (4) perché, in ogni vera gerarchia,  colui che possiede il  grado  superiore possiede al tempo stesso e per ciò stesso tutti i gradi  subordinati,   e  quei  «tre  mondi»  (che   costituiscono il "Tribhuvana" della tradizione indù) sono, come spiegheremo più avanti, i  regni  che  corrispondono  rispettivamente  alle  tre  funzioni che abbiamo appena enumerato.
    «Quando esce  dal  Tempio,»  dice  Ossendowski  «il  Re  del  Mondo  è raggiante  di  Luce  divina».  La  Bibbia  ebraica dice esattamente lo stesso di Mosè quando scende dal Sinai (5) e,  a proposito  di  questo raffronto,  bisogna  notare  che la tradizione islamica considera Mosè come colui che è stato il «Polo»  ("El-Qutb")  della  sua  epoca;  del resto, non è questa la ragione per cui la Cabbala dice che fu istruito da  "Metatron"  stesso?  Converrebbe anche fare una distinzione fra il
centro spirituale supremo del nostro mondo e i  centri  secondari  che  possono essergli subordinati e che lo rappresentano solo in rapporto a tradizioni  particolari,  adattate  specialmente a determinati popoli.
    Senza dilungarci su questo punto,  faremo osservare che la funzione di «legislatore»  (in arabo "ras–l"),  che è propria di Mosè,  presuppone necessariamente una delega del potere che il nome di  "Manu"  designa; e,  d'altra  parte,  uno  dei  significati  inerenti al nome di "Manu"  indica appunto la riflessione della Luce divina.
    «Il Re del Mondo» disse un lama a Ossendowski «è  in  rapporto  con  i  pensieri  di  tutti  coloro  che  dirigono  il destino dell'umanità...   Conosce le loro intenzioni e le loro idee. Se esse piacciono a Dio, il Re del Mondo le favorirà col suo aiuto invisibile;  se dispiacciono  a Dio,  il  Re  provocherà  il  loro  fallimento.  Tale è il potere dato all'"Agharti" mediante la scienza misteriosa di "Om",  parola con  cui diamo inizio a tutte le nostre preghiere». Segue subito dopo una frase che  lascia  senz'altro  stupefatto  chi  ha una sia pur vaga idea del significato del monosillabo sacro "Om": «"Om" è il nome  di  un  santo antico,  il  primo  dei "Goro" [Ossendowski scrive "goro" per "guru"], che  visse  trecentomila  anni   fa».   Questa   frase,  infatti, è assolutamente  inintelligibile  se  non  si  tiene conto del fatto che l'epoca di cui si tratta,  e che del resto a noi pare indicata in modo assai  vago,  è  molto anteriore all'èra del presente "Manu";  d'altra parte,  l'"Adi-Manu"  o  primo  "Manu" del nostro "Kalpa" (in cui "Vaivaswata"  è  il settimo) è chiamato "Swƒyambhuva",  cioè uscito da "Swayambh–", «Colui che sussiste di per sé», o il "Logos" eterno;  ora il  "Logos",  o chi lo rappresenta direttamente,  può veramente essere designato come il primo dei  "Guru"  o  «Maestri  spirituali»;  e,  in realtà, "Om" è un nome del "Logos" (6).
D'altra parte,  la parola "Om" fornisce immediatamente la chiave della ripartizione gerarchica delle funzioni fra il "Brahƒtmƒ" e i suoi  due coadiutori,  quale  noi abbiamo indicato prima.  Di fatto,  secondo la tradizione  indù,   i  tre  elementi  di  questo   monosillabo   sacro simboleggiano rispettivamente i «tre mondi» ai quali alludevamo prima, cioè  i  tre  termini del "Tribhuvana": la Terra ("Bh–"),  l'Atmosfera ("Bhuvas"), il Cielo ("Swar"), cioè, in altri termini,  il mondo della
manifestazione  corporea,  il  mondo  della  manifestazione  sottile o  psichica, il mondo principiale non manifestato (7).  Sono questi,  dal basso  in  alto,  i  regni  propri del "Mahƒnga",  del "Mahƒtmƒ" e del "Brahƒtmƒ", come si può constatare riferendosi all'interpretazione dei loro  titoli  che  abbiamo  data  in  precedenza;   e  i  rapporti  di subordinazione  esistenti  fra  i  diversi  regni  giustificano per il "Brahƒtmƒ" l'appellativo di «Signore dei tre mondi»  che  abbiamo  già usato (8):  «Questi è il Signore di tutte le cose,  l'onniscente (che vede immediatamente tutti gli effetti nella loro causa),  l'ordinatore interno  (che  risiede  al  centro del mondo e lo regge dal di dentro, dirigendone il movimento senza parteciparvi), la fonte (di ogni potere legittimo),   l'origine  e  la  fine  di  tutti  gli   esseri   (della manifestazione  ciclica  di  cui  egli  rappresenta  la  legge)»  (9).
    Servendoci di un altro simbolismo,  parimenti esatto,  diremo  che  il "Mahƒnga" rappresenta la base del triangolo iniziatico e il "Brahƒtmƒ" il  suo  vertice;  fra  i due,  il "Mahƒtmƒ" incarna in certo senso un principio  mediatore  (la  vitalità  cosmica,  l'"Anima  Mundi"  degli Ermetici),  la cui azione si svolge nello «spazio intermedio»; e tutto ciò è  raffigurato  molto  chiaramente  dai  corrispondenti  caratteri dell'alfabeto  sacro  che  Saint-Yves  chiama  "vattan"  e Ossendowski
"vatannan",  o,  il che è lo stesso,  dalle forme  geometriche  (linea retta,  spirale, punto) alle quali si riferiscono essenzialmente i tre "mƒtrƒ" o elementi costitutivi del monosillabo "Om".
    Spieghiamoci con chiarezza ancora maggiore: al  "Brahƒtmƒ"  appartiene la   pienezza  dei  due  poteri  sacerdotale  e  regale,   considerati principialmente e in certo senso allo  stato indifferenziato;  i  due   poteri  si  distinguono  in  seguito  per  manifestarsi,  il "Mahƒtmƒ" rappresenta allora in particolare il potere sacerdotale e il "Mahƒnga" il potere regale. Tale distinzione corrisponde a quella dei "Brƒhmani" e degli "Kshatriya"; essendo però «al di là delle caste», il "Mahƒtmƒ" e il "Mahƒnga" hanno in se stessi,  come il "Brahƒtmƒ",  un  carattere sacerdotale  e  regale a un tempo.  A questo proposito,  chiariremo un punto forse non ancora spiegato in modo soddisfacente e tuttavia molto importante: abbiamo alluso prima ai «Re Magi» del Vangelo, dicendo che essi riuniscono in sé i due poteri;  diremo ora  che  tali  personaggi misteriosi  non  rappresentano  altro,  in  realtà,  che  i  tre  capi dell'"Agarttha" (10).  Il "Mahƒnga" offre a Cristo l'oro e  lo  saluta come  «Re»;  il  "Mahƒtmƒ"  gli  offre  l'incenso  e  lo  saluta  come «Sacerdote»;  il "Brahƒtmƒ",  infine,  gli offre  la  mirra  (cioè  il balsamo  d'incorruttibilità,  immagine dell'"Amritƒ") (11) e lo saluta come «Profeta» o Maestro spirituale per eccellenza.  L'omaggio reso in tal  modo  al  Cristo  nascente,  nei  tre mondi che sono anche i loro rispettivi  regni,   dai  rappresentanti  autentici  della  tradizione
primordiale,  è  nello  stesso  tempo,  si  noti bene,  il pegno della perfetta ortodossia del Cristianesimo nei confronti di essa.
    Ossendowski,  naturalmente,  non poteva pensare  a  considerazioni  di questo  ordine;  ma,  se avesse capito certe cose più profondamente di quanto non abbia fatto,  avrebbe potuto almeno  rilevare  la  rigorosa analogia  che  esiste fra il ternario supremo dell'"Agarttha" e quello del Lamaismo,  come egli stesso lo  descrive:  il  "Dalai-Lama",  «che realizza la santità (o la pura spiritualità) di "Buddha"»,  il "Tashi- Lama",  «che realizza la sua  scienza»  (non  «magica»,  ma  piuttosto «teurgica»),   e  il  "Bogdo-Khan",  «che  rappresenta  la  sua  forza materiale e guerriera»; esattamente la stessa ripartizione,  secondo i «tre mondi». Questa osservazione avrebbe potuto farla molto facilmente poiché  gli era stato indicato che «la capitale dell'"Agharti" ricorda Lhassa dove il palazzo del "Dalai-Lama",  il "Potala",  si trova sulla cima  di una montagna coperta di templi e di monasteri»;  tale modo di esporre le cose,  del resto,  è errato in quanto rovescia i  rapporti:    dell'immagine,  infatti,  si può dire che ricorda il suo prototipo, ma non  l'inverso.  Ora  il  centro  del  Lamaismo  non  può  essere  che un'immagine  del vero «Centro del Mondo»;  ma tutti i centri di questo genere presentano,  per quanto riguarda i luoghi in cui sono  situati, alcune  particolarità topografiche comuni le quali,  lungi dall'essere irrilevanti,  hanno un valore  simbolico  incontestabile  e,  inoltre, devono  essere  in  relazione  con  le  leggi secondo cui agiscono gli    «influssi spirituali»;  ma tale questione riguarda propriamente quella scienza tradizionale cui si può dare il nome di «geografia sacra».
    Vi  è  poi  un'altra  concordanza  non meno degna di nota: Saint-Yves, descrivendo i diversi gradi o cerchi  della  gerarchia  iniziatica,  i quali  sono  in relazione con determinati numeri simbolici riferentisi particolarmente alle divisioni del  tempo,  termina  dicendo  che  «il cerchio  più  alto  e  più  vicino  al centro misterioso si compone di dodici   membri,    che   rappresentano   l'iniziazione   suprema e corrispondono,  fra l'altro,  alla zona zodiacale».  Tale struttura si trova riprodotta nel  cosiddetto  «consiglio  circolare»  del  "Dalai-Lama",  costituito dai dodici grandi "Namshan" (o "Nomekhan"); e la si può ritrovare, del resto, persino in certe tradizioni occidentali,  in particolare  in  quelle  che  concernono  i  «Cavalieri  della  Tavola Rotonda». Aggiungeremo inoltre che i dodici membri del cerchio interno dell'"Agarttha",   dal  punto  di  vista  dell'ordine   cosmico,   non
rappresentano  soltanto  i  dodici  segni dello Zodiaco,  ma anche (e, benché le due interpretazioni non si  escludano,  saremmo  tentati  di dire «piuttosto»),  i dodici "Aditya",  che sono altrettante forme del Sole,   in  rapporto  con  quegli  stessi  segni  zodiacali  (12);   e naturalmente,  come  "Manu  Vaivaswata"  è chiamato «figlio del Sole», così il «Re del Mondo» ha tra i suoi emblemi anche il Sole (13).
   La prima conclusione che  risulta  da  tutto  questo  è  che  vi  sono veramente  legami  molto  stretti  fra le descrizioni che,  in tutti i paesi,  si riferiscono a centri spirituali  più  o  meno  nascosti,  o almeno  difficilmente  accessibili.  La sola spiegazione plausibile di questo fatto, qualora tali descrizioni si riferiscano, come sembra,  a centri  diversi,  è  che  questi  non  sono  per  così  dire altro che emanazioni di un centro unico e supremo, così come tutte le tradizioni particolari sono in fondo solo  adattamenti  della  grande  tradizione primordiale.

 


    5.  IL SIMBOLISMO DEL GRAAL.


    Abbiamo  appena  alluso ai «Cavalieri della Tavola Rotonda»;  non sarà fuori luogo accennare qui al significato della «cerca del Graal»  che, nelle  leggende  di  origine celtica,  è presentata come loro funzione principale; si fa così allusione,  in tutte le tradizioni,  a qualcosa che,  a partire da una certa epoca, sarebbe andato perduto o nascosto:  il "Soma" degli Indù,  per esempio,  o lo  "Haoma"  dei  Persiani,  la «bevanda  d'immortalità»  che ha appunto un rapporto molto diretto col "Graal" poiché questo, si dice, è il vaso sacro che contiene il sangue di Cristo, anch'esso «bevanda d'immortalità». Altrove, il simbolismo è diverso: così,  presso gli Ebrei,  ciò  che  è  andato  perduto  è  la pronuncia del gran Nome divino (1); ma l'idea fondamentale è sempre la stessa e vedremo poi a che cosa corrisponde esattamente. Il Santo Graal,  si dice, è la coppa che servì alla Cena e nella qu