Quando si trasferì a Torino, Batistin aveva appena finito di fare il militare. Non era certo la prima volta che ci metteva piede. Di tanto in tanto, la domenica dopo pranzo saliva sul treno e andava a bighellonare qualche ora in centro, guardando le vetrine in via Roma. In città vivevano già da tempo alcuni suoi paesani e tramite loro trovò un sottoscala senza riscaldamento in cui sistemò una branda, un fornello di lamiera smaltata, una seggiola e un tavolo. Ma ci passava solo qualche ora la sera a dormire. Quando finiva il turno di notte alla Fiat s’arrangiava a fare di tutto, dal bracciante nei campi che l’avanzare congiunto dello sviluppo edilizio alla periferia della città e alla periferia dei paesi confinanti assottigliava di anno in anno, al muratore nelle imprese edili che li andavano sistematicamente riempiendo di palazzoni. In quegli anni a Torino e nei paesi della cintura arrivavano decine di migliaia di persone da tutte le campagne d’Italia, tutte come lui attirate dal desiderio di avere un reddito monetario per accedere all’economia mercantile. Ogni treno proveniente dal sud ne scaricava centinaia e bisognava costruire in fretta alveari in cui sistemarli, strade per collegare gli alveari alle fabbriche, scuole per i loro figli. Non c’erano difficoltà o disagi che potessero fermare questa ondata di piena. Non la scoperta che le paghe non erano sufficienti per arrivare fino alla fine del mese perché in città bisogna comprare tutto, mentre al paese la maggior parte della roba da mangiare te la produci da solo e la casa è tua. Invece qui oltre all’affitto bisognava pagare pure il riscaldamento. Allora dovevano lavorare anche le donne, magari a turni alterni col marito per non lasciare i bambini da soli, così quando uno entrava, l’altro usciva di casa, senza nemmeno il tempo di scambiarsi un saluto.

Non li fermava la disciplina da caserma nelle fabbriche, né la durezza del lavoro e gli incidenti che ogni tanto ne mandavano qualcuno all’ospedale con l’ambulanza, magari già morto, per avere meno grane con la giustizia. Non il cambiamento di clima e d’ambiente, l’aria pesante di polvere nera e gas, gli alloggi piccoli con quei balconcini che quando ti affacciavi non vedevi altro che balconcini e finestre e muri e strade su cui di giorno in giorno cresceva il numero delle automobili. Presto ne avremo una anche noi dicevano i mariti alle mogli alla domenica, quando riuscivano a stare insieme, e il frigorifero, la televisione, il forno elettrico, la lavatrice. Così lavoravano sodo, spesso integrando la paga regolare col lavoro nero, per avere i soldi per comprare l’automobile con cui andare a lavorare. Passavano tutto il tempo a lavorare per avere i soldi con cui comprare gli elettrodomestici che fanno risparmiare tempo nei lavori di casa. Le fabbriche producevano a tutto spiano, era il boom economico, e assumevano addetti che con la paga acquistavano le cose che producevano. Era tutto un gran fervore di attività, le novità si susseguivano a getto continuo. Non facevi a tempo ad aver comprato qualcosa di nuovo che sfornavano qualcosa di più nuovo che faceva diventare vecchio il nuovo di prima. È il progresso, dicevano in televisione gli esperti e ripetevano tutti sugli autobus affollati che li portavano al lavoro, nei bar davanti alle tazzine di caffè che finalmente potevano permettersi, in mensa nella mezz’ora di pausa per il pranzo. E l’anima del progresso è il cambiamento. Più in fretta si cambia, più rapidamente si migliora. Dove non c’è cambiamento ma immobilismo, come al paese, non c’è progresso. È il benessere, ripetevano tutti guardando le pubblicità in televisione e covando il desiderio di avere sempre più cose e cose sempre più nuove per accrescerlo. E giù a lavorare, mariti e mogli a cambio turno, a produrre sempre più cose e cose sempre più nuove, per avere i soldi per acquistarle.

Per fare fortuna a Torino Batistin non aveva altra scelta che lavorare per due e comprare il meno possibile. La prima cosa non gli creava nessun problema, perché c’era abituato. La seconda nemmeno perché non aveva e si guardò bene dal cercare una ragazza che gli facesse perdere tempo e spendere soldi. Poiché in quegli anni di cose da fare ce n’erano senza bisogno di andare a cercarle e ti cadevano addosso anche senza volerlo, non avendo nessun altro impegno che quello di badare a se stesso, si trovò nelle condizioni ideali per realizzare le sue aspettative. Per prima cosa presentò domanda alla Fiat chiedendo di fare il turno di notte. Lo assunsero subito. Poi andò in un cantiere edile – se ne aprivano a decine ogni giorno – e chiese di lavorare in nero. Così la mattina, all’uscita dalla fabbrica, saliva sulle impalcature. Nel sottoscala ci andava solo per dormire qualche ora prima del turno di notte. Guadagnare guadagnava, ma nei cantieri ti facevano tirare l’anima per una miseria. Allora, senza lasciare la Fiat decise di mettersi in proprio. Tanto s’arrangiava a fare di tutto e in quegli anni si poteva fare di tutto senza controlli. I suoi primi clienti furono altri operai che avevano comprato un pezzetto di terra nei prati di periferia per costruirsi una casetta. Alle imprese facevano tirare su i pilastri e quando la struttura era pronta, un po’ per conto loro nella mezza giornata libera dal turno di lavoro in fabbrica, un po’ con l’aiuto di qualche artigiano o di qualche operaio che sapeva il mestiere e nella mezza giornata libera arrotondava in nero la paga, tamponavano i muri, posavano gli infissi, installavano gli impianti. Poiché Batistin se la cavava come muratore, piastrellista, idraulico ed elettricista, la sua situazione economica migliorò rapidamente, ma non abbastanza. L’idea che diede una svolta alla sua vita fu quella della lambretta. Lì si vide di che pasta era fatto l’uomo.

Il cruccio di Batistin era di non avere un capitale sufficiente per acquistare i materiali e le attrezzature necessari a costruire una casa. Se avesse potuto fare tutto lui, l’utile a parità di lavoro sarebbe stato molto maggiore, perché ai guadagni delle ore di lavoro si sarebbero aggiunti il boccone grosso della struttura in cemento armato che si pappava sempre qualcun altro, i ricarichi sulle forniture, il noleggio delle attrezzature, l’organizzazione del cantiere. Se le richieste fossero state di costruire casette a un piano forse avrebbe anche potuto farcela. Ma tutti a due piani le volevano! Come fare senza una gru? È a questo punto che gli venne l’idea della lambretta con cui si spostava in città. La fissò a un traliccio che la teneva leggermente sollevata da terra, le tolse la ruota posteriore e applicò una puleggia al mozzo, ne saldò un’altra a un braccio sporgente dalle impalcature e le collegò con una cinghia a cui applicò un gancio. Al gancio appese il bugliolo, così gli bastava un colpetto d’acceleratore per tirarlo su. Aggiunse un po’ di faccia tosta per farsi dare a credito il materiale edile e fu pronto per costruire la prima palazzina a tre piani alla periferia di un comune della cintura di Torino. Il suo ritmo di vita non cambiò, continuò sempre a lavorare dall’alba al tramonto, ma adesso guadagnava molto di più e le decisioni le prendeva lui. Fu allora che si licenziò dalla Fiat e cominciò a pensare di sposarsi, perché si rendeva conto che per andare avanti gli ci voleva una donna. Se la scelse robusta e infaticabile come lui, si riservò un alloggio in una palazzina che costruì in una via periferica tra campi già lottizzati, le affidò la gestione della casa e la contabilità dei lavori in nero. Non fu una passione travolgente, di quelle che si vedono nei film americani, nemmeno all’inizio. Ma a suo modo era e rimase amore.

 

Tratto dal libro “Ricchezza ecologica”, di Maurizio Pallante;
2003, Manifestolibri, Roma