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Siamo noi che facciamo le cose, oppure noi siamo soltanto un tramite?

di Francesco Lamendola - 20/06/2009


Siamo noi che facciamo le cose, che agiamo, che modifichiamo la realtà; oppure le nostre azioni e i nostri stessi pensieri e sentimenti non sono altro che un tramite, per mezzo del quale opera e si manifesta una forza più grande di noi?
L'uomo «primitivo» era certo di non essere lui ad agire in prima persona, ma lo strumento di cui si servivano le potenze soprannaturali, gli spiriti. Prima di andare a caccia, ad esempio, evocava, per mezzo di una cerimonia magica, lo spirito dell'animale che intendeva cacciare - l'orso, il bisonte, il cervo, e così via - e gli domandava di lasciarsi uccidere, perché egli ne aveva bisogno; si scusava con esso e gli prometteva, in cambio, onori e appositi sacrifici. Così, quando la sua freccia o la sua lancia colpivano l'animale, egli era convinto che il successo non fosse dovuto alla propria abilità, ma alla risposta positiva dell'animale alle sue invocazioni.
Con il passaggio dall'uomo «preistorico» all'uomo «storico», dall'uomo dell'età della pietra a quello dell'età del bronzo, la prospettiva cambia significativamente: compare, nell'orizzonte spirituale e psicologico del nuovo soggetto umano,  la coscienza dell'Io; un Io che sente, pensa e agisce in prima persona, che riferisce a sé i propri successi e i propri insuccessi, e che non demanda alle potenze spirituali la responsabilità del proprio agire.
L'uomo storico si pone in antitesi rispetto alla natura, mentre il suo predecessore si poneva in simbiosi con essa; quello voleva inserirsi rispettosamente all'interno dell'ordine cosmico, questo rivendica orgogliosamente il proprio ruolo, e si pone l'obiettivo di dominare completamente il mondo in cui vive, considerandosene il signore.
Certo, in una prima fase egli riconosce la propria posizione di signore in subordine, poiché ammette e adora, al di sopra di sé, la potenza degli dei; ritiene, peraltro, che essi gli abbiano conferito la completa signoria sul creato, della quale deve rendere conto ad essi soltanto. Limitandoci all'ambito della civiltà occidentale, tanto nella cultura ellenica, quanto in quella giudaico-cristiana, sia pure con diversi accenti e sfumature, è stabilito questo patto di alleanza fra l'uomo e gli dei, che conferisce all'uomo la posizione di un signore feudale rispetto al monarca.
Nello stupendo «Cantico di Frate Sole» di Francesco d'Assisi, Dio viene riconosciuto, lodato e ringraziato come la fonte di ogni creatura, e la bellezza e l'utilità delle creature è percepita, appunto, come un riflesso dello splendore divino.
Tale fase iniziale dell'Io, che riconosce un limite (e un completamento) in un principio divino del quale fa parte e dal quale discende, inizia a sgretolarsi con l'affermarsi della cultura borghese, a partire dalla nascita dei Comuni; processo che si accelera dopo la Rivoluzione scientifica del XVII secolo e che culmina con il delinearsi dell'uomo post-moderno, il cosiddetto «quarto uomo», che ormai dubita delle nuove divinità, la scienza e la tecnica, innalzate in luogo delle vecchie; ma che, per non credere più a niente, finisce sovente per credere a tutto (cfr. il nostro articolo «L'uomo post-moderno è il figlio della dilatazione illimitata del desiderio», inserito il 26 aprile 2009 sul sito di Arianna Editrice).
Quest'uomo post-moderno, o post-storico, avoca a sé l'intera responsabilità dei propri atti, nel bene e nel male; è convinto che l'universo sia un insieme di parti meccaniche, delle quali egli è un frammento che, grazie all'intelligenza, deve esercitare il dominio sul tutto: non più dopo averne ricevuto l'investitura divina, ma in prima persona, con un atto di orgoglio luciferino mediante il quale si fa Dio di se medesimo.
Al tempo stesso, egli è persuaso che il suo destino sia quello di correre verso il nulla, così come ogni altro ente; e si sforza di lenire l'angoscia di morte, moltiplicando gli atti d'imperio sulla natura, manipolata senza limite alcuno; per cui si può dire che egli oscilli fra i due estremi del superomismo più sfrenato e del nichilismo più disperante.
La differenza fra la visione del mondo pre-moderna e quella post-moderna, che si è determinata nel volgere di appena un paio di generazioni (diciamo, grosso modo, fra il 1950 e il 1990), si può cogliere nel modo di parlare e nel modo di porsi davanti agli eventi della realtà quotidiana. Nella famiglia contadina, riunita intorno alla tavola, il capofamiglia diceva una breve preghiera, ringraziando Dio per il dono del pane quotidiano; nella famiglia post-moderna ciascuno mangia quando capita, pescando nel frigorifero qualche scatoletta, e nessuno si sogna di ringraziare, perché mangiare è una azione come un'altra, frutto di rapporti puramente economici: io ho lavorato, e con il mio stipendio mi compero il cibo al supermercato; e questo è tutto.
Il cibo non viene più dalla terra, e quindi nessun Dio lo ha donato agli uomini; gli uomini se lo sono conquistato da soli, così come ogni altra cosa che possiedono (è significativo il fatto che oggi molti bambini, specialmente nelle grandi aree urbane, siano convinti che la frutta, la verdura e la carne provengono non dalla terra, ma direttamente dal supermercato). Gli uomini non sono gli usufruttuari, ma i proprietari del mondo: ritengono di avere il diritto di sfruttarlo a proprio piacimento per la semplice legge del più forte, perché la visione darwiniana della vita - divenuta paradigma della modernità -  li ha convinti che solo i rapporti di forza determinano i reciproci ruoli all'interno della natura, non meno che nella società.
Tuttavia, in sede filosofica, la domanda: «Siamo noi ad agire, oppure una forza più grande di noi, che agisce per tramite nostro?», non si può dire che sia stata spogliata di senso dal fatto che l'uomo moderno e post-moderno la hanno respinta, considerandola il residuo di una mentalità «magica» e «primitiva». Quella domanda non è stata confutata, ma semplicemente rifiutata; e, nel momento in cui tutte le orgogliose certezze dell'uomo post-moderno incominciano a vacillare, essa tende a riaffiorare in superficie.
Così, per esempio, in seguito al crollo dell'Unione Sovietica e degli altri Paesi del «socialismo reale», dopo settant'anni di incessante propaganda ateistica e di acritica celebrazione della scienza come nuova divinità dell'uomo, ora che quei regimi sono (ingloriosamente) caduti, vediamo le chiese riaprire i battenti e le comunità religiose tornare alla luce del sole, dopo lunghe persecuzioni e periodi di vita stentata e semiclandestina. Evidentemente, i nuovi dei hanno fallito nel dare una risposta alla domanda di senso che l'uomo incessantemente si pone, perché fa parte della sua stessa natura; e che sempre continuerà a porsi, nonostante tutti gli sforzi della cultura «ufficiale», pilotata dallo Stato.
Sulla porta dei cimiteri francesi, l'ex abate Fouché, quando era ancora un commissario in missione per conto della Convenzione, fece porre la scritta: «La morte è un sonno eterno»; ma la domanda di senso non può essere abolita con un decreto governativo: essa fa parte dell'animo umano e sempre torna ad emergere, a dispetto di tutto e di tutti.
E, all'interno della domanda di senso, riaffiora anche il vecchio, pregnante interrogativo: «Chi è il soggetto che agisce nel mondo: l'uomo, o una forza più grande di lui e alla quale egli serve, anche quando crede di agire in assoluta libertà e indipendenza?».
Perché, si badi, se fosse vero che l'uomo agisce in assoluta libertà, allora bisognerebbe concludere che il male da lui provocato in piena consapevolezza non ha senso alcuno, né possibilità di remissione: che è ineliminabile e indistruttibile; che pesa e peserà per sempre sull'ordine dell'universo.
Se non vi fosse una forza superiore, se non vi fosse l'Essere, nulla potrebbe trasformare il male in bene, e l'universo sarebbe assurdo: un infernale manicomio ove tutti cercano di ingannarsi, sopraffarsi e sfruttarsi a vicenda.
Il problema antropologico si confonde con il problema cosmologico; il problema metafisico si intreccia con quello etico.
L'uomo, infatti, è una unità armoniosa di componenti diverse; non un insieme casuale di settori distinti e di compartimenti stagni.

Hanno scritto, con disarmante ingenuità e presunzione, M. Ilin ed E. Segal nel libro «Come l'uomo divenne gigante», classico esempio di materialismo scientista di matrice sovietica (traduzione di Mario Doplicher, Milano, Società Editoriale Teti, 1970, pp. 199-202):

«Durante i loro scavi gli archeologi hanno potuto trovare delle vestigia molto antiche della lingua parlata. Su queste l'accademico Mečkaninov ha scritto una delle sue opere più importanti.
Nella lingua degli Iucaghiri, c'è una parola che tradotta letteralmente suonerebbe press'a poco così: "omocervicidio"; una parola molto lunga e che si farebbe molta fatica a pronunciare, ma di cui soprattutto non si riesce a comprendere il senso.
Intanto non si capisce chi è l'uccisore e chi è l'ucciso. È l'uomo che ha ammazzato il cervo o sono l'uomo e il cervo insieme che hanno ammazzato una terza persona, o è questa terza persona che ha ucciso entrami?
Lo Iucaghiro sa invece perfettamente di che cosa si tratta. Egli utilizza questa parola per dire che è stato l'uomo ad ammazzare il cervo.
Come ha potuto dunque formarsi una parola così strana?
Il fatto è che questa parola ci giunge dai tempi in cui l'uomo non conosceva ancora la parola "io", in cui cioè non egli non aveva ancora coscienza di essere lui a lavorare, a cacciare, a inseguire e ammazzare la selvaggina. Egli era convinto di non essere stato lui ad uccidere il cervo, ma che era stato il clan o piuttosto quella forza misteriosa che governa il mondo. Evidentemente, egli si sentiva ancora molto debole di fronte a una natura che non si piegava ai suoi voleri.
Grazie a una forza occulta e misteriosa, l'"omocervicidio" poteva benissimo verificarsi in un determinato giorno, ma il giorno dopo la caccia poteva essere anche del tutto infruttuosa e i cacciatori potevano tornare a mani vuote. Nell'espressione "omocervicidio" non esiste un soggetto attivo. Come facevano allora gli uomini preistorici se l'iniziativa era stata presa dal cervo oppure da loro stessi? Secondo le loro concezioni, tutto era dovuto al loro sconosciuto protettore, l'antenato comune del cervo e dell'uomo che, a suo piacimento, poteva consentire che il cacciatore catturasse la sua preda.
Nel vocabolario umano esistono numerose reminiscenze dei tempi in cui l'uomo si considerava un semplice strumento nelle mani delle forze occulte della natura. Se ne trovano a tutti i livelli del linguaggio, da quelli più antichi a quelli più recenti.
I Ciukci dicono, per esempio: "la carne è stata data al cane per mezzo dell'uomo".
Questo giro di parole ci sembra piuttosto strano,. Esso prova che la sua origine risale ai tempi, in cui il pensiero dell'uomo seguiva uno schema assai diverso da quello attuale.
Invece di dire: "l'uomo dà la carne al cane", si diceva: "la carne viene data al cane per mezzo dell'uomo…".
Ma chi è che dava questa carne "per mezzo dell'uomo"?
Naturalmente era una forza occulta e misteriosa che si serviva dell'uomo come di un intermediario.
Invece di dire: "io cucio", gli indiani del Dakota dicono: "cucitura per mezzo mio", come se l'uomo fosse un ago da cucire.
Alcuni residui di questo antico modo di esprimersi sopravvivono anche in Europa.
È noto che i francesi dicono, per esempio: "il pleut" (letteralmente: "egli piove") e "il fait froid" (letteralmente: "egli fa freddo").
Eccoci nuovamente alla presenza di quella forza misteriosa che fa sì che piova o che faccia freddo e che governa il mondo.
L'azione della stessa forza sopravvive ancora nelle frasi: "il fait clair" (letteralmente: "egli fa chiaro") e "il pruine" (letteralmente: "egli pioviggina").
Noi non crediamo più alle forze occulte, ma il nostro linguaggio conserva ancora le vestigia della terminologia in uso ai tempi in cui ci si credeva.
Ecco dunque come, scavando tra le profonde strutture del nostro linguaggio, possiamo ritrovare non soltanto le parole, ma anche le idee dei nostri antenati. Gli uomini preistorici vivevano in un mondo misterioso dove chi lavorava o cacciava non era lui stesso a farlo, ma un essere ignoto che si serviva dell'uomo come di uno strumento esposto ai capricci delle forze occulte.
Ma il tempo passava. Man mano che l'uomo si sentiva sempre più sicuro di sé, comprendeva anche meglio il mondo circostante e la funzione che egli aveva in questo mondo. Nel suo linguaggio appare la parola "io", l'"io" che operava, lottava, piegava a sua discrezione gli elementi della natura. Noi non diciamo più: il cervo è stato ucciso per mezzo dell'uomo", ma diciamo: "l'uomo ha ucciso il cervo". Ciononostante gli spettri del passato si ritrovano talvolta anche nei nostri modi di dire:. Ancora oggi noi diciamo: "era scritto", "il destino l'ha voluto".
Chi è che l'ha scritto? Che cosa è questo destino?
Evidentemente è la forza occulta tanto temuta dagli uomini preistorici.
La parola "destino" esiste ancora nel nostro linguaggio. Ma si può affermare senza rischio di sbagliarsi che essa finirà un giorno per scomparire un giorno dal nostro vocabolario.
Attualmente i nostri contadini gettano con sicurezza i semi sui campi arati: sanno che un buon raccolto dipende in gran parte dal loro lavoro.
Essi dispongono di macchine che rendono fertili i campi che una volta erano sterili e sanno che la scienza li aiuta a sovrintendere alla vita delle colture.
È con una sicurezza sempre maggiore che il navigatore prende il mare; egli vede sulla carta dove sono le secche, sa in anticipo se ci sarà una tempesta.
"Era scritto", "il destino l'ha voluto", queste espressioni diventano sempre più rare.
L'ignoranza genera la paura. La conoscenza dà all'uomo fiducia in se stesso: lo trasforma da schiavo in re della natura.»

In questo ineffabile brano di prosa sovietica, oltre all'elogio dell'uomo che esercita un completo dominio sulla natura (ma abbiamo visto fin troppo bene dove ha portato quel dominio: cfr., ad esempio, il nostro articolo: «Come si uccide un mare interno in nome dello sviluppismo», sempre sul sito di Arianna Editrice), si celebra una autentica apoteosi dell'uomo che nutre fiducia soltanto in se stesso e che guarda con un sorriso di compatimento alle antiche credenze, secondo le quali tutto ciò che accade viene da un'altra dimensione: dagli spiriti, o - nelle culture più recenti - da Dio, creatore e custode dell'universo.
In realtà, a noi non sembra che i residui dell'antico modo di esprimersi siano da considerarsi come un puro e semplice retaggio di un'età in cui l'umanità era ancora bambina; a meno di condividere il pregiudizio freudiano sulla intrinseca superiorità della visione del mondo adulta rispetto a quella infantile (cfr. il nostro recente articolo «Il "principio di realtà" non è che il nichilismo freudiano spacciato per verità obiettiva», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice). Fino a quando non ci abitueremo all'idea che «adulto» e «bambino» descrivono modi dell'essere, e non esprimono giudizi di valore, non riusciremo mai a porci nella giusta prospettiva verso le società pre-moderne, e neppure verso la nostra stessa infanzia.
L'Io moderno e post-moderno sono il risultato di una operazione schizofrenica: la rottura dell'uomo adulto con l'uomo bambino; dell'uomo tecnologico con l'uomo «primitivo»; dell'uomo razionale con l'uomo immaginativo e affettivo. Sono il risultato, non di un accrescimento, ma di una mutilazione, di una decapitazione dell'Io: e proprio là dove esso sembra essersi gonfiato fino alle massime proporzioni (come nella favola di Esopo della rana e il bue); mentre, in realtà, si è rimpicciolito e impoverito da sé medesimo.
E allora?
E allora, dopo tanta ubriacatura scientista e positivista, forse è arrivato il tempo di rivedere alcuni dogmi fondanti del paradigma moderno e post-moderno.
Primo: non è vero che la donna è un essere umano imperfetto, perché priva del pene.
Secondo: non è vero che il bambino è un una persona ancora imperfetta, perché priva della razionalità.
Terzo: non è vero che le società pre-moderne sono espressione di una umanità imperfetta, perché legate a una visione mitica del mondo.
Quarto: non è vero che l'uomo trova in se stesso la propria misura, perché non deve dipendere da nulla e da nessuno.
Pertanto, noi potremmo vedere la trasformazione del linguaggio in senso autocentrico, verificatasi nel passaggio dalla preistoria alla storia, non come un progresso, come fanno gli studiosi sovietici sopra citati, ma come un vero e proprio regresso.
Forse, dovremmo reimparare a ringraziare qualcuno o qualcosa per il pane quotidiano; forse, dovremmo reimparare a vedere nel nostro agire, pensare e sentire, non semplicemente il gioco di forze puramente individuali, ma la presenza di una forza cosmica, che agisce attraverso di noi e che ha la capacità di servirsi anche del male, del male che noi scegliamo di compiere, per produrre del bene.
E l'unica forza capace di tanto non è che l'Essere, dal quale tutti gli enti hanno avuto origine, ed al quale tutti aspirano a fare ritorno.