Mediterraneo. Un dialogo fra le due sponde
di Pietro Montanari - 17/03/2006
Fonte: Jura Gentium
L'impressione che si ricava dalla lettura di questo libro, che peraltro contiene interventi molto interessanti (soprattutto quello di Emilio Santoro), è piuttosto contraddittoria. Da una parte, l'approccio realista e differenzialista di Danilo Zolo presenta il Mediterraneo come uno spazio strategico che dovrebbe arginare la deriva egemonica delle grandi potenze (oggi, quella americana) e il dogmatismo dei nuovi fondamentalismi (religiosi e non): "Rifuggendo dagli universalismi etici e dai dogmatismi religiosi – scrive Zolo – la modernità mediterranea dovrebbe ispirarsi a un 'pluriversalismo' etico-religioso tollerante e inclusivo" (p. 20). D'altra parte, però, il Mediterraneo viene presentato come lo scenario di un conflitto tra modernità e tradizione in cui il 'valore assoluto' della modernità e dei diritti umani dovrà riuscire a trionfare. Questa posizione, che potremo definire fortemente universalista e idealista, sembra generalmente accomunare gli interventi degli autori dell'Università di al-Manar.
La mia opinione è che l'approccio di Zolo sia di gran lunga preferibile, e costituisca un'alternativa salutare all'ideologia globalista (nella sua versione giuridico-istituzionalista, europea, e politico-decisionista, americana). A patto, però, di sottrarlo senza esitazioni dalla tirannia di un nuovo valore che potrebbe minacciarne l'originalità teorica e l'incidenza storica: il valore della 'Differenza'.
La mobilitazione euro-mediterranea proposta da Zolo va intesa nel quadro di un'esigenza strategica più ampia e pressante: la costituzione di nuovi spazi politici regionali capaci di controbilanciare l'assoluta egemonia planetaria degli Stati Uniti, e in particolare il loro disegno strategico del Broader Middle East (pienamente confermato, in questi giorni, dalla "Quadrennal Defense Review" del Pentagono e da un budget di spesa militare per il 2007 che ammonta ormai alla metà della spesa militare mondiale). L'argomentazione di Zolo individua un problema strategico e politico concreto, che poggia su una constatazione difficilmente discutibile: l'unipolarismo assoluto produce un'insicurezza collettiva e un'instabilità sistemica sempre più incontrollabili. Il progressivo consolidarsi di un ordine multipolare potrebbe opporre un argine a questa situazione e costituire un deterrente efficace per contenere le tendenze all'unilateralismo. Un nuovo equilibrio tra potenze regionali, inoltre, potrebbe restituire una forma alla guerra e un senso al diritto internazionale (alle sue istituzioni), e soprattutto dare agli attori in gioco una percezione più chiara dei propri interessi (e quindi dei limiti entro cui è lecito perseguirli), inducendoli a compiere calcoli politici più prudenti.
La grande lezione della riflessione politica di Zolo risiede proprio nella dimensione analitica e pragmatica del suo 'realismo' – un realismo che ha poco di dottrinario ed è basato sulla chiara consapevolezza della natura complessa che caratterizza i legami internazionali e transnazionali nell'epoca della 'storia mondiale'. Qualche anno fa, per criticare i modelli gerarchici o centralistici dell'ordine internazionale (dalla Santa Alleanza all'ONU), Zolo faceva riferimento alla teoria sistemica: "in situazioni di elevata complessità e di turbolenza della variabili ambientali è più prudente convivere con un grado anche molto elevato di disordine, piuttosto che tentare di imporre un ordine perfetto" (I signori della pace, Carocci, p. 137). Considerati sotto questo punto di vista, il pluralismo politico o il differenzialismo culturale non sono valori in sé, ma una conseguenza, o un corollario, di una strategia realistica e pragmatica. La diversità, in quanto tale, non è un valore più apprezzabile o detestabile di tanti altri. Il vero problema è che dobbiamo articolare con urgenza una risposta concreta alla deriva 'concentrazionaria' dell'ordine internazionale e ai suoi pericolosi effetti. Continuando a speculare sui valori o sulla loro crisi non saremo mai in grado di contraddire l'affermazione lapidaria di Robert Kagan: 'la maggior parte degli europei non si rende conto che l'Europa è riuscita a passare alla post-storia solo perché gli Stati Uniti non ci sono riusciti' (la parafrasi che ne ha fatto Etienne Balibar è ancora più efficace: 'gli europei possono concedersi il lusso di essere kantiani solo perché gli Stati Uniti sono rimasti hobbesiani'). Queste frasi possono suonare irritanti alle nostre orecchie, ma nei fatti, finora, chi è stato capace di smentirle?
Il differenzialismo come valore, inoltre, poggia su una comprensione del presente che considero profondamente sbagliata. Prima ho utilizzato l'espressione 'storia mondiale'. In alcune riflessioni di Reinhart Koselleck e Paul Valery, essa denota l'esistenza di uno 'spazio' globale caratterizzato esattamente da quel genere di complessità e di turbolenza che contraddistingue un sistema relativamente unificato (e a partire dagli anni cinquanta, letteralmente integrato dalla diffusione universale dei media elettronici). In piena guerra fredda, Koselleck definiva questo nuovo spazio come il dilatarsi-dissolversi di ogni storia universale e di ogni tradizione in una 'storia mondiale'. Ma proprio questa nuova temporalità storica, per sua natura incapace di universalità, sarebbe stata la sola che l'uomo moderno avrebbe potuto abitare, e la sola in grado di offrirgli una comprensione di se stesso ('autocomprensione') Qualche anno prima, Valery aveva dato una descrizione analoga di questo nuovo sistema: un 'mutamento nella scala e nell'ordine delle cose' avrebbe irreversibilmente sepolto la storia 'melodica' del passato, quella in cui il tempo di ogni civiltà, di ogni cultura, poteva scorrere in parallelo al tempo delle altre (come se accadesse su 'un altro pianeta'). Imponderabilità, simultaneità, interconnessione, sarebbero diventati gli aspetti salienti del nuovo tempo: "il mondo al quale cominciamo ad appartenere, uomini e nazioni, è soltanto una controfigura del mondo che ci era familiare. Il sistema delle cause che governa il destino di ognuno di noi, estendendosi ormai alla totalità del globo, lo fa a ogni scossa riecheggiare tutto quanto; non esistono più questioni delimitate, anche se possono esserlo in un singolo punto (...) nulla più si farà che non vi sia coinvolto – quasi immediatamente – il mondo intero" (Sguardi sul mondo attuale, Adelphi, p. 37, corsivo mio). A leggere queste righe viene spontaneo pensare alla pioggia di effetti scatenata dalle vignette danesi.
Le considerazioni di Koselleck e Valery sono realmente pionieristiche, se pensiamo che il mondo da loro descritto diventerà l'oggetto privilegiato dei teorici della globalizzazione, della comunicazione di massa e della risk society solo molto tempo dopo. Zolo non ha tutti i torti quando scrive che la presunta 'cultura globale' prodotta da questa integrazione è una "deriva" che non definisce una cultura nel senso proprio del termine (p. 16). Tuttavia, nel bene e nel male, sono proprio questi "frames di riferimento" (ibid.) che tutte le culture di oggi sono costrette a presupporre. La loro stessa 'autocomprensione' del tempo presente dipende inevitabilmente da tali strutture. L'auspicabile formazione di una 'cultura mediterranea' non farà eccezione.
Il discorso di Zolo, comunque, resta piuttosto isolato nell'economia del volume. Gli autori tunisini di al-Manar, invece, spostano completamente (e comprensibilmente, dal loro punto di vista) il centro della discussione su un altro problema: quello della dialettica tradizione/modernità all'interno dell'islam. La mia impressione, tuttavia, è che tale problema venga posto in modo eccessivamente semplificato (con la sola eccezione di Hamadi Redissi) e che gli esiti della riflessione finiscano inevitabilmente per essere condizionati da tale semplificazione. Il limite fondamentale sta nel voler sovrapporre le categorie antinomiche di modernità e tradizione alla contraddizione tra una prospettiva 'laicista' (chiamiamola così) e una prospettiva religiosa. Questa sovrapposizione, in realtà, appare piuttosto discutibile. Una prospettiva religiosa non è necessariamente un'espressione 'tradizionale', e per rendersene conto basta guardare alle manifestazioni più interessanti dell'islam contemporaneo, incluse quelle più radicali: il jihadismo internazionalista, per esempio, è l'espressione più pura di un islam ultrasemplificato, deterritorializzato e occidentalizzato che ha rotto del tutto con la Tradizione islamica classica. L'islamismo radicale dei Fratelli Musulmani è un altro esempio di modernità religiosa, meno estrema della precedente, ma molto più radicata socialmente e altrettanto potente nella sua rottura epistemologica (e linguistica) con la Tradizione e i suoi stilemi. La 'perfetta compatibilità' tra le molte manifestazioni del fondamentalismo islamico e la globalizzazione, del resto, è stata ben descritta da Oliver Roy nel suo libro Global Muslim, opportunamente ricordato nell'intervento di Lucia Re (pp. 103 sgg.). La stessa antropologia del 'nuovo credente' musulmano presenta affinità sostanziali con l'individualismo religioso tipico della modernità occidentale.
Quanto all'identificazione di laicismo e modernità, si potrebbe obbiettare che, molto spesso, la reinsorgenza della 'tradizione' andrebbe cercata proprio nelle strategie adottate dalle elite laiche e conservatrici per mantenersi al potere tra gli anni settanta e l'inizio degli anni novanta (gli anni in cui si consuma la crisi del nazionalismo arabo, crolla il sistema internazionale bipolare e la forma-Stato subisce ovunque una radicale ristrutturazione). Il passaggio al tempo della globalizzazione ha posto tutti gli Stati (a maggior ragione quelli arabi e mediorientali) di fronte a scelte strategiche che mettevano a rischio la legittimazione delle elite. E la risorsa simbolica della tradizione religiosa (anche quella islamica) è stata ampiamente sfruttata da queste elite per mantenersi in sella, implicando l'istituzione di nuove alleanze con il 'clero' e le autorità religiose tradizionali (quelli che i jihadisti chiamano "ulema di palazzo").
L'esito cui può condurre questa discutibile sovrapposizione tra modernità/tradizione e laicismo/religione si rivela apertamente nel saggio di Ferhat Horchani, che chiude la raccolta. Quali dovrebbero essere le condizioni del dialogo fra le sponde mediterranee? La risposta data da Horchani è molto chiara: "l'universalità dei diritti umani", che si impongono come un "valore assoluto" per il semplice fatto della loro universale acquisizione (pp. 165-166). Il pluralismo religioso e culturale è accettabile solo a condizione che venga "affermata la preminenza dei principi universali di natura imperativa su ogni consuetudine e tradizione" (p. 165). Ora, a me sembra che questa 'soluzione' nasconda sia una bugia sia un presupposto discutibile: la bugia riguarda l'universalità del consenso sui diritti umani. Esiste davvero un consenso unanime sui valori che definiscono i diritti umani? Non credo proprio. Ma ammesso che tale consenso esista, come lo si misura? Chi lo misura? E soprattutto: che fare con coloro che non sono d'accordo (pochi o molti che siano)? Punirli? Convertirli? Escluderli? Sterminarli? Horchani risponde semplicemente: 'con loro non possiamo dialogare, perché non esistono le condizioni per dialogare'. Ne consegue che il dialogo può svolgersi solo nel quadro di un consenso universale sui valori. Ed è proprio questo il presupposto discutibile – cioè che, per dialogare, debba esservi omogeneità sui valori fondamentali – a maggior ragione se stiamo parlando di Mediterraneo. Espressa in questi termini, non è forse un'altra manifestazione di universalismo dogmatico? Una tirannia dei valori dagli effetti potenzialmente distruttivi? Semplificazioni di questo tipo sembrano presupporre una società internazionale omogenea, dimenticando che praticamente ogni Stato mediterraneo è il prodotto di una serie di tensioni o spaccature profonde, determinate dall'azione congiunta e conflittuale di almeno tre livelli – interno, regionale e internazionale. E senza considerare che assai di rado, in tali Stati, dimensione statale e nazionale coincidono, e la dialettica governi/società è già di per sé pericolosamente instabile.
Ancora una volta il 'dialogo' non è un valore, ma si impone come una necessità. È vero, affinché vi sia dialogo occorrono alcune condizioni, ma tali condizioni non possono che essere puramente formali: la prima è che si diano differenze reali, cioè valori realmente distinti e non necessariamente conciliabili; la seconda è che vi sia una reciproca disponibilità a dialogare. Porre condizioni sostanziali produrrebbe l'effetto contrario a quello desiderato. Un esempio. Oggi, sarebbe importantissimo dialogare con l'Iran e con Hamas, anche se non esistono le condizioni ideologiche proposte da Horchani. Eppure è la Russia a provarci, mentre gli europei fanno la sola cosa che sanno fare: speculare sulle condizioni etiche e teoretiche del dialogo.