Spaesamento, perdita di luogo e rilocalizzazione dell’identità culturale
di Luisa Bonesio - 17/03/2006
Fonte: geofilosofia
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1. Scompaginazione dei luoghi e perdita dell’identità
La modernità scardina il senso dei luoghi, il loro orientamento - spaziale e simbolico -, perché il suo pensiero dispone e misura estensioni, senza soffermarsi sugli aspetti qualitativi; perché l’accelerando è il suo "tempo" mentre il territorio è tempo lungo, sedimentazione, tendenziale incompatibilità strutturale con il mutamento troppo rapido; perché l’innovazione è la sua ragion d’essere mentre niente più di alcuni territori (p. es. la montagna) è strutturalmente conservatore; perché la massa è l’anonimità sradicata, secolarizzata e cosmopolita del denaro mentre la cultura tradizionale dei luoghi è stata soprattutto senso comunitario, avvedutezza, pietas, adesione al genius loci. Retrospettivamente si potrebbe dire che è stato grazie all’accettazione del limite del territorio (organico e ciclico naturale) che le culture hanno realizzato la propria specifica interpretazione delle possibilità dei luoghi. Inevitabilmente, quando la strapotenza della modernità urbana finisce con il cancellare i tratti millenari delle culture locali, e la progettazione a tavolino dell’architettura e dell’ingegneria sostituiscono nel ruolo di costruttori gli abitanti, che avevano plasmato il territorio in un’accorta alleanza secolare con la natura, il risultato è l’aspazialità, ossia lo slegamento, reso possibile dalla tecnica, della specificità dei caratteri del luogo dalla funzione cui viene destinato in un’ottica di sfruttamento economico, che ne accentua la dipendenza dai centri economici, decisionali o politici, dall’utilizzazione da parte di logiche esogene, dotate di simboli, storia, obiettivi e stili diversi. La "crisi" del tessuto territoriale altro non è che la "caduta di validità di strutture, di relative capacità di lettura e inserzione nella realtà, nei flessi ciclici di trapasso e scala economica".
Quello stadio di nuova consapevolezza civile, che ormai quarant’anni fa invocava Saverio Muratori, sembra incontrare ancora molti ostacoli sul proprio cammino. Eppure solo da una lettura consapevole del territorio locale, nelle sue interconnessioni globali, può essere compresa la straordinaria portata culturale, civile e comunitaria (oltre che ecologica) di un modo nuovo (in realtà tradizionalissimo) di intendere il progetto e la realizzazione architettonica: come un prendersi cura di tutto ciò che concorre alla vita della irripetibile singolarità dei luoghi, nei loro tratti paesistici, tradizionali, memoriali, differenziali, con la spontanea sollecitudine con la quale si cerca di evitare il degrado, l’abbandono, l’imbruttimento, il malfunzionamento della propria dimora. "Il territorio è una struttura essenzialmente unitaria, concreta, totale e univoca; che tuttavia, appunto perché è insieme unitaria, cioè permanente, e concreta, cioè polivalente, non può che essere stabile e crescente, cioè conservativa e accumulativa; e che appunto per essere insieme totale, cioè molteplice, e univoca, cioè individuale, non può che essere ciclica e asintotica, cioè integrativa e confermativa di se stessa all’infinito". Se ogni cultura, finché è vivente e consapevole di sé, opera in accordo con il nomos dei luoghi per poter fiorire e mantenersi, la contemporaneità mercantile e speculativa, con una caratteristica miopia che fa il paio con la sua intrinseca ignoranza, anche in fatto di gusti, finisce con l’interrompere in modo tendenzialmente definitivo il circolo virtuoso territorio-cultura, anche a partire dal profondo misconoscimento dell’idea stessa di "conservazione", il cui solo suono, alle nostre orecchie diveniristiche e progressistiche, appare blasfemo e impronunciabile. Eppure, "conservare" significa tenere presso di sé (cum-serbare), preservare nella cura, trattenendolo dalla sparizione, ciò che si ha a cuore, dunque con un’intensità che può concernere solo ciò che davvero conta per noi: tutto il contrario dell’accezione freddamente museale, asetticamente imbalsamatoria con la quale per lo più risuona alle nostre orecchie questa parola, e che presuppone un automatico disinteresse e una subitanea dimenticanza per quanto, essendo stato catalogato, può essere abbandonato in un virtuale deposito di memorie da cui sembra poter essere momentaneamente estratto ogni volta che lo si voglia. Una paradossale forma di conservazione, quella della modernità, l’approntare istituzioni che consentano la buona coscienza dell’oblio e della distruzione, siano esse musei o parchi a tema, oppure "riserve" etnografiche di vario tipo, con tanto di "mediatori culturali". Un illusorio trattenere dalla scomparsa definitiva quei mondi che lo stesso Occidente - dentro e fuori di sé - ha incessantemente sfigurato e cancellato; non a causa di un generico processo di inevitabile entropia ("Il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui") che dalla perfezione dell’origine porterebbe ineluttabilmente il mondo alla sua fine, al una disintegrazione concepita in termini meccanici o energetici, bensì in una precisa destinalità connessa all’affermazione della cultura dell’illimite faustiano, che ancora oggi, in quasi ogni atto o scelta le nostre società esprimono.
La modernità che svelle con la potenza tecnica omologante il nomos dei luoghi, cultura da cosmopoli, di sradicamento e meticciato, di livellamento ed elementarizzazione, non può generare un’architettura abitativa che non sia l’edilizia anonima, la macchina per abitare, la perdita di un nesso significativo con il luogo e la natura, o il titanismo che attira su di sé il fulmine della distruzione. Ed è la profonda sconnessione rispetto alla fisionomia dei luoghi il tratto che maggiormente caratterizza l’architettura abitativa realizzata negli ultimi decenni in zone particolarmente "sensibili" per configurazione paesaggistica e culturale (montagna, territori a forte identità estetica e anche turistica): profondamente impensato - o forse impensabile per il moderno - è il senso dell’abitare un luogo, ogni volta singolare e inconfondibile, non solo per i suoi caratteri "naturali" o "fisici", ma ancor prima per i tratti simbolici, culturali e comunitari che vi sono impressi. È l’identità dei luoghi a essere misconosciuta e violata: e come ormai si riconosce da più parti, questi reiterati attacchi alla riconoscibilità delle fisionomie locali inferti da un’edilizia proterva o sciatta, guidata solo dalla logica del denaro o della sua esibizione, finiscono col distruggere il senso dell’appartenenza, aprendo le porte ad ogni sorta di ulteriore degrado. È la storia di molti centri dotati un nobile passato storico e architettonico, travolti da un apparentemente inarrestabile involgarimento delle forme, della vita, e dunque da un progressivo deperimento ambientale, che mostra eloquentemente come può entrare in possesso del suo patrimonio solo chi è capace di conservazione e di memoria. Solo coloro che ereditano consapevolmente potranno accedere al futuro: come scriveva Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è colui il quale è dotato di più lunga memoria, chi, si potrebbe dire, ha le radici più profonde e ramificate, saldamente piantate nel terreno delle sue tradizioni; a differenza di quanto ha pensato la cultura faustiana dell’Occidente, non è andando-via, nel nomadismo senza riferimenti né orizzonti, nella scelta "oceanica" dell’illimitato e immisurabile che si trova la promessa dell’a-venire, bensì in una rinnovata consapevolezza del proprio orizzonte nella sua ineliminabile embricazione con gli altri orizzonti, accessibili uno alla volta, nella propria specificità: non quindi nella "grande discarica" dell’omologazione, dove nel mercato si trovano i detriti e le caricature di tutte le culture del mondo.
L’orizzonte negativo in cui di fatto si è mossa la progettazione contemporanea è quello oscillante tra le ragioni "oggettive" del mondo tecnoeconomico e l’irrelatezza soggettivistica di un’idea residenziale a sua volta divisa tra legge del numero ed enfatizzazione del proprio status (economico, estetico), producendo luoghi senza qualità estetica, senza memoria e dunque senza comunità. È mancata quasi sempre la comprensione del senso del paesaggio, che invece possedevano le comunità tradizionali, ossia che ogni luogo, anche nei suoi aspetti "naturali", nella sua morfologia, nella sua ricchezza estetica e simbolica, non è un bene di cui appropriarsi, ma una comunità cui appartenere, di cui condividere il linguaggio. Al tentativo dell’assimilazione nei codici di una pianificazione astratta, e omologante, che azzera le specificità e le salienze singolari di un luogo nella mera performatività del rendimento economico o della realizzazione tecnologica fine a se stessa, le fisionomie territoriali, immagine visibile di tradizione e identità culturali, vengono cancellate fino all’invisibilità, trasformandosi in lembi di territorio che diventano a tutti gli effetti estensioni periferiche urbane, non solo nella concezione costruttiva, ma soprattutto nella impossibilità di costituirsi in luoghi per una comunità, essendo soltanto spazi inerti del transito, del sonno o della vacanza, aggregazioni morte di edifici che non potranno mai costituire luogo di un abitare.
Se è forse corretto dubitare dell’ideologia che proietta in un intatto passato l’ideale della perfezione, nondimeno, come scriveva un filosofo certo non sospettabile di passatismo, "fintanto che il progresso deformato dall’utilitarismo violenta la superficie della terra, non si lascia completamente tacitare, nonostante tutte le dimostrazioni in contrario, la sensazione che ciò che è al di qua della tendenza di sviluppo e anteriore ad essa è, nella sua arretratezza, più umano e migliore": è quel che Adorno chiama, significativamente, "un momento di diritto correttivo", che, sospendendo l’adesione al culto del "progresso", consente di gettare uno sguardo distaccato e consapevole sulla distruttività dell’epoca. Liquidare semplicemente il retaggio del passato perché la sua conservazione sarebbe reazionaria o patetica di fronte alle adulte ragioni dell’economico, è nichilistico e autolesionistico. Non è possibile l’abitare in un mondo accettabile senza continuità di forme e tradizioni, né, tantomeno, pensare che esso possa possedere significati estetici, che non siano cosmetizzazione commerciale, in assenza di consapevolezza culturale: "senza memoria storica non ci sarebbe alcuna bellezza", e al massimo la natura può essere "parco naturale e alibi".
Per farlo, è necessario arrivare a considerare è la "architettura" propria (appropriata) di un luogo, ossia quella di chi, abitandovi da tempi immemorabili ne ha distillato una sapienza estetica consequenziale e un’avvedutezza nell’uso e nel mantenimento delle risorse, anche simboliche e immateriali. Il rischio è quello di scivolare nella retorica della baita o della casa colonica e di un’integrità di vita e di armonia con la natura giocata in una troppo facile contrapposizione alla disincantata sventatezza moderna, o di favorire, per l’appunto, la museificazione di quanto ancora c’è di vivo delle tradizioni abitative locali o la loro ulteriore, e magari più sottilmente insidiosa, commercializzazione. "Ma se per tale ragione alla gioia che ci dà ogni vecchio muricciolo, ogni casamento medievale è mescolata una cattiva coscienza, nondimeno quella gioia sopravvive alla scoperta che la rende sospetta": quasi un senso di sollievo per ciò che ancora non è andato distrutto, ossia lo stile di costruzione proprio del luogo, che anche in frammenti diruti, ne reca l’inconfondibile impronta: non tanto in quanto autoctono e originale, ma in quanto modello che con una relativa stabilità, con il suo ben definito repertorio di varianti regionali, è stato il linguaggio condiviso di tutta una cultura oppure di territori molto vasti accomunati da medesime caratteristiche geografiche e culturali (come per esempio è accaduto - caso limite - nell’ecumene alpina, relativamente insensibile a scansioni storiche, a divisioni nazionali o politiche, mondo omogeneo e trasversale nel cuore dell’Europa). Le costruzioni di questo genere di architettura anonima e spesso comunitaria corrispondevano innanzitutto non a dei "residenti" o turisti, ma ad abitanti reali, che dal territorio traevano sostentamento, la cui vita era resa possibile dall’equilibrio e dalla conservazione del territorio nei suoi tratti propri e specifici; dunque per i quali "abitare" e "costruire" era tutt’uno che "produrre territorio" o "salvaguardare" il luogo.
2. Memoria e conservazione
Concepire lo spazio come una dimensione puramente geometrica da riempire con volumetrie arbitrarie significa anche aver lasciato spegnere quella che Ruskin chiamava la "lampada della memoria". Al contrario del gesto iconoclasta della modernità, il compito dell’architettura è anche quello di tramandare, non per un citazionismo eclettico o una patinatura kitsch, ma per la scelta di accogliere consapevolmente un’eredità trasmessaci. "Quante pagine di incerte ricostruzioni del passato potremmo spesso risparmiare in cambio di pochi massi di pietra rimasti in piedi l’uno sull’altro", scriveva Ruskin, affidando all’architettura il compito di darsi una dimensione storica e di "conservare quella delle epoche passate come la più preziosa delle eredità". È così che essa "congiunge epoche dimenticate alle epoche che seguono, e quasi costituisce l’identità delle nazioni", in modo simile all’operare in conformità al riconoscimento del fatto che "la terra l’abbiamo ricevuta in consegna, non è un nostro possesso". Il primo compito che l’architettura dovrebbe darsi è quello di liberare molti spazi da molti dei suoi stessi prodotti recenti, decostruire il proprio orizzonte progressistico, la propria tecnolatria, demolendo, letteralmente, quanto costituisce solo sfregio estetico e sprezzo dei luoghi. Per accedere a questa determinazione, occorre dotarsi di uno sguardo capace di leggere e interpretare il territorio come un processo storico di cui siamo diretti eredi e prosecutori, dunque responsabili. Con meno paradossalità di quanto appare, l’etica dell’architettura dovrebbe contemplare una necessaria opera di pulizia, una preliminare tabula rasa che restituisca molti luoghi alle loro peculiari proprietà formali, simboliche e ambientali, senza aspettare che quest’opera sia attuata qua e là dalla natura, dal tempo o dalla intrinseca babelicità che attira la distruzione.
Se fin dai suoi inizi tardo-ottocenteschi, la tecnica ha ridotto l’orbe a un paesaggio fabbrile e a un immenso, disarmonico cantiere, facendo del dissesto perenne la legge strutturale della sua avanzata, "occorre tener presente che, se vogliamo riferirci al mondo odierno dell’uomo, cioè a una civiltà per quanto in crisi estesa a tutto il globo e quindi non più estensibile materialmente, ma solo qualitativamente, si tratta di una costruzione a stadio molto avanzato. L’area assegnata definita, occupata prima parzialmente da sporadiche e precarie strutture, poi totalmente da più strutture separate, ma stabili e intensive, ha finito per raggiungere i limiti di sfruttamento". I rapporti tra aree ad elevata densità e impatto abitativo o industriale devono necessariamente essere controbilanciate da aree vuote o rade, e non è possibile alterare un certo equilibrio sia all’interno del territorio stesso che fra territori diversi: "Negarli è solo futile, velleitario, dispersivo e alla fine destinato all’insuccesso, al rovesciamento con risultati opposti, accendendo un processo depressivo tanto più grave, quanto più grave è la manomissione compiuta".
Allora in questo cantiere che ha estensione tendenzialmente planetaria ma che esercita una devastante incidenza in luoghi sempre specifici, è giunto il momento di pensare non più in termini di ulteriore espansione e intensificazione dello sfruttamento, ma di riuso, manutenzione, restauro, abbellimento, di periodico riassetto e di correzione di abusi ed eccessi. Non si tratta di opzioni di basso profilo, rinunciatarie, se si pensa che è proprio a causa della perdita di consapevolezza dei limiti intrinseci di ogni costruzione umana (e del contesto che la rende possibile), che la civiltà corre il rischio di autodistruggersi: "La trasformazione della terra da parte dell’uomo, dapprima per lunghissimo tratto irrilevante, è andata accentuandosi man mano che crescevano forze operative della società umana, giunte a condizionare la vita biologica spesso in modo devastatorio autolesivo": ci troviamo su quella linea (o forse l’abbiamo già oltrepassata) in cui la Terra richiede uno sguardo unitario, che non sia solo quello unilaterale e disponente della tecnica o quello, ancor più miope, dell’economia; ma questa consapevolezza globale di aver raggiunto il limite dell’equilibrio deve essere declinata ogni volta nella specificità delle configurazioni territoriali e dei loro peculiari punti di equilibrio e di conservazione. E ogni tessuto territoriale è un organismo complesso e delicato, non appiattibile a semplice superficie disponibile per qualsiasi manomissione; bensì una plurima sedimentazione di temporalità e intenzionalità funzionali diverse, scale differenti e orientamenti differenziati che non si sovrappongono o si elidono meccanicamente, come strati inerti, ma piuttosto si armonizzano in una vitale integrazione e collaborazione resa possibile dalla presenza articolante e vivificante di una stessa matrice di interpretazione e configurazione spaziale e simbolica. Così nei nostri territori "convivono e si integrano la centuriazione romana e i grandi percorsi naturali, gli insediamenti locali propri delle età iniziali ribaditi intatti nel Medio Evo e la città comunale, ricalcante quasi costantemente la colonia romana e la polis preromana; il tessuto e la struttura stessa dei campi è un acquisto sostanzialmente mai perduto, sempre ritrovato, perché intrinseco alla natura dei luoghi e all’uso che dei luoghi l’uomo può farne e seguiterà a farne. Questa è la lezione che il tessuto ci dà: ed è, per chi la sa leggere, una alta lezione al tempo stesso di realtà e di umanità".
*L'immagine accanto al titolo è lo stemma della città di Zernez in Bassa Engadina.