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Le cose più importanti non si comunicano con la parola scritta, ma oralmente

di Francesco Lamendola - 26/06/2009


Lo aveva già affermato Platone, e in maniera estremamente esplicita, in due distinte opere: nel «Fedro» e nella VII Lettera; ma generazioni e generazioni di studiosi di filosofia non gli hanno creduto, non hanno preso sul serio le sue parole.
In particolare Schleiermacher, ai primi del XIX secolo, ha avvalorato l'idea che noi, possedendo tutte le opere del filosofo ateniese - caso pressoché unico nella storia della filologia classica - siamo altresì in possesso di tutto il suo pensiero. La voce isolata e geniale di Nietzsche, che - richiamandosi proprio a quelle due opere di Platone stesso - metteva in guardia dalla presunzione di sopravvalutare la parte scritta della filosofia platonica, non è stata ascoltata; e solo in anni recenti si è tornati ad una prospettiva critica, che tenesse nel debito conto le tesi contenute nel «Fedro» e nella VII Lettera.
Eppure, Platone era stato non soltanto chiaro, ma estremamente circostanziato; e, se affermava la superiorità del discorso orale rispetto alla pagina scritta, evidentemente intendeva riferirsi anche al proprio pensiero filosofico.
Ora, non vogliamo soffermarci a esaminare tutte le ragioni addotte da Platone per sostenere la sua tesi; ci limiteremo a riflettere su di una (esposta nella VII Lettera), e cioè che la pagina scritta si rivolge indifferentemente a qualunque lettore e, perciò, anche a persone che non sono in grado di comprendere veramente il messaggio dell'autore; mentre nel rapporto diretto, orale, il maestro conosce bene il proprio discepolo e sa come parlargli, quali argomenti usare, quale tipo di linguaggio adottare. In breve, nella comunicazione orale non vi è pericolo di fraintendimenti, o, quanto meno, vi è un pericolo assai minore che nella comunicazione scritta.
Giovanni Reale, nella sua «Storia della filosofia», osserva giustamente che, se negli ultimi decenni si è giunti a impostare correttamente il problema della completezza della filosofia platonica, ciò è dipeso dal fatto che la nostra epoca ha vissuto una rivoluzione delle comunicazione paragonabile a quella vissuta dai contemporanei di Platone, il che ci ha resi più sensibili alla particolare  situazione in cui si trovava quest'ultimo.
Nel V e IV secolo avanti Cristo, nel mondo ellenico, la parola scritta stava affiancandosi e gradualmente sostituendosi a quella orale come veicolo della cultura. Socrate, il maestro di Platone, non aveva lasciato nulla di scritto, avendo basato tutta la sua ricerca filosofica sul discorso diretto con degli interlocutori in carne ed ossa. E Platone, dal canto suo, affidò quasi tutto il suo pensiero scritto alla forma dialogica, ossia la più vicina alla comunicazione verbale.
Così pure, nel corso del XX secolo si è verificata una vera e propria rivoluzione delle comunicazioni, che ha visto l'immagine affiancarsi e, in parte, sostituirsi alla parola scritta: il cinema e la televisione hanno preso il sopravvento sul libro e sul giornale; anche se, più recentemente ancora, l'informatica sta promuovendo una riscossa della parola scritta, peraltro in forme sempre più semplificate e banalizzate, come avviene anche nella telefonia cellulare, con una prevalenza dei messaggi scritti su quelli verbali.
Noi, dunque, ci troviamo di fronte a un bivio non dissimile da quello con cui dovette confrontarsi Platone, al momento di decidere quale forma di comunicazione era meglio che adottasse per trasmettere la propria dottrina filosofica.
La prima osservazione che sale spontanea alla mente, riflettendo su tale questione, è che la parola orale è possibile solo fra contemporanei; per parlare ai posteri, sembra sia inevitabile affidarsi alla pagina scritta.
Tuttavia,  basta un momento di ulteriore riflessione, per rendersi conto che questo non è affatto vero: né Buddha, né Cristo, misero per iscritto i loro rispettivi insegnamenti; eppure, essi sono ancora vivi e operanti nel mondo attuale, dopo ben venticinque secoli nel caso del primo, e venti secoli nel caso del secondo.
Certo, si dirà che le dottrine sia di Buddha, sia di Cristo, sono state messe per iscritto, dopo la loro morte, dai loro seguaci: questo è verissimo; e, naturalmente, ciò apre la delicata questione di quanto si sia conservato del messaggio originale di quei maestri, e di quanto sia stato modificato, appunto, da coloro che lo hanno messo per iscritto, con fini di carattere eminentemente pratico e didattico. Resta però il fatto che buddhismo e cristianesimo sono sopravvissuti; e che, anzi, con ogni verosimiglianza, hanno potuto propagarsi nel tempo e nello spazio, precisamente grazie all'adozione della comunicazione scritta.
Però, a ben guardare, il problema filologico rimane, ed è cospicuo: la parola scritta, specialmente se riportata dai seguaci di un maestro, potrebbe discostarsi anche di molto dalla parola viva del maestro medesimo; senza contare l'obiezione di Platone, che il maestro - cioè - sa come rivolgersi a ogni singolo ascoltatore, mentre la parola scritta cade indiscriminatamente negli orecchi di chiunque, che sia pronto a comprenderla, oppure no.
Se poi ci spostiamo dal solenne scenario della storia del pensiero a quello, intimo e quotidiano, della nostra vita, ci troveremo a fare delle riflessioni non dissimili da quelle di Platone. Certo, comunicare a mezzo di una bella lettera è significativo, e consente di esprimere e approfondire cose che, a voce, per tutta una serie di ragioni, non si potrebbero toccare in maniera altrettanto franca ed esaustiva.
Nondimeno, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo ammettere che la lettera è un'arma a doppio taglio; perché, se è vero che può permettere di vincere le barriere della timidezza o del ritegno, è altrettanto vero che può dar luogo a dei gravi malintesi, non essendo accompagnata dalla mimica e dal tono della voce, e soprattutto dallo sguardo, che coloriscono in maniera appropriata le parole e danno loro un significato piuttosto inequivocabile.
Si obietterà che anche nella comunicazione orale è possibile il fraintendimento: ad esempio perché la stessa parola, adoprata da due esseri umani, per quanto spiritualmente in reciproca sintonia, può assumere significati, o quantomeno risvolti, profondamente diversi.
Questa obiezione è pertinente, ma ci rimanda a un altro problema, troppo grande per essere discusso in questa sede: se, cioè, a un livello profondo, sia realmente possibile la comunicazione integrale, non ambigua, non fuorviante, fra due esseri umani. Infatti, se fosse vero che noi siamo - come sosteneva Leibniz - niente altro che delle monadi senza porte e senza finestre, è evidente che una comunicazione vera e profonda risulterebbe praticamente impossibile.
Nell'ambito della presente riflessione, tuttavia, non ci addentreremo su questo impervio terreno, che spalancherebbe prospettive filosofiche di enorme portata; e ci limiteremo a domandarci se la comunicazione orale sia, comunque, preferibile rispetto a quella scritta, allorché si tratta di trasmettere non informazioni di carattere pratico o idee di carattere generale, ma pensieri e sentimenti particolarmente profondi e delicati.
In effetti, molte ragioni ci spingono a ritenere che la comunicazione più autentica sia sempre quella fra due esseri umani che si trovano faccia a faccia; e, inoltre, che gli strumenti più appropriati di cui essa può servirsi sono diversi sia dalla parola scritta, sia da quella orale: si tratta dello sguardo, del sorriso, del gesto, della carezza, dell'amore.
Nemmeno la parola orale, dunque, può dire tutto, né essa va immune da malintesi e fraintendimenti; e tuttavia, rispetto alla parola scritta, che non vede negli occhi il proprio interlocutore e che non può interagire con lui, se non in forma mediata e in tempi successivi, ci sembra indubitabile che essa presenti dei vantaggi evidenti, poiché può accompagnarsi allo sguardo e alla gestualità e perché può misurare il proprio discorso sulle caratteristiche specifiche del singolo interlocutore, in forma estremamente personalizzata.
Nessuna parola scritta sarebbe in grado di fare altrettanto; nessuna parola scritta avrebbe lo stesso slancio, la stessa freschezza, la stessa profondità spirituale; anche se - evidentemente - essa potrebbe guadagnare in estensione e in quantità, quello che deve cedere in qualità e capacità di approfondimento.
Inoltre, la parola orale - specie se accompagnata, come del resto avviene quasi sempre, dallo sguardo e da una particolare gestualità - è in grado di gettare un ponte anche fra le creature umane e quelle non umane; e poco importa se il cane, il cavallo o il delfino apprezzano il tono della voce del parlante, senza comprendere la struttura articolata del discorso.
Chiunque abbia, o abbia avuto, un minimo di familiarità con gli animali domestici, sa che essi sono in grado di recepire il senso del discorso rivolto loro, beninteso se si tratta di un discorso semplice e di tipo prevalentemente affettivo e non di un complesso problema logico o matematico. Ma solo un numero minore di persone, probabilmente, è consapevole del fatto che un discorso analogo vale anche per la comunicazione tra gli umani e le piante: cosa che possono confermare le persone di animo gentile, in possesso del cosiddetto «pollice verde»; e che anche recenti esperimenti di tipo scientifico hanno confermato, nella maniera più esplicita e significativa.
Parlare con i fiori, accarezzare la corteccia di un possente tronco d'albero, sfiorare un ramoscello di mimosa (che reagirà a quel lieve contatto, richiudendo le foglioline su se stesse) sono azioni che, scaturendo da un animo gentile, presuppongono quell'apertura mentale e coscienziale, senza la quale l'essere umano si troverebbe ad abitare nel mondo come in un deserto, estraneo alle altre creature viventi, incapace di comprenderle e di esserne compreso.
Non è affatto un caso che le biografie dei grandi mistici siano ricchissime di episodio relativi alla profonda capacità di comunicare con le creature non umane da parte dei saggi, degli illuminati, delle anime grandi e generose. E, anche se una accanita - e un po' ottusa - ipercritica di tipo razionalista, ha cercato di smontare uno ad uno tali racconti, ad esempio sostenendo che il lupo di Gubbio ammansito da San Francesco non era una fiera, ma un pericoloso brigante, basta fare un rapido giro per le strade di Calcutta o di Benares per rendersi conto che esseri umani dalle particolari attitudini sono tuttora in grado di comunicare, in maniera sbalorditiva, con ogni sorta di animali, e non solo domestici, financo con i serpenti cobra.
D'altra parte, episodi curiosi e, per noi, quasi incomprensibili, delle Sacre Scritture di svariate religioni, serbano traccia della convinzione, lungamente nutrita dagli esseri umani nelle culture pre-moderne, che la parola orale, pronunciata in un determinato contesto, possa avere un riscontro immediato e sorprendente sulle creature vegetali. Si pensi, tanto per fare un esempio, al racconto evangelico della maledizione lanciata da Gesù contro il fico sterile, e si comprenderà meglio, forse, quel che intendiamo dire.
Il pregiudizio antropocentrico ci porta a considerare come secondaria la comunicazione fra uomo e animale o fra uomo e pianta; eppure, quando ci abbandoniamo a tale pregiudizio, dimentichiamo che anche l'essere umano, nelle prime fasi della propria vita, è incapace di recepire una comunicazione verbale articolata; il che non gli impedisce di comunicare perfettamente con l'adulto, come ben sa qualunque mamma che abbia avuto la gioia di tenere in braccio il proprio neonato, anche piccolissimo.
Non solo: è da tempo dimostrato che l'essere umano reagisce alla comunicazione verbale, e perfino emozionale, della madre, fin da quando si trova nell'utero materno; che è in grado di recepire e apprezzare la parole dolci, le ninne-nanne, le carezze; così come dei brani di musica classica, specialmente di pianoforte, aventi carattere melodioso e riposante. Non per nulla una antichissima civiltà, come quella dell'India, calcola l'età di un essere umano a partire dal concepimento e non dalla nascita, come facciamo noi occidentali.
Da tutte queste riflessioni esce rafforzata l'idea che solo parlando a tu per tu è possibile che due esseri umani si trasmettano qualche cosa di più che dei contenuti di natura puramente informativa, per scendere a un livello molto più profondo della comunicazione, ove le vibrazioni dell'anima giungono direttamente le une al cuore delle altre.
Non sappiamo se questo sia un privilegio degli umani, o se anche gli animali e le piante godano della stessa facoltà; anche perché non sappiamo fino a che punto la comunicazione profonda richieda la necessità di un linguaggio verbale, nonché di un sistema nervoso centrale altamente complesso.
«In principio era il Verbo; e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio», proclama solennemente l'incipit del Vangelo di Giovanni.
E, nella cultura indiana, sappiamo che la parola OUM equivale all'evocazione del Nome divino, simile a un respiro cosmico.
Forse tutto l'Universo, quello visibile e quello invisibile, non è che un grande Parola, la parola dell'Essere agli enti e la risposta degli enti verso l'Essere:.
Una parola non scritta, questo è certo, ma pronunciata dai più lontani abissi, prima del tempo e dello spazio, della quale le nostre deboli parole umane non sono che uno sbiadito riflesso.
Un «fiat» che porta all'esistenza ciò che era non essere, e lo rende partecipe dell'essere, in attesa di reintegrarlo definitivamente nel Verbo perenne, fatto di pura luce e puro amore.