Non fosse venuto via dal paese certamente Batistin avrebbe tribolato di meno, ma oltre a guadagnare meno soldi sarebbe rimasto fuori dal grande flusso della modernità e del progresso. Sarebbe rimasto legato a un sapere e a un saper fare immutati da secoli e non avrebbe imparato tante cose nuove. Con la sua scelta, invece, si è inserito in questo flusso, ha partecipato ai grandi cambiamenti che ne sono scaturiti e ne è stato parte attiva. È diventato uno dei tanti che hanno spinto in quella direzione e ne hanno tratto vantaggi. In realtà, negli stessi anni anche in campagna si facevano progressi, più lentamente che nelle città, ma si facevano. Se ne accorgeva anche lui quando tornava al paese, non nei primi tempi che era lì tutte le domeniche, ma in seguito, quando ci andava più raramente e i cambiamenti saltavano agli occhi. I primi trattori li aveva visti da ragazzo andare su e giù per i campi come giganti buoni venuti ad alleviare la fatica degli uomini. Più o meno nello stesso periodo, quando era ora di trebbiare il grano veniva portata a turno sulle aie una grande macchina con volani, cinghie, tramogge e rulli, che ammorbava l’aria d’un gas puzzolente sollevando nuvole di polvere da cui fuoriuscivano una gragnola di chicchi da una parte e una fila di balle di paglia compatte dall’altra. A parte queste novità, più o meno il resto continuava come prima. Il secondo cambiamento avvenne quando lui era già andato via e fu ben più radicale, perché oltre al modo di fare cambiò il modo di pensare. La vicenda iniziò quando tutti i consorzi agrari furono visitati da uno stuolo di rappresentanti della Montecatini incaricati di spacciare, la parola può sembrare forte ma il significato è rigoroso, prodotti chimici per accrescere la produttività dell’agricoltura. Che questi prodotti abbiano consentito di avere rendimenti più alti è noto ma, è altrettanto noto, a danno della qualità. La produzione crebbe molto e la qualità peggiorò, non solo perché i frutti della terra divennero più insipidi e meno nutrienti, che tutto sommato sarebbe il meno, ma quel che è più grave, furono trasformati in concentrati di veleni. Il primo effetto si vide subito dall’incremento dei raccolti. Il secondo qualche anno dopo, dall’incremento dei tumori all’apparato digerente. Ma il cambiamento più profondo avvenne nella mentalità degli agricoltori che, trovandosi ad avere sistematicamente produzioni molto più abbondanti di prima, furono proiettati di colpo in una logica mercantile. Mentre fino ad allora avevano organizzato la propria attività produttiva in funzione delle proprie esigenze limitandosi a vendere le eccedenze rispetto al proprio fabbisogno, da quel momento in poi cominciarono a privilegiare la coltivazione dei prodotti che un uso adeguato della chimica rendeva più redditizi economicamente.

Prima dell’avvento della chimica, nei terreni agricoli la biodiversità era ancora maggiore che negli ambienti naturali non antropizzati. Dopo cominciò a impoverirsi progressivamente fino alla pratica della monocultura su grandi estensioni territoriali. La semplificazione più drastica fu la separazione dell’agricoltura dall’allevamento. I fertilizzanti chimici eliminarono la necessità della concimazione naturale per cui una a una le piccole stalle furono chiuse, mentre si impiantavano grandi allevamenti in aziende agricole in cui non si coltivava nulla. Nelle colline dove era nato Batistin, in cui la vigna era già la produzione privilegiata, ogni altra attività agricola venne abbandonata e i contadini impiantarono viti in ogni metro quadrato. Tanto la frutta e la verdura, le uova e il pollame potevano andarli a comprare nei supermercati insediati in alcuni dei grandi edifici squadrati sorti come funghi sui bordi degli stradoni di fondovalle. A conti fatti conveniva, perché dalla vendita dell’uva o del vino ricavavano di più che da ogni altro prodotto agricolo, mentre tutti gli altri prodotti, calcolando il costo delle ore necessari a produrli, era più economico acquistarli che coltivarli. Così, poco a poco, il paesaggio di tutte le colline si uniformò e ogni diversità fu eliminata. Quando non ci furono più salici lungo le rogge, cominciarono a legare i tralci ai filari con fil di ferro ricoperto da fettucce di plastica. Quando non ci furono più boschi, tanto per riscaldarsi usavano il gasolio, i pali di legno furono sostituiti da pali di cemento. Nelle cantine le botti lasciarono dapprima il posto a tini di resina, poi di acciaio inossidabile col controllo della temperatura di fermentazione. In seguito fu la volta delle imbottigliatrici etichettatrici automatiche, dei muletti e dei pallets, perché per tenere dietro alla concorrenza bisogna aumentare la produzione e ridurre gli addetti. Ma per ridurre gli addetti occorre investire in macchinari e per investire in macchinari occorre avere alti margini di guadagno. L’inserimento nella logica commerciale costringeva a spendere sempre più di ciò che si guadagnava vendendo. Se a questa legge economica si aggiungono le rivalità personali e l’ostentazione del proprio benessere con l’esibizione di oggetti costosi, le spese aumentano ancora perché non basta avere un trattore, bisogna averlo più bello di quello del vicino. E allora motori sempre più potenti, velocità sempre maggiori, cabine con l’aria condizionata e l’impianto stereofonico, sedili imbottiti, ruote sempre più grandi per superare pendenze che quelle colline non hanno…

Proprio come in città, pensava Batistin, che da quando era tornato a vivere in campagna, per ammazzare il tempo la domenica pomeriggio andava di tanto in tanto con sua moglie a qualche festa di paese, dove arrivavano frotte di persone da tutti i paesi vicini attirate come le mosche dal miele. Accanto al tendone dove la pro loco organizzava un ristorante a base di specialità locali, rigorosamente servite su piatti di plastica con posate e bicchieri di plastica, immancabilmente i rivenditori di macchine agricole del circondario esibivano tutta la gamma delle novità, lustre e fiammanti come negli autosaloni: dai trattorini agili e versatili ai mammuth che ci vuole la scala per salirci sopra. E la sera, rientrando dopo aver mangiato in fila come alla mensa Fiat una pietanza riscaldaticcia che era l’imitazione dell’imitazione dell’originale, quando arrivava in fondo alla diramazione che collega la statale con la strada che sale sulla collina dove aveva costruito la sua casa, si trovava immancabilmente intricato in una marea di macchine che entravano e uscivano dal parcheggio di una discoteca ricavata in uno dei capannoni squadrati che punteggiano il fondovalle come i brufoli dell’acne giovanile il viso di un adolescente. Cosa vuoi, gli diceva la moglie, questi giovani si dovranno pur divertire. Eh, sì, rispondeva lui mentre cercava di districarsi dal groviglio, appena compiono diciott’anni hanno già tutti la macchina. Non è come ai nostri tempi che non potevamo nemmeno comprarci la vespa a trent’anni. Se n’è fatta di strada da allora.

A parte qualche inconveniente, come la diffusione della criminalità che non puoi più lasciare la chiave fuori della porta di casa, il fatto che non ci sono più le stagioni e le viti adesso bisogna potarle a febbraio invece che a marzo, la necessità di comprare l’acqua minerale perché quella del pozzo non si può più bere figuriamoci quella dell’acquedotto, gli intasamenti delle macchine non solo in città, dove hanno dovuto fare i viadotti, ma anche in paese che non sai più dove parcheggiarle, i rumori di quella benedetta discoteca che non si può più mettere il naso fuori di casa alla sera, Batistin è convinto che oggi si viva molto meglio di un tempo e di aver dato un contributo a questo miglioramento col suo lavoro tenace di formichina che, sommato al lavoro di milioni di altre formichine, insieme, prima e dopo di lui, ha cambiato il mondo, riempito di villette e vigneti le colline, di strade le coste e i fondovalle - non come un tempo che t’infangavi tutto e ci mettevi il doppio, ma che dico, il doppio del doppio di tempo a fare gli stessi tragitti - di automobili sempre più veloci le strade, di merci i magazzini e i supermercati, di trattori sempre più potenti i campi, di elettrodomestici le case e di cibo i frigoriferi. Perché vengono qui, dice, però sarebbe meglio che rimanessero a casa loro invece di crearci un sacco di problemi, tutti ‘sti marocchini, albanesi, negri e sudamericani? Perché da loro si vive male, come da noi un tempo, che per costruirci un futuro migliore dovevamo lasciare i nostri paesi e andare in città, o all’estero come emigranti.

Negli stessi anni in cui Batistin si era trasferito in città per dare il suo contributo al progresso, nella cascina accanto a quella dei suoi una donna di trentasei anni, rimaneva vedova con quattro figli bambini. Andare a Torino per lei non fu una scelta, ma un obbligo. Da sola non poteva più mandare avanti la vigna, la stalla e i campi, ma sapeva lavorare da sarta e in città avrebbe avuto clienti. Quando si trasferì coi suoi figli, Beppe aveva otto anni e ogni estate tornava dai nonni che erano ormai troppo vecchi per fare cose diverse da quelle che avevano fatto da sempre. Lì imparò a lavorare la terra non per venderne i frutti, ma per trarne da vivere. Mentre tutti intorno impiantavano vigne sui prati e chiudevano stalle, estirpavano i peschi in cima ai filari per far girare i trattori, facevano irrorare le vigne di veleno dagli aerei, spendevano i soldi che avevano incassato vendendo vino per comprare pali di cemento e tini d’acciaio in modo da incrementare la produzione di vino e guadagnare più soldi per pagare gli aerei che spargevano il veleno, i suoi nonni continuavano a produrre per consumare e a vendere il sovrappiù, guadagnando e spendendo poco. Le sue estati le passò tra i filari, nella stalla e nell’orto e furono estati golose di frutti spiccati dagli alberi, ricche di conoscenze e scoperte. Da qualche anno Beppe è tornato nella cascina che fu dei suoi nonni e ha ripreso a fare ciò che ha imparato da loro. Produce per sé e vende le eccedenze agli amici. Poche eccedenze a pochi amici, perché il suo fare è guidato dalla ricerca degli odori e dei sapori di un tempo, non dal desiderio di fare sempre di più. Dirada a mano i frutti da alberi di varietà ormai quasi scomparse che ha impiantato nel poggio più caldo, quando pota la vigna raccoglie i sarmenti in fascine che lega coi vimini dei salici, pacciama le aiuole dell’orto, raccoglie la legna per l’inverno da un pezzetto di bosco su una riva scoscesa, vendemmia con l’aiuto di amici, fa il vino, l’aceto e la grappa. La sua casa ha i muri scrostati – quando ti deciderai a fare un po’ di manutenzione, Beppe? – ma d’estate le stanze sono fresche e ombrose, d’inverno trattengono il caldo e l’odore della legna che brucia nella cucina economica. La cantina è una grotta scavata nel tufo con le botti allineate alle pareti e le bottiglie sui ripiani hanno le etichette scritte a mano (tanto sono poche e compilarle una a una mi piace di più che guardare la televisione).
Qualche sera Beppe e Batistin s’incontrano e fanno due chiacchiere. Batistin racconta volentieri le sue vicende dei primi anni a Torino e senza farsene accorgere osserva perplesso quell’uomo della generazione successiva alla sua, bravo e strano. Poi dentro di sé scuote la testa e rientra in casa per appisolarsi davanti allo schermo.

Tratto dal libro “Ricchezza ecologica”, di Maurizio Pallante;
2003, Manifestolibri, Roma