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Il segreto è capire che tutto ciò che abbiamo amato esiste per sempre

di Francesco Lamendola - 28/06/2009


 

Le cose e le persone che abbiamo amato non dileguano nel nulla con la separazione; il tempo e la stessa morte non hanno potere su di loro.
Questo concetto viene magistralmente espresso dallo scrittore svedese Pär Lagerkvist (1891-1974, premio Nobel nel 1951) nella sua poesia "Tra diecimila anni" (da: "Da Dikter", traduzione italiana di G. Origlia, Edizioni Italica):

"Tra diecimila anni
Sotto gli alberi passerà
Una fanciulla snella e bionda
Coi fiori nei capelli,
e sarà ancora primavera.

È un'ora mattinale
Qui nel bosco della mia giovinezza,
dove tutto è fresco di rugiada,
ogni sentiero, ogni albero e cespuglio,
tutto ciò che non perisce.

Luminoso, il ramo della betulla sfiora
La sua fronte pura,
ed è ancora lei
che un giorno ho amato,
tutto ciò che è stato esiste ancora. "

Tuttavia, poiché desideriamo dare uno spessore filosofico alla nostra affermazione, e non fare solamente della poesia, è giusto che ci venga domandato su quali ragionamenti di natura razionale siamo in grado di fondarla.
Qualcuno, ad esempio, potrebbe obiettare perché mai solo le cose che abbiamo amato sfuggano alla morsa del tempo e godano di una vita perenne; e non, ad esempio, anche quelle che abbiamo odiato o avversato profondamente.
In linea di massima, l'obiezione è giusta: sono i grandi sentimenti che producono quelle particolari vibrazioni dell'essere, che conferiscono una esistenza perenne, atemporale, agli enti sui quali si riversano; solo le cose che ci lasciano indifferenti non producono alcuna risonanza e, pertanto, scivolano definitivamente nell'oblio.
Bisogna tuttavia tenere presente che l'essere nasce da un atto primordiale di amore; che l'intero universo, dalle galassie al filo d'erba, ha avuto origine da una formidabile espansione di amore; che solo l'amore è in grado di creare nel vero senso della parola: perché è un accrescimento dell'essere, dunque una promozione di esistenza, che si tratti di un'opera d'arte o di uno slancio di bene puro e disinteressato.
L'odio ed i sentimenti affini mobilitano, bensì, le nostre forze profonde, e mettono in opera una intensa vibrazione dell'essere; ma si tratta, appunto, di un fenomeno puramente negativo, di un movimento distruttivo che tende ad autoeliminarsi.
Prendiamo il caso dell'invidia. La persona che nutre invidia per qualcuno, riversa su di lui tutta la sua malevolenza, perché lo tormentano i demoni della insoddisfazione di sé e della scarsa stima che nutre nei propri confronti. Tutto questo nasce da una privazione, da una deficienza di essere, non - come nel caso dell'amore - da una sovrabbondanza; e la deficienza di essere è una tendenza al non essere; un "vuoto", non un "pieno".
Sarebbe illogico pensare che il non essere produca qualche cosa di permanente; è evidente che solo ciò che possiede l'essere in alto grado, può vincere le limitazioni del tempo e dello spazio. Coloro i quali dicono che l'amore ci trasporta in una dimensione magica, non sanno - generalmente - fino a che punto hanno ragione, e come le loro parole si devono intendere in un senso non solamente poetico e metaforico, ma pressoché letterale.
Amare qualcosa, infatti, significa promuoverne l'esistenza al più alto grado; significa potenziarla in misura straordinaria, fino al punto di conferire ad essa una seconda esistenza, profonda e definitiva, irrevocabile.
Per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti, dobbiamo innanzitutto separare nettamente l'esistenza fisica delle cose dalla loro esistenza profonda.
Ciò che possiamo sperimentare mediante i sensi non è che una piccola porzione della realtà, oltretutto illusoria: il velo di Maya ci separa dall'essenza profonda di essa, e noi ci muoviamo in un mondo di ombre, scambiandole per la realtà "vera".
Come nel caso dei grandi "icerbergs" alla deriva nei mari polari, dei quali emerge una porzione non superiore ad un nono della massa totale, allo stesso modo gli enti cui noi attribuiamo una esistenza materiale indipendente non sono che la parte visibile, effimera e di gran lunga minore, della loro dimensione nascosta, che non è dato esperire con i sensi ordinari, ma con altri sensi: primo fra i quali, il silenzio carico di partecipazione e percorso da intense vibrazioni, ben noto ai mistici di ogni tempo e luogo.
Vi era un ciliegio, nel giardino della casa di fronte alla nostra, che a primavera fioriva tutto e pareva una stupenda nuvola bianca; lo hanno tagliato - per la più meschina delle ragioni: dicevano che "faceva sporco" - e ora sembra che non ci sia più. In realtà, si è sottratto all'occhio del corpo; ma l'occhio dell'anima lo vede ancora; ne gioisce ancora: gli ha conferito una tale sovrabbondanza di essere, che nulla e nessuno potranno mai più cancellarlo.
Ecco, con questo semplice esempio crediamo di aver reso l'idea di ciò che intendiamo, quando affermiamo che le cose e le persone che abbiamo amato, in realtà, non dileguano nel nulla allorché dobbiamo separaci da esse; e che il tempo e perfino la morte non hanno potere su di loro. Nel mondo illusorio delle apparenze, esistono i congedi ed esistono le partenze: ma nell'unico mondo realmente esistente, quello dell'essere, nulla parte e da nulla ci dobbiamo congedare in modo irreversibile, di tutto ciò che abbiamo veramente amato.
Si tratta di incominciare ad esercitare i nostri sensi profondi, la nostra capacità di ascolto, e di non basarci unicamente su ciò che ci dicono la vista, l'udito, l'olfatto, il gusto e il tatto. Nemmeno ciò che ci dice il pensiero razionale è la misura ultima e infallibile del nostro conoscere; e anche se, da Cartesio in poi, tale approccio alla realtà sembra avere acquisito il crisma della infallibilità, i grandi filosofi antichi, primi fra tutti Platone e lo stesso Aristotele, sapevano molto bene che il Logos razionale non è affatto la forma più alta e definitiva di conoscenza.
Sono tutti pregiudizi materialisti e razionalisti, che ci allontanano da una retta comprensione del nostro posto nel mondo e fuorviano la nostra intelligenza, la quale è una funzione molto più ampia del semplice pensiero strumentale e calcolante, sul quale è basata tutta la scienza moderna, e che pretende di identificarsi con la nostra anima.
L'anima, invece, non è uno strumento di conoscenza come un altro; essa si serve anche del pensiero razionale, così come delle informazioni trasmesse dai sensi corporei; ma è, essa medesima, una modalità dell'essere, dunque un soggetto e non un oggetto.
Se, dunque, tute le cose amate esistono per sempre, ci si potrebbe domandare in che cosa consista la differenza tra la loro esistenza nelle nostre menti, sotto forma di ricordo, e la loro esistenza intrinseca, come enti a sé stanti e con carattere permanente. Secondariamente, ci si potrebbe domandare come sia possibile che l'uomo, creatura finita, generi, per così dire, degli enti ontologicamente autosufficienti, destinati a vivere oltre la sua stessa morte.
Alla prima domanda rispondiamo che TUTTO ciò che esiste nelle nostre menti, esiste per sempre: perché le nostre menti sono parte di una Mente infinita; o, se si preferisce, sono una manifestazione dell'Essere. Perciò il ricordo è una cosa, l'esistenza degli enti nella nostra mente è un'altra cosa; il primo si attualizza per mezzo della memoria, la seconda trascende la memoria, così come la cosa contenuta trascende il contenitore cui è temporaneamente legata.
A questo duplice tipo di esistenza degli enti, generalmente si suppone che se ne debba aggiungere un terzo: le cose in se stesse. L'opinione delle filosofie realiste è che l'esistenza delle cose "esterne" sia autoevidente; e, inoltre, che essa sia indispensabile, sul piano logico e sul piano conoscitivo, quale supporto e fondamento di tutto ciò di cui facciamo esperienza.
Tuttavia, entrambe le convinzioni sono assai più opinabili di quanto i realisti non credano. L'autoevidenza degli enti "esterni" è, a dir poco, opinabile: perché, se fossero realmente tali, nulla mai potremmo sapere di essi.. Al contrario, tutto ciò di cui facciamo esperienza, così come tutto ciò di cui possiamo avere una idea, non è mai qualche cosa di "esterno", ma sempre e solo qualche cosa di "interno" alla nostra mente.
Questa finestra, dalla quale si vedono alberi, case e colline, rondini e nuvole, non è esterna alla mente, ma interna: tutto quello che possiamo sapere di essa sono una determinata forma, determinati colori, insomma una serie di impressioni sensoriali. E le impressioni sensoriali non sono di certo al di fuori della mente che le percepisce; opinare diversamente, sarebbe una contraddizione in termini, una impossibilità logica e gnoseologica.
Quanto alla necessità di postulare l'esistenza di una realtà esterna, fatta di cose, di luoghi e situazioni che stanno fuori di noi, quale fondamento di quella realtà interna che noi conosciamo attraverso la nostra mente, ci sembra che tale supposta necessità costituisca una conclusione maggiore della premessa.
La premessa è che noi, all'interno della nostra mente, prendiamo conoscenza di una serie di cose; la conclusione sarebbe che quelle cose "devono" esistere anche fuori, altrimenti non si capisce da dove verrebbero le nostre conoscenze. Ma la conclusione è maggiore, e non dimostrata, perché esistono altre maniere, più semplici, di spiegare l'origine delle cose che noi conosciamo e che, impropriamente, chiamiamo realtà esterna.
Secondo la ben nota teoria del "rasoio" di Ockham, bisogna evitare di moltiplicare inutilmente gli enti, poiché l'essere tende alla semplicità. Ora, ciò che i realisti fanno è di duplicare ogni complesso di percezioni della nostra mente, sdoppiandolo in un oggetto "interno" (le sensazioni della nostra mente) ed in uno "esterno" (gli oggetti in se stessi). Questo significa moltiplicare a dismisura il numero degli enti; e, per giunta, attribuire loro una esistenza fisica e materiale, che non è punto necessaria nell'economia generale della nostra percezione del mondo.
In verità, è più che sufficiente immaginare che vi sia UNA sola mente, la quale pensa TUTTI gli enti del cosiddetto mondo esterno; e che li pensi DENTRO le menti finite (non solo umane, ma anche non umane). Questa è, a un dipresso, la concezione del filosofo George Berkeley; e, per quanto ci risulta, non è mai stata realmente confutata, benché irriti moltissimo i realisti i quali si sono sforzati, e si sforzano, di confutarla in ogni modo.
Si dirà che la posizione qui sostenuta è di un tipo platonico estremo; perché nn solo affianca ad ogni oggetto "reale" un oggetto ideale, del quale il primo sarebbe solo una copia sbiadita e imperfetta; ma nega addirittura che vi siano degli oggetti reali esterni, riducendo tutti gli enti a pensieri dell'Essere, che li pensa nelle menti finite e, forse, anche fuori delle menti finite, ossia direttamente in se stesso: sicché un albero continua ad esistere anche quando nessuno lo vede, per il semplice fatto che lo sta pensando, e quindi "vedendo", la Mente infinita dell'Essere.
Sì, è proprio così.
L'esistenza di un mondo esterno non è affatto necessaria per spiegare l'origine delle nostre percezioni; e meno ancora lo è l'esistenza di un mondo fisico.
A questo punto, apparirà forse più chiaro quel che abbiamo sostenuto all'inizio della presente riflessione, e  cioè che le cose e le persone che abbiamo amato non dileguano nel nulla con la nostra separazione da esse; e che il tempo e la stessa morte non hanno potere su di loro.
Le cose che esistono, esistono in noi, perché originate dall'Essere; e noi continueremo ad esistere, in una modalità diversa dall'attuale, così come esistevamo prima di nascere, perché tutto ciò che esiste, che è esistito e che esisterà, è parte dell'Essere; e l'Essere non conosce nascita e morte, non conosce separazione, non conosce cambiamento.
Noi siamo parte dell'Essere: una scintilla dell'Essere che da esso proviene e ad esso anela a fare ritorno.
E tutto ciò che abbiamo amato è una scintilla di questa scintilla; anch'essa vuole tornare all'Essere, ma non per fondervisi ed annullarvisi, bensì per riconoscervisi e per raggiungere la propria pienezza e la propria suprema realizzazione.