Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Un film al giorno: «Il Maestro e Margherita» di Aleksandar Petrovic (1972)

Un film al giorno: «Il Maestro e Margherita» di Aleksandar Petrovic (1972)

di Francesco Lamendola - 06/07/2009


Dopo «Gabriela» di Bruno Barreto, proseguiamo la rassegna delle co-produzioni italo-straniere con il film di Aleksandar Petrovic «Il Maestro e Margherita», realizzato con capitali italiani e jugoslavi nel 1972, e tratto dall'omonimo romanzo di Michail Bulgakov.
Non è stata certo un'impresa da poco, quella in cui si è impegnato volonterosamente il regista jugoslavo: tradurre sul grande schermo le vicende, complicate e sottilmente allegoriche, del capolavoro dello scrittore russo, è una impresa tale da «far tremar le vene e i polsi» a chiunque; ancora più insidiosa e difficile, se possibile, che trasporre in linguaggio cinematografico l'«Odissea» o il «Don Chisciotte. Crediamo che solo la «Divina Commedia», fatte le debite proporzioni,  presenterebbe difficoltà maggiori.
La critica è stata, nel complesso, assai poco generosa con questo regista che, se non è riuscito a rendere interamente la particolare atmosfera, visionaria ed ironica, e la ricchezza di significati del romanzo (e chi lo avrebbe potuto?), è nondimeno riuscito a coglierne alcuni aspetti essenziali e a renderli in maniera chiara ed efficace, sia pure al prezzo di semplificare alquanto le complesse problematiche del testo originale.
Per il Morandini, il film è «illustrativo e riduttivo (in tutti i sensi del termine), inerte e deprimente», e quasi tutti i critici si sono allineati su questo giudizio.
Ma la valutazione più dura, quasi spietata, è stata quella di Tullio Kezich, che pure - solitamente - appare incline a vedere più i lati positivi che quelli negativi di un'opera cinematografica e che, comunque, si sforza di essere sereno e obiettivo (da T. Kezich, «Il Millefilm. Dieci anni al cinema, 1967-1977», Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1983, vol. 2, pp. 368-69):

«Altro che mostra di Venezia, premio Cidalc e discussioni ad alto livello: questo film, che fa polpette di un capolavoro della moderna letteratura sovietica, merita soltanto di venir segnato sul libro nero. Da un po' di tempo certi cineasti jugoslavi giocano a combinare i "pacchetti" in stile hollywoodiano, mettendoci un po' di tutto, dagli attori stranieri al colore locale, in una chiave di anticomunismo spicciolo rassicurante per i distributori d'oltreoceano. Qui però Aleksandar Petrovic ha sbagliato i suoi calcoli: intorno al romanzo  di Michail Bulgakov, scritto fra il '30 e il '40 ma pubblicato solo nel '66, è sorto rapidamente una specie di culto che non permette sacrilegi. Come ha ben scritto Lucio Lombardo Radice in "Gli accusati" (De Donato editore), l'apparizione del diavolo nella Mosca di quarant'anni fa rappresenta  "l'immaginazione al potere": la fantasia dello scrittore si manifesta in un'audace struttura parodistica, ricca di notazioni sulfuree e di impennate surrealiste, e rispecchia una realtà storica ben viva e dolorosa.  Tradurre in immagini "Il Maestro e Margherita" significava ripercorrere l'itinerario artistico e umano di uno dei maggiori scrittori contemporanei; ma nel film jugoslavo la scottante problematica del film è ridotta  a un aneddoto pettegolo. Lo sventurato Petrovic si comporta come se il libro gli si fosse sfasciato tra le mani e lui ne avesse raccolto le pagine a caso. Il risultato è tanto deprimente che l'hanno contestato tutti, da Tognazzi alla Farmer e allo sceneggiatore originario Ugo Pirro. In una rissa a più voci, che sarebbe piaciuta a Bulgakov, il regista  si è difeso male.»

Una critica non solo ingenerosa, ma anche - quel che più conta, a nostro avviso - viziata da un chiarissimo preconcetto ideologico. Il film di Petrovic non è affatto all'insegna di un anticomunismo spicciolo: la lingua batte dove il dente duole; e, del resto, sono finiti i tempi dei «sacrilegi», quando qualcuno - Boris Pasternak, ad esempio, col «Dottor Živago» - osava trascurare i canoni del realismo socialista.
Quella di «segnare sul libro nero», poi, è un'immagine peggio che infelice: è la prova che lo spirito gretto e intollerante dei censori staliniani, contro cui si scagliava l'eroe tragico del romanzo di Bulgakov (e Bulgakov medesimo) non è affatto morto; e - quando si parla di libertà d'espressione -  è più facile parlare bene che razzolare in modo coerente alle parole. La citazione di Lucio Lombardo Radice e della sua interpretazione della figura del Diavolo conferma questa impressione: perché, parafrasando Baudelaire, il Diavolo non è mai tanto contento come quando gli uomini si affannano a negare la sua esistenza.
Il livore di Kezich - ché, ci duole dirlo, di livore si tratta - trova forse la sua chiave interpretativa in quella espressione scivolatagli dalla penna, laddove definisce il romanzo di Bulgakov «un capolavoro della moderna letteratura sovietica», espressione che avrebbe fatto inorridire il grande scrittore russo: «russo», non «sovietico». E meno male che si tratterebbe della «moderna» letteratura sovietica. Perché, ce n'è stata anche una «antica?»
Certo, è un vantaggio poter giudicare le cose nella prospettiva del terzo millennio, dopo che la caduta del muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica hanno fatto passare la sbornia a tanti, troppi intellettuali nostrani, infatuati dalla ideologia marxista fino al punto di non rendersi conto che vi arruolavano ingenuamente proprio quei capolavori che ne costituivano la critica più corrosiva ed efficace, dato che veniva dall'interno dell'universo del «socialismo reale».
Il fatto, ad esempio,  che il romanzo di Bulgakov abbia potuto vedere la luce solo nel 1966, come lo  stesso Kezich ricorda, non dice proprio nulla al critico così implacabile? Non sa egli quanto tesi e difficili fossero i rapporti fra Bulgakov e Stalin, e proprio su quel tema della libertà dell'arte che sta al centro del romanzo?
Ma lasciamo questa strada e torniamo al fil;  Petrovic non ha voluto confezionare affatto un'opera di anticomunismo spicciolo, né lo avrebbe potuto, nella Jugoslavia di Tito del 1971-72: questo è poco, ma sicuro.
Intanto, cominciamo col dire che Aleksandar Petrovic non è il primo venuto, né, come lo descrive Kezich, un furbetto che strizza l'occhio ai cattivi capitalisti occidentali; ma un signor regista, che ha dato prova del suo valore e della sua profonda originalità in opere limpide e acute, come «Ho incontrato anche zingari felici», del 1967, e «Piove sul mio villaggio», del 1969. Si tratta di un cineasta, pertanto, che aveva tutte le carte in regola per cimentarsi col difficile compito di trasporre sul grande schermo il romanzo di Bulgakov.
Ora, è ben vero che con «Il Maestro e Margherita», servendosi di un cast cosmopolita e usufruendo dei finanziamenti italiani, egli ha inteso rivolgersi anche, e forse soprattutto, ad un pubblico internazionale; questo però non implica - a meno di ripiombare nella sistematica «cultura del sospetto» di sciagurata memoria - una malafede calcolata, quanto semplicemente la legittima aspirazione a farsi notare dalla critica internazionale: quella che conta.
La sceneggiatura, inizialmente affidata a Ugo Pirro, è stata poi realizzata dallo stesso regista, con la collaborazione di Roman Wingarten, Barbara Alberti e Amedeo Pagani (nelle cui mani, secondo Paolo Mereghetti, essa ha perso gran parte dell'atmosfera visionaria e fantastica del romanzo, e tende a ridurlo a un'allegoria sulla repressione degli artisti dissidenti).
Il cast degli attori ruota intorno ai due protagonisti, Ugo Tognazzi nella parte del Maestro e la bionda americana Mimsy Farmer in quella della dolce Margherita, che svolgono egregiamente il proprio ruolo.
Ma anche l'interpretazione degli attori secondari è di buon livello. Il francese Alain Cuny è un efficacissimo professor Woland, ossia il Diavolo in persona, che appare a Mosca nel 1925 e colpisce duramente il filisteismo dei burocrati di partito e del pubblico conformista, svolgendo quasi la parte dell'angelo vendicatore nei confronti degli avversari dell'incompreso e perseguitato Maestro. Vi sono poi alcuni attori jugoslavi che svolgono più che dignitosamente la loro parte: in particolare, Bata Zivoijnovic e Pavle Vuijsic.
Ugo Tognazzi, uno dei migliori attori italiani di tutti i tempi (Cremona, 1922 - Roma, 1990), ha  raggiunto la piena maturità artistica quando impresta la sua fisionomia ormai matura, in questo film di Petrovic, allo scrittore povero e incompreso che si batte inutilmente per vedere rappresentato il proprio dramma teatrale sul processo di Cristo, e incentrato sulla enigmatica figura del procuratore romano Ponzio Pilato.
Il suo senso della misura, la sua pensosità malinconica, i suoi generosi entusiasmi e i suoi cupi abbattimenti, rendono perfettamente l'altalena di sentimenti, speranze e delusioni che caratterizzano la vicenda del Maestro (così chiamato dalla sua innamorata, che gli cuce con devozione un berretto con una bella "M").
In questo film, come - del resto - in parecchi altri, Tognazzi mostra la sua eccezionale capacità di calarsi in personaggi fra loro diversissimi, in questo caso un artista bruciato da un intenso fuoco interiore e che corre incontro alla rovina, per un senso di radicale fedeltà alla propria vocazione di intellettuale.
A cinquant'anni, l'attore cremonese non esita a mettersi in gioco sino in fondo, per uscire dai facili cliché di alcuni precedenti suoi film e, in particolare, per mostrare la solidità della sua stoffa di attore drammatico: una faccia della sua poliedrica personalità d'interprete, questa, che troppo pochi registi hanno compreso e saputo sfruttare adeguatamente.
Certo, è stato più facile utilizzarlo nelle vesti ridanciane e un po' sboccate dell'uomo di mezza età che vuol fare l'eterno ragazzo, come in «Amici miei» o «Il vizietto»; oppure appioppargli ruoli ancora più scadenti, come nella farsa assai poco elegante di «Cattivi pensieri». Ma Tognazzi possedeva una maschera tragica di prim'ordine; e crediamo che il cinema italiano avrebbe tratto giovamento, se vi fossero stati alcuni registi un po' più coraggiosi, capaci di tirargliela fuori, quasi suo malgrado.
Petrovic ci ha provato e, prima ancora, ci ha creduto; e, per quanto lo stesso Tognazzi abbia avuto poi a dolersi del risultato finale della pellicola, non ci sembra che il regista jugoslavo abbia fatto male i suoi calcoli, quando ha deciso di scommettere su questo aspetto della personalità artistica dell'attore italiano.
La Farmer, attrice versatile dal fascino romantico, è brava oltre che bella: il suo sorriso luminoso attraversa tutto il film come una presenza dolcissima, e bene trasmette quell'idea di ingenua sensualità e di infinita amorevolezza che, nel romanzo di Bulgakov, ne fa quasi un simbolo radioso dell'eterno femminino, nella sua accezione migliore (cfr. anche il nostro precedente articolo «Nella parabola del Maestro e Margherita l'incontro felice tra il maschile e il femminile», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Dopo aver interpretato il film di Petrovic, ritroveremo la Farmer in film come «Corpo d'amore» di Fabio Carpi (1973; accanto all'attore Lino Capolicchio), «Allonsanfan» dei fratelli Taviani (1974), «L'amante tascabile» di Bernard Queysanne (1977) e «Antonio Gramsci. I giorni del carcere» di Lino Del Fra; ma, a quell'epoca, il suo momento d'oro era già tramontato.
In pratica, il culmine della sua breve carriera è coinciso con le convincenti interpretazioni ne «Il Maestro e Margherita» ed «Allonsanfan»; anche se, poi, il pubblico italiano ha potuto apprezzarla ancora in alcuni sceneggiati televisivi, tra i quali «Il treno d'Istanbul» (dal romanzo di Graham Greene) e «Martin Eden» (dal capolavoro di Jack London). Peccato: è un'attrice che avrebbe meritato di più, poiché ha mostrato di possedere doti interpretative molto varie, riuscendo bene sia nella commedia, che nel dramma e nel film storico.
Ad ogni modo, la qualità artistica del film «Il Maestro e Margherita» deriva in primo luogo dall'ambientazione veramente magistrale. Quelle vecchie case di legno, le cui prospettive corrono tristemente davanti alla telecamera, come in una dimensione atemporale; quegli interni fatiscenti, dai muri scrostati, dalle scale anguste e male illuminate; quei viali alberati di periferia che, di colpo, sconfinano nella campagna, in una atmosfera perennemente grigia e nebbiosa, sono tutti elementi che, colti da una sapiente fotografia, conferiscono un fascino strano e crepuscolare alla vicenda, trasportandola in un mondo quasi onirico.
La bella colonna sonora, che sottolinea con struggente malinconia i momenti più toccanti della vana lotta del Maestro contro forze tanto superiori - quelle del conformismo, della stupidità e della paura, coalizzate contro di lui - è un altro punto forte della pellicola, che le conferisce uno spessore di autentica poesia.
Infine, gli aiutanti di Woland - in pratica, dei diavoli incarnati - sono realmente inquietanti; e c'è un momento, quando le luci si spengono sul palcoscenico di un teatro moscovita più che mai surreale, in cui lo spettatore prova un brivido di autentica paura, davanti alle loro sghignazzate realmente sataniche.
Certo, si poteva fare di più; ma, lo abbiamo detto, l'impresa era superiore alle forze di un comune mortale. Ci sarebbe voluto un genio: e Aleksandar Petrovic non è un genio; è «solo» (e scusate se è poco, signori critici paludati) un bravo regista che sa il fatto suo, che possiede idee e coraggio da vendere, e che non teme di esporsi, pagando di persona.
Dei tre filoni principali in cui si articola il complesso romanzo di Bulgakov - l'arrivo del Diavolo a Mosca negli anni Venti; il romanzo di Ponzio Pilato; la delicata storia d'amore fra il Maestro e Margherita -, Petrovic ha cercato di non privilegiarne alcuno a danno degli altri; anche se, alla fine, probabilmente ha calcato la mano sul secondo, facendone occasione di dibattito sullo scottante tema della libertà espressiva in un sistema politico totalitario.
Si poteva fare di meglio, ripetiamo; ma, quel che si è fatto, non si è fatto male.