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I limiti del paesaggio

di Luisa Bonesio - 20/03/2006

Fonte: geofilosofia.it


 

 

 

1. Il paesaggio è un’immagine?

La persistenza del paradigma estetico "visibilistico" è stata riscontrabile per lungo tempo nelle disposizioni legislative in materia di protezione del paesaggio, e la si può riconoscere, coerentemente, nelle teorie che identificano il paesaggio con l’identità estetica di un territorio. Esso, rispecchiando appieno l’ambiguità soggettivistica, è impotente (o comunque molto debole) di fronte all’obiezione di difendere una concezione passatista di bellezza (connessa a stili di abitare e di uso del territorio fatalmente obsoleti) a discapito delle logiche effettive di uso dei territori. In positivo, esso non può che condurre alla fissazione dell’immagine estetica dei luoghi, con effetti che vanno dalla imbalsamazione museale a scopo di tutela all’utilizzazione del valore di icona di un paesaggio a fini commerciali, produttivi e turistici, fino alla rappresentazione di identità e tradizionalità inesistenti (dal fienile walser restaurato filologicamente per essere usato come casa di vacanza di prestigio, fino all’estremo, rivelatore, delle ricostruzioni dei mondi passati nelle Disneyworld o a Las Vegas e persino negli ecomusei come Ballenberg). È come se si conservasse la facciata di un edificio il cui interno è stato sventrato o distrutto. Questa logica di conservazione di una mera sembianza estetica, analoga, sotto certi aspetti, a un allestimento museale, crea l’illusione che le esigenze della tecnoeconomia moderna siano compatibili con la salvaguardia di dimensioni residuali della memoria storica e identitaria sotto forma di icone o riserve (parchi, aree protette) tutto sommato rassicuranti, in cui ci si può recare la domenica o in vacanza. Le complesse conseguenze di questa convinzione, perfettamente rispondente alla logica dell’industria turistica come di altre forme di interessi economici, sono state analizzate sia dalla geografia del turismo che dalla geofilosofia, e non vi tornerò in questa sede. Sono ricadute "pesanti", anche se spesso non immediatamente percepibili dalle comunità locali, e per di più con l’apparenza dell’unica e sensata soluzione possibile. Va detto che, a mio parere, la sensibilità e la consapevolezza diffuse, negli ultimi anni, si sono notevolmente affinate e, almeno in Europa, i comportamenti di ricerca e fruizione dei paesaggi appaiono talvolta molto più avvertiti di quanto non siano le decisioni degli amministratori, tendenzialmente smentendo il persistente modello di un paesaggio a macchia di leopardo, in cui potrebbero convivere, fianco a fianco, infrastrutture pesanti e di enorme impatto ambientale e parchi nazionali, aree protette e vincolate con grandi insediamenti turistici. Questo fa sì che la richiesta di deroghe ai vincoli imposti dai parchi con finalità di maggiore fruibilità turistica e insediativa, per esempio, vada spesso di pari passo con il recupero e il restauro di edifici antichi, fienili, terrazzamenti, percorsi, ecc.

Se invece l’identità del paesaggio è pensata come quella realizzata dalla continuità coerente di atti territorializzanti, espressione armonica del peculiare stile di insediamento (e dunque di interazione con la natura) di una cultura (non necessariamente autoctona!), anche la qualità estetica non potrà essere scissa, come un’efflorescenza senza radici, dall’identità culturale. La quale, lungi dal risolversi in fissità difensiva, chiusura automonumentalizzante, municipalismo etnicistico, è piuttosto una riconoscibilità nell’incessante trasformazione, che a buon diritto si può servire dell’idea fisiognomica per alludere alla manifestazione sempre singolare del genius loci, al modo coerente ma sempre rinnovato del mantenersi in accordo con il carattere del luogo che una cultura sceglie di evidenziare. In questa prospettiva "tradizione" e "innovazione" non si collocano in irriducibile antagonismo: la continuità dello stile di una cultura (e dunque del suo modo di produrre-conservare paesaggio) si realizza attraverso innumerevoli atti di trasformazione, adattamento, riassetto; è quella "normale" dinamica nella quale una cultura si perpetua, sintetizzata efficacemente nell’espressione di Cervellati: "la tradizione è un’innovazione riuscita". Il paesaggio come spazio simbolico della comunità insediata è la questione che inevitabilmente si sono posti anche gli urbanisti, in relazione alla progettazione di forme di territorializzazione che non si limitino a una mera criogenizzazione dell’esistente o, per converso, alla nichilistica rassegnazione all’omologazione azzerante. Se il paesaggio è la creazione di un’intera cultura o di un intero popolo, la sua perpetuazione e incremento è correlativa a ciò che è stata indicata come "la ricostruzione della comunità". Se "la comunità che sostiene se stessa fa sì che l’ambiente naturale possa sostenerla nella sua azione", il primo requisito per mantenere la peculiarità di un paesaggio è quello di non imporre sul luogo logiche economiche esogene ed estranee, modelli e ritmi di sviluppo che non tengano conto delle peculiarità locali. Come ribadisce il documento preparatorio della Conferenza nazionale per il Paesaggio del 1999, "per evitare indebiti appiattimenti, occorre far comprendere con assoluta chiarezza che il paesaggio è specificità, è differenza, è localismo. Non sono dunque ammissibili disinvolte operazioni di trasferimento a diversi contesti di soluzioni che vanno cercate di volta in volta sulla base delle singolarità delle situazioni da trattare".

È a partire da queste motivazioni che da più parti si è iniziato a riscoprire la centralità del senso del luogo, di cui il paesaggio è la manifestazione più visibile (anche se non tutta immediatamente visibile), come coappartenenza di territorio e comunità degli abitanti, ma anche di tutta una serie insopprimibile (pena la virtualizzazione del paesaggio) di dimensioni, dalla memoria e tradizionalità – dunque il rapporto con gli ascendenti – agli aspetti della conformazione naturale ed ecologica, alle simbolizzazioni rituali e sacrali depositate come segni nel territorio, alla responsabilità verso i venturi. La fisionomia di un luogo, la sua coerenza espressiva sintetizzata in quella complessa unità di senso simbolico ed estetico che chiamiamo paesaggio è stata, a buon diritto, identificata tramite l’immagine del genius loci o del carattere individuale del luogo. L’idea che una vera e propria personalità si esprima nel paesaggio è utile a comprendere il significato e l’importanza della coerenza che ogni atto territorializzante deve possedere per non essere aggressivo e potenzialmente dissolutore dell’unità espressiva del luogo. Quando una serie di interventi inopportuni, disordinati, dissonanti si attua sul territorio, esso finisce in una progressiva illeggibilità e disorganizzazione che si ripercuote come impossibilità di riconoscimento da parte della comunità, con effetti di ulteriore degrado, incuria, vandalismo ma anche disgregazione e malessere sociale. Gran parte della responsabilità del degrado o della distruzione irreversibile prodotti sul territorio ricade proprio sull’ideologia dell’indiscutibile primato di un’economia concepita come redditività immediata, incurante e miope degli effetti a lungo termine, e sulla convinzione che rispetto alla centralità del suo valore non sia possibile porre limiti reali, tanto meno quelli legati a significati apparentemente immateriali come la bellezza o la conservazione della memoria.

L’importante contromovimento di consapevolezza e riflessione di questi anni, invece, riscopre l’esistenza di un nomos intrinseco nel luogo, ossia un insieme individuabile di invarianti che costituiscono quello che gli urbanisti chiamano lo "statuto del luogo": una griglia di caratteristiche che definiscono l’irriducibile singolarità, la fisionomia propria di un luogo, la sua specificità differenziale, la sua cifra espressiva. Sono caratteri non riducibili alla pura sembianza estetica, che ne è, casomai, la modalità in cui ne leggiamo l’attuazione culturale e storica. Non va dimenticato, infatti, che uno stesso "territorio", medesimo quanto a morfologia, dati climatici, vegetazione, struttura geologica, ecc., può essere interpretato in modalità diverse da culture differenti: i "dati oggettivi" del territorio geografico costituiscono delle condizioni di possibilità che possono venire, entro certi limiti, selezionate, realizzate o sottolineate diversamente a seconda della cultura che le assume come proprio "paesaggio materno". Il che ricorda opportunamente come termini (e concetti) come "territorio", "ambiente", "paesaggio" non siano affatto sinonimi; in particolare, come vada evitata la riduzione del "paesaggio", che è sempre una costruzione culturale, all’"ambiente", che ne è la condizione di possibilità naturale ed ecologica. Il che comporta anche la parzialità di ogni riduzione alla pura dimensione ambientale o ecologica della conservazione e/o valorizzazione del paesaggio.

Ma se tutti i luoghi esprimono, in misura e riconoscibilità diverse, un’identità, allora il concetto di paesaggio non può che ampliarsi da un’accezione estetica ristretta e alta, che identifica salienze eccezionali, alla designazione di ogni realtà territoriale, riconoscendone la specificità. Se non tutti i luoghi posseggono, evidentemente, le stesse qualità estetiche, tutti, almeno in linea di principio, esprimevano identità culturali locali, meritevoli di essere conservate e trasmesse. Paesaggi di diversa consistenza simbolica, identitaria ed estetica, ma tutti "teatro" di comunità degne di potere continuare a riconoscersi nella fisionomia, impressa lungo il tempo, nel proprio luogo. Quando si verifica una polarizzazione del valore estetico-paesaggistico su alcune località eccezionali, si diffonde l’idea che le altre non siano meritevoli di cura, attenzione, preservazione o potenziamento della propria identità paesaggistica, facendole così degradare progressivamente a "nonluoghi", a territori di pura destinazione funzionale.

Questa direzione di estensione del concetto di paesaggio a tutti i luoghi, che supera l’accezione vedutistica e visibilistica di certo riduzionismo estetico verso un concetto di paesaggio come luogo ed espressione insopprimibile dell’identità culturale, si trova espressa a chiare lettere nella Convenzione sul Paesaggio (2000) del Consiglio d’Europa, che distinguendo tre categorie di paesaggio (i paesaggi "eccezionali", i paesaggi "degradati", i paesaggi "del quotidiano"), opera il passaggio da una concezione puramente vincolistica, adottata normalmente per la tutela dei paesaggi "eccezionali", ma problematicamente applicabile ad altri, ad una progettuale, di miglioramento o di gestione di tutti i luoghi, compresi quelli della quotidianità o della produzione. E questo perché "ogni paesaggio rappresenta un quadro di vita per la popolazione interessata; esistono complesse interazioni tra i paesaggi urbani e quelli rurali; la maggior parte degli europei vive nelle città (grandi o piccole) e la qualità paesistica di queste ultime incide profondamente sulla loro esistenza; infine, i paesaggi rurali rivestono un ruolo importante nella sensibilità europea". Il riconoscimento dell’effettiva differenziazione delle caratteristiche locali, non riconducibili a un metro comune, induce a prefigurare "politiche" flessibili, al di là delle misure vincolistiche per aree specifiche, che si occupino progettualmente e responsabilmente del paesaggio espresso in tutti i luoghi o del suo recupero e miglioramento. Questa impostazione presuppone l’esplicito e forte richiamo, nell’art. 5 delle "Misure generali", a riconoscere il paesaggio come identità culturale: "Ogni parte si impegna a: a) riconoscere giuridicamente il paesaggio come componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, come espressione della diversità del loro patrimonio comune culturale e naturale e come fondamento della loro identità; b) definire e mettere in opera politiche del paesaggio finalizzate alla protezione, la gestione e la pianificazione dei paesaggi attraverso l’adozione delle misure particolari individuate dall’art. 6.; c) elaborare procedure di partecipazione pubblica, delle autorità locali e regionali, e di tutti gli attori interessati al concepimento e alla realizzazione delle politiche del paesaggio summenzionate; d) integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione territoriale e urbanistica e nella politica culturale, ambientale, agricola, sociale ed economica, così come in altre politiche dagli effetti diretti o indiretti sul paesaggio".

Questa importante riconcettualizzazione di come vada inteso il "paesaggio" consente di evadere dall’alternativa inaccettabile tra congelamento e museificazione da un lato, e dall’altro libera (il più delle volte arbitraria) iniziativa e manomissione del territorio, chiamando le parti in causa a una articolata responsabilità della gestione e degli interventi e finalmente riconoscendo ai singoli paesaggi l’unitarietà non scomponibile in logiche differenziate, ma tale da richiedere una visione che non perda mai di vista il fatto che il "senso" di un luogo o la fisionomia paesaggistica per mantenersi tali richiedono una visione e una gestione unitaria, e non puntiforme e irrelata.

2. Chi sono gli abitanti?

Se il paesaggio viene definito come manifestazione e quadro di vita di una cultura e non mera patinatura estetica proiettata da un osservatore esterno, trasmissibile nella sua concretezza e nel suo valore simbolico e identitario grazie alla partecipazione a una trama di memoria, valori e tradizionalità ininterrotte, identificando negli abitanti e negli appartenenti alla comunità locale i principali e normali produttori e conservatori della territorialità, in un’epoca in cui la tradizione è stata in tutto o in parte interrotta, i linguaggi comunitari e le sapienze locali si sono perduti, impoveriti o sono diventati inintelligibili e la residenzialità ha assunto forme e temporalità estranee alla sostanziale stabilità del mondo rurale, occorre interrogarsi sulla nuova figura dell’abitante che esprime la sua appartenenza al luogo. Per certi aspetti, l’appello heideggeriano alla considerazione dell’abitare come luogo della convergenza di terra e cielo, mortali e divini, che ne identifica il senso ontologico, oggi è più che mai problematico; né, d’altra parte, è possibile sempre riconoscere negli abitanti locali i portatori di consapevolezza identitaria e di responsabilità e cura del proprio patrimonio paesaggistico e memoriale. Al contrario, molto spesso si verifica che la richiesta di protezione e conservazione dei beni architettonici e paesaggistici provenga da soggetti esterni, e non solo a scopo di valorizzazione e sfruttamento turistico. La crescente mobilità lavorativa e residenziale, d’altra parte, è un potente agente di delocalizzazione, assieme alla complessa dislocazione delle attività produttive, che lacera l’originario tessuto territoriale e ne scompone la percezione e l’uso, facendone smarrire l’unità profonda a favore di percorsi accentuatamente funzionali.

In questo contesto epocale, nondimeno, si assiste a una crescente domanda di "orizzonte", di luoghi concreti e riconoscibili in cui l’abitare ritrovi almeno le sembianze di una domesticità perduta, di una Heimlichkeit che talora assume il carattere di una nuova consapevolezza e ricerca di identità. Crescenti esperienze di riuso e restauro di borghi rurali, abbandonati a seguito della fase più devastante dell’industrializzazione, esemplificano la tendenza, anche da parte di "cittadini", a costituire nuove comunità che trovano nei caratteri locali la loro ragion d’essere. È una sorta di progetto di appartenenza elettiva, che prescinde da ragioni anagrafiche o professionali, a un luogo di cui si riconosce il nomos, valorizzandolo e ricostituendone, per quanto possibile, la significatività, riattivandone la memoria, i saperi, le pratiche virtuose, gli stili edilizi, le pratiche agricole, i simboli e i percorsi della ritualità e della religiosità, ecc. Non più un "dato", come nel passato, una provenienza o una condanna, oggi il luogo diventa, in un mondo in cui drammaticamente prevale il deserto dei non-luoghi, una meta cui tendere, uno spazio di senso che deve essere riconquistato attraverso un progetto e una consapevolezza spesso difficile da ridestare. "Nella contemporaneità […] la pratica della cura e della conoscenza del luogo scardina totalmente l’alternanza fra insiders e outsiders. […] Gli insiders (gli interni, quelli che risiedono da tempo in un luogo) possono essere delocalizzati, possono cioè non intessere nessuna relazione conoscitiva e attiva che rimetta in gioco le valenze di rappresentatività e di valore simbolico, mentre gli outsiders (gli esterni, coloro che arrivano da fuori, da lontano, residenti da poco, o semplicemente imprenditori che non vivono nel luogo) possono interpretare vantaggiosamente le potenzialità locali". Il che equivale a riconoscere che l’agire secondo una logica localizzata, prendendosi cura di un territorio, non coincide più necessariamente con l’essere "locali" in senso anagrafico; piuttosto "si tratta di coloro che riconoscono i molteplici valori di un luogo, e per questo lo amano (sono disposti a creare con il luogo stesso una relazione densa di significato), e di conseguenza se ne prendono cura. Il luogo oggi esiste solo dove è curato, indipendentemente dal tipo di proprietà a cui è sottoposto: non sono gli insiders e gli outsiders che possiedono il luogo, ma solo chi lo cura, chi lo conosce, chi continuamente lo riproduce, interno o esterno alla comunità insediata".

Così, riconoscere che i paesaggi oggi tornano a essere scoperti e valorizzati come espressione di identità culturali, è prendere atto di una obsolescenza o comunque insufficienza) ermeneutica del paradigma produttivo, dovuta anche allo scollamento progressivo della "base" economica rispetto ai paesaggi locali. "Mentre perdeva terreno in questa sua dimensione produttiva e conseguentemente anche nella sua funzione di strumento analitico, il paesaggio preparava la sua rivincita sul piano dell’identità culturale, come insieme di rappresentazioni e di immagini condivise e sempre più necessarie. […] Il nuovo paradigma descrittivo, coniugando globale e locale, deve saper dare una risposta tanto all’esigenza di connessione, quanto all’esigenza di coesione, ovvero di identità. È per questa via che i paesaggi diventano un patrimonio da conservare e come tali acquistano una nuova oggettività, o meglio concretezza".

Quella che ho chiamato "la comunità di paesaggio" appare dunque come il prodotto di una complessa interazione di fattori: il "prendersi cura", la riattivazione della memoria e della sua trasmissione, in cui un aspetto centrale è quello della riscoperta di modalità accorte e rispettose di usare le risorse, la individuazione e la assunzione delle "invarianti" che costituiscono lo "statuto" del luogo, e dunque l’attuazione o il ripristino di uno stile di territorializzazione coerente con la fisionomia del luogo e la sua sostenibilità ambientale e culturale. È evidente che, soprattutto in società che hanno perduto i riferimenti e gli orientamenti tradizionali e le simboliche in grado di costituire un tessuto condiviso di significati, all’individualità (identità) di un luogo si accede ormai, per lo più, attraverso un cammino di ricostruzione della "biografia territoriale", della sua perduranza, e dunque delle ragioni intrinseche della sua stabilità dinamica lungo archi temporali molto lunghi, di contro alla rapidissima trasformazione e caoticizzazione contemporanea del territorio che ne dissolve ogni memoria e consapevolezza del limite costitutivo. Questa attività di ricostituzione dei fili interrotti della memoria locale e territoriale non può non passare attraverso l’educazione, la trasmissione di consapevolezza e di saperi, la condivisione del valore fondativo dell’identità paesaggistica rispetto alla possibilità di una comunità stabile, esperta delle possibilità e dei limiti consentiti dal luogo, in grado di costruire sempre più finemente la sua identità culturale a partire dalla sua appartenenza al luogo condiviso che la ospita.

I limiti del paesaggio: relazione alla giornata dallo stesso titolo, Monte S. Salvatore (Ticino), 3. 10. 2003.



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