L'influenza di Darwin
di Giuseppe Sermonti - 21/03/2006
Fonte: Stefano Serafini
Il 12 febbraio scorso si è celebrato in Roma, presso L’Auditorium Parco della Musica il “Darwin day”, in occasione della ricorrenza della nascita del “profeta”, nato esattamente 197 anni fa, il 12 febbraio del 1809. Il titolo del convegno era “Virus emergenti, capire l’evoluzione per combattere la prossima pandemia”. Sorge immediato l’interrogativo: ma che cosa c’entra la pandemia dell’aviaria con la teoria dell’evoluzione? Francamente niente. Salvo per la considerazione del prof. Dobzhansky (c.1950) che tutto va spiegato nel quadro dell’evoluzione: tutto, quindi anche il virus H5N1 dell’influenza aviaria. Anche il virus si moltiplica, muta e si ricombina e quindi è un allievo di Darwin. In realtà, di Darwin e della sua teoria non si è parlato affatto nel corso del convegno, salvo per farci capire che lo scienziato inglese è così influente che è protagonista anche quando non se ne parla.
Eppure il riferimento a Darwin era pertinente e preoccupante. Il convegno avrebbe dovuto intitolarsi “Aviaria day”, ma sarebbe sembrato un convegno di medicina o di veterinaria, se non di pollicultura. La titolazione a Darwin stava a indicare che si trattava di alta scienza, di argomentazioni teoriche e che così esimi scienziati non erano convenuti nella risonante sala dell’Auditorium per trattare di faccende pratiche, come quella di salvare i nostri polli o proporre vaccinazioni. La corporazione degli scienziati è sempre preoccupata di mantenere il suo livello intellettuale e non cadere nella prescrizione di una modesta ricetta, magari persino utile al genere umano. La soluzione del problema deve passare per l’alta teoria scientifica, perché se fosse un empirico a risolverlo (come Jenner con il vaccino antivaioloso alla fine del settecento), la scienza ne verrebbe screditata e i teorici perderebbero la loro reputazione e i loro sontuosi convegni.
L’immunologia, sviluppata alla fine dell’Ottocento da Pasteur, Koch e Behring, ebbe un secondo periodo d’oro alla metà del Novecento, quando si elaborò la struttura chimica degli anticorpi e il suo rapporto con la natura specifica della risposta immunitaria. Ma ciò corrispose alla perdita di interesse per i problemi pratici. “Per tale lavoro - scrisse il Premio Nobel Sir Macfarlane Burnet – si sta spendendo una immensa quantità di denaro, e sembra che siano in vista interessanti generalizzazioni. Io dubito, tuttavia, che tra i principali scienziati attivi in questo campo ci sia qualcuno in grado di prevedere la più esile possibilità di applicare ‘in pratica’ le conoscenze che raggiungeremo.” Ritengo che oggi, e specificamente nel caso dell’influenza aviaria, si possa ripetere l’ammonimento di Sir Macfarlane Burnet, senza cambiare una virgola. Sappiamo tutto del virus H5N1 dell’influenza degli uccelli, i suoi otto geni, la sua base molecolare, il suo albero filogenetico, le sue varianti, ma non abbiamo la più pallida idea se esso può fare il salto di specie ed adattarsi all’uomo. Se lo facesse non sapremmo proprio come intervenire per tempo, perché nella migliore delle ipotesi occorrerebbero cinque mesi per sviluppare un vaccino. Con le nuove tecniche del campionamento ambientale e della ‘metagenomica’ potremo, secondo la virologa Ann Reid, scoprire nuovi virus dell’influenza e “credo che (il metodo) si rivelerà un nuovo potente strumento per studiarne l’evoluzione”. Lo studio dei virus dell’influenza potrà quindi essere prezioso per la conoscenza dell’evoluzione, e non sarà l’evoluzione di Darwin che sarà preziosa per lo studio dei virus dell’influenza. Credo che l’influenza di Darwin sul problema dell’aviaria avrà l’esito di farci perdere di vista la pratica in onore della grammatica e di presentarci disarmati di fronte all’affacciarsi di una futura pandemia, con la sola risorsa di raccomandarci l’anima al signore e la consolazione che, comunque vada a finire, le regole della ‘lotta per la vita’ di Darwin saranno state rispettate,… anche se il virus dovesse avere la meglio.