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La Innse, il lavoro e la banda del cemento

di Stefano Zoja - 14/08/2009

Per otto giorni quattro operai e un sindacalista si sono barricati su una gru, a 17 metri d’altezza. Lottavano per tenere aperta la fabbrica metallurgica milanese Innse, e hanno spiazzato tutti in questo inizio di agosto. La condizione operaia è tornata a esistere, ora che i media l’hanno lasciata vedere. Ma i significati di questa storia, che dura in realtà da oltre un anno, non finiscono qui.


 

Gli operai sul carroponte
Gli operai sul carroponte
Innsegnano” titolava il Manifesto. Era il secondo giorno della protesta della gru: quattro operai più un delegato sindacale erano saliti su un carroponte della fabbrica milanese di via Rubattino, a 17 metri d’altezza. Sì, c’è da imparare dalla visionarietà e dalla grinta della protesta della gru. Mentre una solidarietà quasi antica cresceva intorno ai capannoni. E non solo il Manifesto ma, per una volta, tutti i principali telegiornali e quotidiani nazionali hanno illuminato la scena della protesta.

 

Ma insegnano, gli operai della Innse, soprattutto quando i riflettori sono spenti. Lo hanno fatto prima del circo del carroponte, quando per 14 mesi, nell’anonimato, hanno presidiato la loro fabbrica, notte e giorno. Hanno fatto la guardia ai capannoni e ai macchinari che Silvano Genta, improvvisato padrone di fabbrica e sicario della speculazione edilizia, avrebbe voluto svendere, sfilando il lavoro – che c’era – a 49 operai. E insegnano ora che il gruppo Camozzi di Brescia ha rilevato la fabbrica, garantendo l’occupazione e il rilancio. Ora le telecamere se ne vanno, il nemico pure, ma loro, gli operai, la fabbrica non la mollano più, anche se il pericolo è passato, anche se l’azienda è salva e i macchinari non li porterà via nessuno. Fino a ottobre, quando la produzione riprenderà, loro staranno lì. Perché, come certa saggezza vuole, “non fidarsi è meglio”.

Ci sono tutti gli anacronismi del caso in questa storia, e forse è per questo che colpisce così. Distanza dal passato, innanzitutto. Il movimentismo operaio è scomparso da tempo, e persino gli operai ci si poteva chiedere se esistessero ancora. Sepolti come soggetto politico e non più pervenuti come corpo sociale. Oggi nella percezione collettiva il lavoro, quando c’è, è precario e immateriale, altro che presse e ruote dentate.

Così, ritrovare delle tute blu e il loro orgoglio, improvvisamente, un giorno d’agosto fuori da una fabbrica metallurgica è stato uno shock per tutti. Quasi fosse una pittoresca improvvisazione teatrale, folklore che ha richiamato anche i media mainstream. Che forse, anche loro disorientati, non hanno avuto i riflessi per capire davvero a chi stavano offrendo il megafono. Vedremo nei prossimi mesi, quando l’autunno della crisi potrebbe ispirare la protesta latente. L’effetto emulazione già s’intravede, come succede per i quattro operai ora sulla torre della “Calci idrate Marcellina” nel Lazio, in esplicita imitazione dei gruisti della Innse.

Area intorno alla Innse
L'area intorno alla Innse
Comunque sia, per molti giorni di seguito gli italiani, stupiti nelle loro case di vacanza, hanno rivisto montare la protesta operaia. Una protesta radicale ma corretta, assai poco aggreessiva se la si confronta con i rapimenti di manager che hanno corso oggi in Francia. Eppure incisiva come in Italia non accadeva da anni.

 

Ma un altro forte anacronismo di questa lotta è rivolto al futuro. Riguarda la speculazione edilizia e la salvaguardia del territorio. C’è una saldatura fra la lotta contro la giustizia sociale e quella per la sostenibilità. Il meccanismo a orologeria che stava per stritolare la Innse aveva origine dalla speculazione edilizia. I terreni su cui l’azienda sorge varrebbero parecchio di più se riconvertiti all’edilizia residenziale e per uffici. Un valore che sarebbe rimasto per intero nelle tasche del rottamatore Genta, della Aedes, l’immobiliare che possiede l’area, e dei futuri costruttori. Oltre che, sotto forma di tasse, nei bilanci del Comune.

Senza voler credere a una rete di interessi tra affaristi e amministratori pubblici, che fin dall’inizio hanno dimostrato un’insolita pigrizia nella difesa di un’azienda di prestigio. Di fatto, Genta aveva il compito di liquidare un’azienda in salute, facendola passare per decotta, in modo da liberare i terreni per l’edificazione. Con l’acquiescienza delle istituzioni.

Il fatto è che speculare sul mattone è oggi molto più redditizio e meno rischioso che gestire un’azienda vera. Nonostante la popolazione italiana sia in calo e le fasce svantaggiate continuino ad avere problemi abitativi, nel nostro paese si costruisce come matti, ben più che all’estero. Soprattutto seconde case e immobili di pregio. I recenti dati di Legambiente sulla cementificazione del suolo italiano (un’area delle dimensioni di Lazio e Abruzzo messe insieme se n’è andata fra il 1990 e il 2005) la dicono lunga sulla lobby degli affaristi a rischio zero. O a rischio ritardato, poiché sempre di speculazione si tratta. Dunque si ottiene un prestito in banca, si rileva un’area più o meno edificabile, vi si costruisce sopra qualcosa e lo si rivende a una cifra molto più alta dei costi. L’eventuale scoppio di bolle immobiliari è un rischio trascurato o comunque distante. Sempre meglio che fare gli imprenditori, comunque, e gestire un’azienda vera, con i mercati così imprevedibili e affollati, e i lavoratori che possono inventarsi proteste strane.

La speculazione edilizia, un po’ come quella finanziaria, è la scorciatoia di oggi e di domani per l’arricchimento facile. E’ il sacrificio di diritti, saperi e opportunità di tanti in nome del vantaggio di pochi. E’ il vassallaggio del pubblico nei confronti del privato. E’ il disprezzo dei lavoratori e del lavoro in sé, quando i soldi si possono fare con i soldi, o attraverso i mattoni e la calce. Il che significa non solo meno natura e territorio. Ma anche meno lavoro, come tutte le volte che un palazzo inutile sostituisce un campo agricolo, oppure una fabbrica.

Era proprio questo il caso della Innse, una battaglia per il lavoro combattuta non contro un padrone tradizionale, un imprenditore magari sfruttatore, ma contri i cementificatori e la rete di poteri che li agevola. Il tutto nella progredita Lombardia, talmente risucchiata dal vortice delle speculazioni (e ora arriva l’Expo), da non sapere più tutelare nemmeno le piccole e medie imprese che l’hanno resa grande in Europa.

 

Gli operai della Innse protestano
Gli operai della Innse protestano
Da non saper più valorizzare un misconosciuto polo d’eccellenza come la Innse: tutt’altro che una fabbrica decotta, ma uno stabilimento, specializzato in lavorazioni complesse, la cui qualità era apprezzata e acquistata in giro per l’Europa. Non facevano scatolette per il tonno alla Innse, ma lavorazioni di precisione, come i giunti che sostengono il ponte di Oresund che unisce Svezia e Danimarca. Anche così si spiega il legame quasi affettuoso dei lavoratori della Innse con i macchinari, i mostri di metallo custoditi nel capannone. Dietro, oltre all’orgoglio di ogni lavoro, c’era la consapevolezza di un mestiere da officina che è quasi un’arte.

 

Ora che questi operai hanno reinventato la lotta, anche ambientalisti e altermondialisti del terzo millennio dovrebbero fare fronte comune. Tanti sarebbero gli interessi condivisi. Non è solo questione di verde e ambiente. Ma anche e soprattutto di quali forme di sviluppo scegliamo. Se crediamo di dover confermare al lavoro un valore nell’emancipazione degli individui, quali mezzi vogliamo rendere ammissibili per il puro fine di fare soldi, e se questo fine possa mai stare da solo. E’ qui che la Innse insegna. Loro, gli operai, si sono garantiti un futuro. Ma anche noi possiamo sperare che la creativa tenacia dell’Innse ci lasci un’ispirazione nuova.