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Ci stiamo mangiando il pianeta

di Rachele Malavasi - 14/08/2009

L’industria intensiva della carne affama i paesi in via di sviluppo, e su scala mondiale determina degli effetti che, a medio-termine, saranno catastrofici per tutti i paesi, industrializzati o meno. Dobbiamo privarcene completamente?


Prelievo del latte con metodi meccanizzati
L’uomo non è un carnivoro, su questo non ci sono dubbi. “Carnivoro” è per definizione un animale che si nutre prevalentemente o del tutto di carne. Questo non significa tuttavia che chi mangia carne abbia un comportamento innaturale. La tendenza alimentare dell’uomo, come degli altri primati, è onnivoro-frugivora. Tutti i primati integrano la propria dieta con proteine animali provenienti da larve ed insetti, e Scimpanzé e Bonobo, i nostri parenti più prossimi, possono mangiare Gazzelle o addirittura individui della stessa specie.

 

Con il passare del tempo, l’uomo ha assunto le caratteristiche di un “carnivoro acquisito”, abituandosi ad un regime dietetico che non gli è proprio. Il graduale aumento nel consumo di carne è dovuto principalmente a fattori sociali, secondo quanto afferma Craig B. Standford, nel suo libro Scimmie cacciatrici.

Il reperimento della carne richiede (o ha richiesto) un forte impegno fisico e mentale; per l’uomo contemporaneo, un impegno in termini economici. Essere in grado di procurare la carne al proprio nucleo familiare significava garantire benessere, quindi la carne ha assunto un valore che va al di là delle sue caratteristiche nutritive. I maschi di Scimpanzè e Bonobo si affermano sulla femmina anche portando i frutti della caccia. Carol Adams, in The Sexual Politics of Meat, osserva come in molte società patriarcali le donne consumino una dieta principalmente vegetariana, mentre gli uomini consumano più carne. Per questo elevato “valore mistico” della carne, nell’antichità e in molte attuali culture tribali l’uccisione di un animale veniva celebrata con un rito sacro in segno di rispetto.

Oggi, purtroppo, sebbene sia rimasta l’abitudine a consumare la carne in maniera sproporzionata rispetto alla dieta onnivoro-frugivora, il senso di rispetto per gli animali di cui ci nutriamo si è perso nella storia. La caccia ha lasciato il posto all’allevamento brado, che a sua volta è stato soppiantato dall’insostenibile allevamento intensivo.

Si stima che il fabbisogno di carne mondiale sia aumentato di 213 milioni di tonnellate negli ultimi 40 anni, arrivando agli attuali 284 milioni. Questo aumento ha coinvolto i soprattutto i paesi in via di sviluppo e si ritiene che entro il 2050 il trend raddoppierà.


Le conseguenze di tale richiesta sono a dir poco ingestibili. Secondo la Fao, gli allevamenti intensivi sono responsabili di 1/5 delle emissioni di gas serra della Terra. Uno studio dell'Istituto Nazionale di Scienze dell'Allevamento Giapponese (2007) ha calcolato che una bistecca di manzo da 1kg equivale, in termini di biossido di carbonio, alle emissioni di una vettura di media cilindrata su una distanza di 250km. Oltre agli impianti dell’allevamento, infatti, c’è da considerare il trasporto degli animali da macellare (tralasciando il lato etico della questione) e dei mangimi ad essi destinati.

Gli allevamenti intensivi, che già nel 1996 producevano il 43% della carne sul mercato, sono in buona parte responsabili dell’inquinamento delle acque, in cui scaricano antibiotici, ormoni, diserbanti ed immense quantità di deiezioni (ricche di azoto e fosforo e quindi responsabili dell’eutrofizzazione). “Solo nel bacino del Po” afferma Roberto Marchesini, docente di bioetica e zooantropologia, “vengono riversate ogni anno 190 mila tonnellate di deiezioni animali”. Negli Stati Uniti, si stima che l’inquinamento organico prodotto dalla zootecnia sia 130 volte maggiore di quello prodotto dalla popolazione umana.

A voler essere franchi, i problemi legati all’inquinamento ed alle emissioni sono l’ultima ruota del carro nella questione “Carne e allevamenti intensivi”, come emerge nel libro di Norman Myers, I nuovi consumatori.

Benchè circa 800 milioni di persone soffrano la fame e la sete, infatti, la stragrande maggioranza dei cereali e della soia vengono destinati agli animali d’allevamento. La conversione delle proteine vegetali in proteine animali determina una perdita vertiginosa della quantità di proteine disponibili all’uomo: per produrre 1kg di carne bovina sono necessari 7kg fra cereali e legumi, 4kg per la carne di maiale e 2kg per quella di pollo. Le proteine che un uomo assume mangiando questa carne sono pari ad 1/5 di quelle che necessarie all’animale stesso. “Il manzo contenuto in un hamburger” afferma Rosamond Naylor, docente associato di economia all'università di Stanford, “equivale grossomodo a cinque filoni di pane”.

Altrettanto sconvolgente è la questione dell’acqua. Per produrre una fettina di manzo da 2,5 etti, in un allevamento intensivo vengono impiegati 800 lt d’acqua (consumi agricoli compresi), pari a quella impiegata quotidianamente ad uso domestico da una famiglia media. Eliminando un solo pasto di carne di manzo alla settimana si risparmiano 150.000 litri di acqua l’anno.

La grottesca realtà dei fatti è che sono proprio i paesi più affamati e assetati (continente Africano a parte), richiamati dai costi esorbitanti della carne, ad esportare la maggior parte dei cereali e soia per l’allevamento. Colombia, Venezuela, Corea del Sud, Malesia, Cina e Filippine ne esportano fra tre quarti e metà della loro produzione. Il Brasile è diventato nel 2005 il primo produttore ed esportatore mondiale di soia. Tutti paesi dove la malnutrizione è un dato di fatto.

Nel triennio 2000-2002 il raccolto mondiale è sceso al di sotto dei consumi ed è stato necessario ricorrere alle riserve cerealicole (che non si toccano per chi muore di fame, ma come conseguenza indiretta per gli allevamenti sì), generando un aumento del 30% del costo del grano e del mais su scala mondiale.

Altra gravissima questione legata all’industria intensiva della carne è l’enorme quantità di terreni necessari per sostenerla. L’allevamento di bestiame occupa il 30% delle terre emerse non coperte da ghiacci , per la stragrande maggioranza occupate da coltivazioni di soia e cerali.

In Brasile il problema ha assunto proporzioni enormi, visto il suo primato di esportatore e produttore di soia (2 milioni e mezzo di tonnellate l’anno). L’allevamento di bovini, secondo Norman Myers, è la causa primaria della deforestazione dell’Amazzonia brasiliana. Il centro per la Ricerca Forestale Internazionale (CIFOR) ha rilevato che le esportazioni di carne dal Brasile sono aumentate del 34%, a carico principalmente della foresta: a questo scopo, nel 2007 ne sono stati abbattuti 2000 km2 in soli 5 mesi.

 


Cause principali della deforestazione in Amazzonia - (rainforests.mongabay.com)
I pochi grandi proprietari terrieri disboscano l’Amazzonia per creare spazio ai pascoli o alle coltivazioni , e spesso vi piantano graminacee delle savane africane, determinando una pericolosa immissione di specie aliene in un ambiente già compromesso. I piccoli proprietari e le popolazioni tribali vengono scacciati dalle proprie terre, le loro case vengono incendiate e sono obbligati a lavorare in condizioni disumane per poter sopravvivere.

 

In Amazzonia viene coltivata ed esportata soprattutto soia, destinata all’alimentazione umana ma soprattutto ai mangimi d’allevamento. Secondo Philip Fearnside, membro dell'Istituto Nazionale Brasiliano per la ricerca sull'Amazzonia, la “piaga della soia” non influenza solo il terreno occupato dalle colture: le multinazionali costruiscono strade e infrastrutture, che permettono l’installazione di basi “temporanee” per una più agibile penetrazione della foresta per tutt’altre attività. I fiumi del bacino del Rio delle Amazzoni brulicano di enormi battelli carichi di soia.

Nel giugno 2007 le quattro”giganti della soia” (le multinazionali Maggi, Cargill, Bunge ed ADM) hanno firmato una moratoria che gli vieta di acquistare per i prossimi quattro anni soia proveniente dalla foresta amazzonica. È ancora poco, ma è un primo passo.

Altri importanti traguardi possono essere raggiunti con una più oculata gestione dei sussidi: alcune aree di foresta amazzonica vengono abbattute al solo scopo di investimento, poiché il terreno nudo, grazie agli incentivi statali per i pascoli e le coltivazioni, vale molto di più di un terreno forestato.

Per arginare il problema degli scarti degli allevamenti, invece, Israele e Corea stanno studiando dei metodi per ottenere energia elettrica dal letame animale.

Sicuramente, il metodo migliore sarebbe quello di ridurre drasticamente il consumo di carne. In un interessante studio di Ravasso e Tettamanti vengono messi a confronto attraverso un metodo molto rigoroso 6 diversi tipi di alimentazione (di cui 5 formulate sulla base di una dieta bilanciata): onnivora con prodotti provenienti da agricoltura/allevamento intensivo; onnivora con prodotti provenienti da agricoltura biologica; vegetariana-intensiva; vegetariana-biologica; vegana-intensiva; vegana-biologica; alimentazione “normale”, l’unica non bilanciata (es. carne 4-5 volte a settimana). Lo studio ha concluso che:

  • Alimentazioni che prevedono allevamenti intensivi sono del tutto insostenibili per l’ambiente (normale; onnivoro-intensiva);

     

     

  • Un’alimentazione vegetariano-intensiva ed una onnivoro-biologica hanno il medesimo impatto, ossia accettabile dal punto di vista ambientale;

     

     

  • L’alimentazione vegana di qualsiasi tipo e vegetariano-biologica sono risultate del tutto sostenibili.

 

 


Si auspica quindi un totale abbandono dell’allevamento a favore di una dieta vegana o vegetariana, o possiamo accettare la condizione di una alimentazione onnivoro-biologica? A dire il vero, i pascoli rivestono un’importante ruolo ecologico. La loro corretta gestione permette la conservazione di alcuni ambienti e di una buona biodiversità animale e vegetale, che sarebbe altrimenti destinata a scomparire. Il sotto-pascolo, conseguenza dell’esistenza di allevamenti intensivi, è considerato un problema da risolvere urgentemente se si vogliono conservare alcuni target di interesse naturale. Infatti, animali allevati allo stato brado e semibrado, che si alimentano nei pascoli, possono controllare l’evoluzione della vegetazione, contrastando l’invasione delle piante arbustive e arboree. Questi spazi aperti sono essenziali per un gran numero di animali: gli avvoltoi, ad esempio, (Capovaccaio, Gipeto, Grifone, ..) hanno bisogno di ampi spazi in cui avvistare le carcasse, cosa impossibile se non ci fossero animali che controllano l’avanzare della vegetazione. Ma sono legati all’ecologia dei pascoli anche l’Aquila imperiale, il Grillaio, il Falco Sacro (tutte specie nelle liste dell’IUCN), il Succiacapre, l’Occhione; farfalle come la Bellago o numerose farfalle dalla coda di rondine (Papilionaceae) e piante come l’Orchis morio (un’orchidea).

 

L’allevamento tradizionale, tra l’altro, permette il rilascio nei pascoli delle feci, che non solo fertilizzano il terreno senza eccessi, ma richiamano insetti coprofagi e quindi tutti gli uccelli e altri animali che se ne cibano.

Più che abbandonare l’allevamento, quindi, sarebbe opportuno escludere completamente quello intensivo, a carico del quale sono la maggior parte dei fattori fin qui discussi, e ridurre drasticamente la quantità di carne della dieta (e soprattutto quella di manzo). Sarebbe anche importante fare attenzione a non acquistare prodotti con soia distribuita da una delle “4 giganti”.

Malthus, noto economista britannico, già due secoli fa predisse: "Arriverà il giorno in cui la pressione demografica avrà esaurito la capacità della terra di nutrire l'uomo". Non sarebbe una grande soddisfazione poterlo contraddire?

 



Riferimenti bibliografici

 

Adams C, 1990. The Sexual Politics of Meat. Continuum Publishing Company, New York.

 

 

Butler R, Amazon Destruction: Why is the rainforest being destroyed in Brazil? rainforests.mongabay.com

Del Re C, Rossi R, 2002. Zootecnia, pascoli di montagna, biodiversità, aree protette. VII Conferenza Regionale sull'Ambiente "LA TOSCANA E L'AMBIENTE”. Strategie per la sostenibilità e integrazione delle politiche: Sessione Ambiente e Agricoltura. Firenze.

 

English Nature, 2005. The Importance of Livestock grazing for Wildlife Conservation. www.english-nature.org.uk

 

Mariani L, Bocchi S, Boschetti M, Casarini R, Stima della produzione dei pascoli alpini con tecniche modellistiche e di remote sensing. www.agrometeorologia.it

 

Myers N, Kent J, 2004. I nuovi consumatori

Paesi emergenti tra consumo e sostenibilità. Edizioni Ambiente 2004.

 

Moretti N, 2005. L’essere carnivoro: espressione culturale e privilegio di classe. www.essereemangiare.it

 

Moriconi E, L'allevamento intensivo e le conseguenze su ambiente e animali. www.oltrelaspecie.org

 

Ravasso R, Massimo Tettamanti, 2005. Ecologia della nutrizione. Valutazione dell’Impatto Ambientale di diverse tipologie di alimentazione. SCM, Torino.

 

Stanford C, 2001. Scimmie Cacciatrici, pp 254. Longanesi, Milano.