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Volontà di pace e perdono delle offese: eredità viva del cristianesimo nel mondo attuale

di Francesco Lamendola - 17/08/2009


A forza di denunciare gli errori dell'etnocentrismo, gli Europei rischiano di cadere nell'eccesso opposto a quello della cultura dominante nei decenni trascorsi: ossia per buttare via il bambino insieme all'acqua sporca, negando o ridimensionando ingiustamente gli aspetti positivi della propria civiltà nel contesto della storia mondiale.
L'atteggiamento degli intellettuali che si autodefiniscono progressisti è esemplare, in tal senso, specialmente a proposito del cristianesimo, che essi tendono a liquidare in blocco come un lungo errore finalmente superato, e come il cavalo di Troia di ogni aggressione colonialista e imperialista perpetrata dall'Occidente a danno degli altri popoli e culture.
A tale piatto conformismo si uniscono, oppure lo assecondano, tacendo, tutti coloro i quali avvertono la povertà culturale e la meschinità morale di questa brutale semplificazione, ma non osano levare una sola voce di dissenso, per paura di essere considerati simpatizzanti - occulti o palesi - del cristianesimo; e, di conseguenza, di vedersi relegati nella riserva Sioux dei relitti storici, di quell'oscurantismo che la trionfante modernità si sta lasciando alle spalle, in nome delle «magnifiche sorti e progressive» della Ragione.
Per quanto riguarda, poi, il dibattito interno al cristianesimo, ad esempio sulla questione missionaria e, in genere, sui fenomeni socio-economici e politici relativi alla globalizzazione, è più che evidente che tutte le simpatie degli intellettuali politicamente corretti vanno alle posizioni di tipo estremista imparentate, da vicino o da lontano, con il marxismo: ideologia sconfitta sul suo stesso terreno, che tenta ora di riciclarsi, penetrando nell'ultimo ridotto ancora in grado di issarne la bandiera, la Chiesa cattolica (cfr. il nostro precedente articolo: «L'ultima cittadella marxista-leninista si trova all'interno della Chiesa cattolica?», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Non piacciono, invece, ai nostri «liberal» che hanno nello zaino tanto i Pontefici Massimi della Vulgata marxista, quanto Bill Clinton e Barak Obama, quelle posizioni cattoliche le quali, nemmeno al tempo in cui l'«ondata rossa» pareva irresistibile, non sono mai venute a compromessi col marxismo, ma hanno sempre tenuto fermo a una visione del mondo che si distingue nettamente, e si presenta anzi come radicalmente alternativa, sia al capitalismo di rapina, sia al comunismo a base di gulag e «purghe» di vario genere, in nome di una dottrina sociale che trova la sua ragion d'essere in un fermo richiamo ai valori evangelici.
Fra queste posizioni - che, da sinistra, di solito vengono chiamate «conservatrici», se non addirittura «reazionarie», in base all'errore di fondo di voler giudicare il dibattito interno al mondo cristiano con gli stessi identici parametri di riferimento delle ideologie laiche, cosa sommamente fuorviante - si trova certamente anche quella di Piero Gheddo, una delle figure più note del mondo missionario cattolico.
Non intendiamo, peraltro, impegnarci qui in una discussione sull'insieme delle posizioni teoriche di padre Gheddo riguardo ai problemi della fame, della povertà, dello squilibrio Nord-Sud, della globalizzazione, anche perché pensiamo di farlo in una apposita sede, non appena ne avremo l'occasione.
Né ci interessa contrapporlo a padre Alex Zanotelli, come figure paradigmatiche di un cattolicesimo conservatore ed uno progressista; tanto più che - somma scorrettezza politica, di cui ci vantiamo - nutriamo ammirazione e rispetto per entrambi: per il primo, in quanto esempio di coerenza e di tenacia nel difendere una certa idea del rapporto fra la Chiesa cattolica e le sfide della modernità; per il secondo, per la capacità di farsi ultimo tra gli ultimi, condividendo la sorte disperata degli abitanti della dantesca bidonville di Nairobi.
In questa sede, vorremmo semplicemente sviluppare una riflessione, anzi, un dato di fatto, che padre Gheddo, nel corso dei suoi numerosissimi viaggi missionari (oltre un centinaio, nell'arco di circa mezzo secolo di attività) ha avuto modo di verificare, in merito al ruolo svolto dalla presenza cristiana, in posizione di esigua minoranza, all'interno di numerosi Paesi dell'Asia odierna: nel caso specifico, in Indonesia, il gigante musulmano a livello mondiale.
Ecco le sue parole (da: «Missioni francescane», n. 6, giugno-luglio 2009, p. 15):

«Nel 2003 nell'isola di Sumatra i missionari saveriani mi hanno fatto visitare varie zone dell'entroterra dove era in corso la guerriglia fra le diverse etnie, tutte musulmane, che combattono per il controllo di acque, terreni e commerci. Nei comitati di pacificazione governativi formatisi per riunire i capi tribù e i capi-villaggio delle zone di conflitto, su cinque componenti quasi sempre c'erano e ci sono tuttora, almeno due cristiani.
Ho chiesto a un funzionario del Ministero degli Interni il motivo di questa stranezza in un'isola in cui il 95% della popolazione è di religione islamica. Mi ha risposto: perché voi cristiani avete un principio di cui anche noi avremmo bisogno, che è il perdono delle offese ricevute, mentre per noi la vendetta è sacra. Le vostre comunità lo vivono, i vostri vescovi e mezzi di informazione ne parlano. Accennava poi ad altri tre valori testimoniati dai cristiani:  l'universalismo e quindi il superamento di ogni tribalismo e razzismo per motivi religiosi; lo spirito di gratuità nelle opere caritative ed educative, l'atteggiamento nei confronti delle donne, alle quali è riconosciuta pari dignità rispetto all'uomo. »

Bene: ecco qui abbondane materiale di riflessione per credenti e non credenti, pur che si possieda un minimo di imparzialità e di obiettività nel porsi di fronte alle questioni sollevate (mentre, purtroppo, si osserva sovente che numerosi intellettuali laici, quando anche soltanto si nomina il cristianesimo, assumono un atteggiamento di viscerale avversione, che ricorda in tutto e per tutto quello da essi deprecato nei loro avversari ideologici… di quattro o cinque secoli fa, vale a dire ai tempi della Santa Inquisizione).
Punto primo: là dove i cristiani sono una piccola minoranza in mezzo ad altre religioni, e specialmente a una delle più aggressive e intransigenti sul piano dei rapporti interconfessionali, ossia l'islamica, essi appaiono in grado, a detta dei loro stessi vicini non cristiani, di svolgere un prezioso ruolo di mediazione e pacificazione nei conflitti locali.
Tale capacità viene fatta derivare, sempre dai non cristiani (nel caso specifico, dal Ministro degli Interni dell'Indonesia, lo Stato musulmano più esteso e più popoloso che vi sua al mondo), dai seguenti quattro elementi:
1) la pratica evangelica del perdono delle offese, fulcro del più importante discorso di Gesù, quello chiamato «della montagna»; mentre presso numerose altre religioni e culture, il principio che è giusto vendicare le offese viene non soltanto ammesso, ma innalzato a dignità di dogma, che sarebbe disonorevole non applicare ogni qual volta se ne presenti la possibilità;
2) l'universalismo, che porta a superare e a rifiutare  ogni barriera di razza, di cultura, di religione: tipico caso, l'atteggiamento dei cristiani dell'India nei confronti dei «fuori casta», illustrato in maniera esemplare dall'opera di Madre Teresa di Calcutta;
3) lo spirito di gratuità nelle opere caritative ed educative, ossia in quella forma di partecipazione e condivisione che da noi si chiama, solitamente, «volontariato»: uno spirito di gratuità che, pur non essendo appannaggio esclusivo della morale cristiana (e pur non essendo praticato, ovviamente, da tutti i cristiani: del resto, cristiani non si nasce, ma si diventa), è tuttavia assai raro al di fuori di essa, come ammettono per primi i non cristiani;
4) il riconoscimento della pari dignità fra uomo e donna, che non si trova, in via teorica o in via di fatto, né nell'ebraismo, né nell'islamismo, né nell'induismo, ossia nelle grandi religioni monoteiste (anche l'induismo è un monoteismo, e sia pure mascherato allegoricamente dietro una ricchissima facciata politeista); ma, semmai, in alcune società premoderne dell'Africa, dell'Asia e dell'America indigena.

Sono elementi fondamentali per la convivenza pacifica e per l'armonioso funzionamento della vita associata, tanto in un contesto tribale, come quello dell'isola di Sumatra, quanto in una grande metropoli post-moderna, e specialmente nei suoi quartieri più poveri e «a rischio», quale potrebbe essere Il Cairo o Bombay, Singapore o San Paolo del Brasile.
Pur con tutti i suoi errori e le sue infedeltà, il cristianesimo (e distinguiamo qui, una volta per tutte, il cristianesimo dalla cristianità, allo stesso modo che è giusto stabilire una distinzione fra l'ideale e la realtà concreta), ha saputo incarnare e sostanziare questi quattro principi qualificanti, che fanno la differenza tra un mondo in lotta perpetua di tutti contro tutti, e un mondo che si sforza di cercare - sempre faticosamente, a volte senza successo - le vie del dialogo, del compromesso nell'accezione positiva del termine, della pacificazione.
Non è cosa da poco; anzi, è cosa notevolissima: e i nostri intellettuali «progressisti», sempre pronti a sparare a zero ogni qual volta si parla anche soltanto di sfuggita del cristianesimo, quasi scattasse in loro un rabbioso riflesso condizionato, dovrebbero avere l'onestà di riconoscerlo e di rendergliene atto, al di là del giudizio che essi ritengono di dover dare sul ruolo svolto dalla religione cristiana e dalla sua visione del mondo,  in altri ambiti e in altre prospettive.
Siamo arrivati, infatti, all'assurdo: che i non cristiani riconoscono la presenza, nella testimonianza di vita delle comunità cristiane fuori dal mondo occidentale, di quelle doti di umanità, benevolenza e mitezza, che gli intellettuali occidentali, nel loro furore iconoclasta, non sono disposti ad ammettere, dicendo di non averle mai osservate.
Intendiamoci: il paradosso si può - ma solo in parte - spiegare, riconoscendo francamente che altra è la testimonianza di vita di una comunità cristiana minoritaria, e per di più povera, dell'India, dell'Indonesia o del Ruanda; ed altra è la testimonianza di vita di una presuntuosa e benestante maggioranza cristiana nei Paesi dell'Occidente. I sacerdoti di ritorno in Europa dopo lunghi soggiorni all'estero, fra le comunità povere del Terzo e Quarto Mondo, sono i primi a segnalare il contrasto stridente, e a ripetere che l'Occidente dovrebbe essere ormai considerato terra di missione, perché solo nominalmente «cristiano».
Tuttavia, lo ripetiamo, non è solo questo fatto a spiegare l'atteggiamento dei nostri intellettuali progressisti e politicamente corretti nei confronti dei valori cristiani; ma lo è soprattutto una prevenzione ideologica che sfiora il fanatismo, e che è arrivata al punto da pretendere che, nella Carta costitutiva dell'Europa Unita, non figurasse alcun accenno alla tradizione cristiana del continente: cosa semplicemente assurda, anche solo da un punto di vista strettamente storico e culturale.
Quegli stessi intellettuali, viceversa, non trovano assolutamente nulla di strano nel perorare caldamente la causa dell'ingresso nell'Unione Europea di un Paese islamico con 80 milioni di abitanti, quale la Turchia, per farsi un'idea delle cui credenziali di laicità e di democraticità basta fare un viaggetto nell'isola di Cipro, da essa invasa nel 1974 e mai più sgomberata: distruzione di chiese, abbattimento di interi villaggi, pulizia etnica e ripopolamento dell'isola con immigrati turchi, filo di ferro e postazioni militari degni della peggiore guerra fredda, che attraversano da un capo all'altro quello sciagurato Paese.
Davvero, ci sembra che l'autocritica dell'Europa, per certe pagine buie delle sue relazioni con le altre culture e gli altri popoli, si sia spinta un po' troppo in là; fino al punto di non voler vedere assolutamente anche quegli elementi che dovrebbero essere, invece, motivo per essa di legittima fierezza.
Ora, se la mitezza cristiana e la cristiana capacità di perdonare le offese rientrano fra tali elementi positivi, ebbene non vediamo perché qualcuno, in Europa, dovrebbe dolersene, a meno che i suoi pregiudizi ideologici non gli abbiano stravolto la capacità di valutare serenamente le cose, al punto tale da vivere non più con i piedi per terra, nel mondo della realtà, ma sospeso in una terra di nessuno, entro una nebbia vischiosa che confonde ogni cosa e non permette più alcuna distinzione (in omaggio al cosiddetto «pensiero debole»!) tra vero e falso, giusto e sbagliato, bene e male.
Con quali risultati, poi, ci sembra che sia sotto gli occhi di chiunque abbia conservato la facoltà di vedere, di confrontare, di riflettere onestamente sulla realtà in cui viviamo.