Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Un film al giorno: «La pacifista», di Miklós Jancsó (1971)

Un film al giorno: «La pacifista», di Miklós Jancsó (1971)

di Francesco Lamendola - 17/08/2009


Gli anni di piombo erano appena cominciati, in Italia, con la tragica esplosione alla Banca dell'Agricoltura in Piazza Fontana, nel dicembre del 1969 (e con le due drammatiche appendici della morte del ferroviere anarchico Pino Pinelli e, più tardi, del commissario di polizia Luigi Calabresi), che già il cinema nostrano si gettava sul fenomeno della violenza politica e si addentrava nei complessi meandri che avrebbero dovuto consentire di separare la contestazione «buona», o quanto meno legittima, perché pacifica, da quella «cattiva», perché violenta.
A misurarsi nell'impari e, probabilmente, prematuro tentativo (la cultura italiana non è riuscita neppure oggi, a quarant'anni di distanza, a fare i conti con quelle vicende; figuriamoci se lo poteva il cinema, per di più a botta calda) non è stato un regista italiano, ma un giovane cineasta ungherese di belle speranze, Miklós Jancsó, che aveva fatto molto parlare di sé, verso la fine degli anni Sessanta, per due o tre film particolarmente apprezzati dalla critica internazionale.
Il tentativo, ad ogni modo, dimostrava un certo coraggio concettuale e avrebbe meritato, forse, un atteggiamento più comprensivo e meno arcigno di quello che la critica nostrana si affrettò a cucirgli addosso, stroncandolo impietosamente.
La vicenda è relativamente semplice.
A Milano, una giornalista televisiva con forti simpatie per la sinistra extraparlamentare, una certa Barbara (interpretata nel film da Monica Vitti), si interessa alle complesse vicende della contestazione, finendo per essere minacciata da un gruppo terroristico di estrema destra, capeggiato da uno Straniero (D. Olbrychski), del quale fa parte anche lo Sconosciuto (P. Clementi), del quale si innamora, riamata.
Lo Sconosciuto ha ricevuto mandato di compiere un delitto politico, ma si rifiuta di eseguire l'ordine e finisce per pagare con la vita la sua scelta. L'assassinio è stato compiuto da un camerata del giovane; ma la colpa viene fatta ricadere su un giovane dell'estrema sinistra, del tutto innocente (e qui il richiamo ad alcuni fatti di cronaca è abbastanza esplicito).
Barbara, che sa come sono andate in realtà le cose, dapprima tenta di indirizzare la polizia sulla pista giusta; poi, frustrata dall'atteggiamento di totale incomprensione del commissario, decide di farsi giustizia da sola e, adoperando la pistola che lo Sconosciuto le aveva affidato, fredda il mandante del suo omicidio, ossia lo Straniero.
A parte un certo schematismo ideologico (la sinistra buona e innocente contro la destra cattiva e colpevole) e l'improbabile finale giustiziero in stile Western, ci sembra che il film risenta di una discutibile commistione, che rischia di diventare un autentico pasticcio, tra la dimensione politica e quella sentimentale della narrazione; mentre la prima sarebbe già stata più che bastante a se stessa (e un discorso analogo si potrebbe fare per molti altri film che hanno coltivato la medesima ambizione, a cominciare dal celebre «Kapò» di Gillo Pontecorvo).
E tuttavia, anche in quel miscuglio di dramma politico e di romanzo sentimentale, bisogna riconoscere che il film rispecchia fedelmente una certa cultura, e non solo cinematografica, di quegli anni; una certa ingenuità, se si vuole, che risulta evidente, ad esempio, dai testi di molte canzonette allora di gran moda, in cui la mescolanza fra temi impegnati ed altri strettamente privati era perfino proclamata negli slogan («mettete dei fiori nei vostri cannoni», derivazione in stile 45 giri del più celebre «fate l'amore, non fate la guerra»).
Il giudizio del Morandini è una condanna senza appello e senza alcuna attenuante:

«Sceneggiato con Giovanni gagliardi, è il primo e il peggiore dei quattro film italiani del regista 81921) del regista ungherese. Frutto dell'insano connubio tra Antonioni e lo sfrenato assillo predicatorio del cinema militante di quegli ani, è "uno sconcertante guazzabuglio, esiziale a tutti i livelli, compreso quello politico" (Giovanni Buttafava).»

Riteniamo di fare cosa utile al lettore, riportando qui di seguito la decima e l'undicesima sequenza secondo la versione originaria della sceneggiatura del film, affinché egli possa farsene un'idea personale (Miklós Jancsó, «La pacifista», a cura di Carlo Di Carlo, Bologna, Cappelli, 1971, pp. 118-122):

«10a SEQUENZA.

CASA DI BARBARA. ESTERNO. INTERNO. GIORNO.
Descrizione del luogo. Possiamo notare in questa sequenza che la casa di Barbara ha una seconda entrata. Dalla parte del giardino, infatti, dietro ad un'immensa strada, c'è un vecchio palazzo liberty. Si può capire che la casa di lei è stata ricavata dall'interno di un cortile. Un modo per stare in mezzo agli altri ma nello stesso tempo isolati.

Barbara e lo Sconosciuto arrivano a casa di lei. L'uomo si trascina con fatica. Barbara l'aiuta tenendolo per un braccio. Davanti alla porta di casa gli fa cenno di aspettare. Poi, lentamente, con dolcezza, si avvia verso la casa, apre la porta e dall'interno lo invita ad entrare. Lo Sconosciuto si appoggia alla parete e, seccamente, domanda:
SCONOSCIUTO: Dov'è il bagno?
BARBARA: Di qua. Ti accompagno. Hai bisogno d'aiuto?
Lo precede fin sulla porta del bagno, ma l'uomo la scavalca e, chiudendo, dice:
SCONOSCIUTO: Preferisco restare solo.
Fon riluttanza, controvoglia, Barbara si allontana.
Chiede ancora:
BARBARA: Sai chi erano quelli?
Lui non risponde nemmeno. Con gesti rapidi, tira fuori di tasca una pistola, la carica e se la rimette in tasca.
Ora è più tranquillo.
Si affaccia sulla porta del bagno e Barbara entra subito, sta per dire qualcosa, ma l'uomo la interrompe incalzante:
SCONOSCIUTO: Perché non mi hai riconosciuto al commissariato? Perché hai detto che non ero io? Dovevo andare in prigione… È colpa tua se adesso sono libero.
BARBARA: Tu non dici la verità.. Se volevi andare in prigione non avevi che da schiaffeggiare un poliziotto. Che cosa vuoi da me?
Si aspetta un risposta, ma l'uomo, come se seguisse il filo dei suoi pensieri, alla domanda di lei risponde con un'altra domanda:
SCONOSCIUTO: Non sei mai stata presa e picchiata da un poliziotto?
Anche lei, come lui, segue il filo dei suoi pensieri, quindi, insistendo, richiede:
BARBARA: Cosa vuoi da me?
L'uomo le mette una mano nei capelli, l'accarezza. Parla a scatti, senza fermarsi mai.
SCONOSCIUTO: Non hai mai dormito su un marciapiede? Io sì, ma da qualche giorno, da quando ti ho vista da lontano, ho capito… ho capito che ti posso amare.  Ho voluto fare all'amore con te ogni giorno. Ti amo.
Sembra vero quello che dice e Barbara sembra convinta. Per la prima volta il suo viso è disteso, sereno. Sorride. Si allontana da lui. Si muove per la stanza. Nei suoi movimenti, sentiamo una liberazione, una gioia.
BARBARA (emozionata): Era solo per questo… E io ho avuto tanta paura, ho chiamato la polizia, ho pensato le cose più terribili… Invece era solo…
Si appoggia sulla vetrata che dà sul giardino. Fuori, un gruppo di amici sta ballando. Uno di loro le fa un segno d'invito. Barbara ritorna verso l'uomo, forse per dirgli se, davvero, anche lui, avrebbe voglia di uscire nel giardino e di stare con i suoi amici. Ma l'espressione tesa di lui le fa cambiare idea.
BARBARA: Ma allora perché sei triste?
Lui, naturalmente, non risponde.  Soltanto, le stringe forte le mani e poi l'abbraccia.

11a SEQUENZA.

GIARDINO DINTORNI CASA BARBARA. ESTERNO. GIORNO.
Descrizione del luogo.
È un parco né grande né piccolo, cintato da una cancellata bassa. Forse non è lontano  dalla casa di Barbara.
A lato del parco c'è una casa gialla a due piani. Al centro vialetti, giardini pensili, alberi. In fondo al parco una grande vasca un po' barocca che si cala quasi completamente nell'erba. Dalla strada arrivano di tanto in tanto i rumori del traffico.

Eccoli in giardino. Ci sono alcune coppie che ballano, loro che le guardano e una ragazza che allegramente corre in bicicletta.  La ragazza è Yvonne. Si avvicina a loro, fa un paio di giri,  osserva con ambigua malizia lo Sconosciuto.  Lui nota subito lo sguardo della ragazza. Infatti domanda:
SCONOSCIUTO: Hai visto quella in che strano modo mi ha guardato?
Ma Barbara non gioca con i sospetti; poi, conosce Yvonne. Perciò, tranquillamente, risponde:
BARBARA: Hai ragione. Sei bello. Le piaci.
Probabilmente non è sufficiente per tranquillizzarlo, perché il ragazzo, sempre più cupo, risponde:
SCONOSCIUTO: No. Non è per questo. C'è qualche ragione.
Ora barbara si comporta come una donna che vuole soltanto sentirsi a suo agio con l'uomo che ha scelto, perciò continua:
BARBARA: Ma tu sei sempre così scontento, preoccupato. Non sorridi mai. Hai detto che mi ami, a me non piacciono gli uomini così.
SCONOSCIUTO: Vuoi che cambi?
Quasi come a se stessa, Barbara dice:
BARBARA: Mi piacerebbe.
Con serietà, lo Sconosciuto si alza, sale a bordo di una motocicletta  e comincia a correre attraverso il guardino. Sembra un gioco. Un gioco al quale Barbara crede.
Chissà se ci crede anche lui!  Corre in motocicletta, lei lo rincorre, lo saluta col braccio, si siede su una panchina. Lo guarda.
E lo Sconosciuto fa qualche giro, qualche piroetta, poi torna verso di lei, si ferma, scende dalla motoretta, si siede accanto a lei sulla panchina.  È calmo ma preoccupato. Dice
SCONOSCIUTO: Devo andare.
Con naturalezza la donna propone:
BARBARA: No, resta. Resta con me.
SCONOSCIUTO: Mi piacerebbe, ma devo andare
BARBARA: Allora vengo con te.
Ma lui si alza e ribadisce:
SCONOSCIUTO: No, non puoi. Devo andare solo.
BARBARA: Perché?
Fa qualche passo, torna indietro, posa una mano sulle spalle di Barbara:
SCONOSCOIUTO: La mia vita è finita e prima di morire volevo stare un po' con te.
Lei non sorride più.
Per trattenerlo gli prende un lembo della giacca:
BARBARA: Perché la tua vita è finita?
SCONOSCIUTO: Perché è deciso!
Ma lei vuole risposte precise.
BARBARA: Chi era quel tipo che ti ha dato un colpo? Non me l'hai detto.
Forse non avrebbe voglia di risponderle.
SCONOSCIUTO: Era per caso. Devo andare, ma se vuoi puoi venire con me. Dovresti però fare una cosa. Tenermi questa.
Dalla tasca  tira fuori una pistola, e la mette nelle mani di Barbara.
La donna osserva l'arma.
Non vuole credere a quello che vede, a quello che lui dice. Sorride ancora.
SCONOSCIUTO: Perché ridi?
E lei risponde:
BARBARA: Ma non è vera…
Si mette a correre mentre sentiamo la voce dello Sconosciuto.
SCONOSCIUTO (F.C.): Avrei dovuto uccidere qualcuno.
Barbara si volta. Adesso ride davvero. Guarda ancora la pistola e dice:
BARBARA: È un giocattolo!
E ricomincia a correre.
SCONOSCIUTO (F. C.): Io devo andare. Avrei dovuto uccidere un uomo…
BARBARA: Uccidere un uomo… Sei matto?
Barbara corre nel giardino e, ridendo, getta la pistola nella fontana.
Sul fondo, quattro ragazzi si muovono in un ambiguo rituale.»

Durissimo, su questo film di Jancsó, si è abbattuto anche il giudizio di Paolo Mereghetti (nel «Dizionario dei film», Milano, Baldini & Castoldi):

«[…] Sceneggiato con Giovanna gagliardo (ai tempi compagna del regista) e Gyula Hernádi, è un clamoroso infortunio di Jancsó che, catapultato in Italia, si trova a cercare una sintesi impossibile fra la sua ricerca linguistica, la diva ex antonioniana Monica Vitti e il cinema italiano di impegno civile. Probabilmente il peggior film di Jancsó…»

Meno truculento, ma anch'esso alquanto severo, infine, il giudizio di un altro importante critico cinematografico italiano, Tullio Kezich (che pure, come triestino, avrebbe potuto avere, forse, un po' più di ricettività nei confronti delle ragioni del malcapitato regista ungherese (in «Il Millefilm», Milano, Mondadori):

«C'è un tipo di artista che è come certi vini intrasportabili, da bere sul posto o da lasciar perdere. Questa è anche la caratteristica di Miklós Jancsó, la rivelazione del giovane cinema ungherese, salutato come un maestro dopo "I disperati di Sándor" e "L'armata a cavallo".  Impaziente dei troppi impacci politico-burocratici del suo paese,  benché sinceramente impegnato nel dibattito socialista, Jancsó ha voluto tentare un'avventura all'estero. Ma chi vede "La pacifista" si accorge subito che il regista è in difficoltà: alle prese con un mondo che non capisce, immerso in una problematica che afferra fino a un certo punto, Jancsó non è più lui. B E Monica Viti è un'immagine ritagliata da un fotogramma di Antonioni, non l'incarnazione di un'idea originale. Figuriamoci poi che cosa ne ricava il pubblico, ormai abituato alla Vitti tutta diversa di "Ninì Tirabusciò": nelle deambulazioni della pacifista tra un fronte e l'altro della contestazione giovanile (ma chi siano i buoni e i cattivi non si riesce proprio a stabilirlo) lo spettatore non si raccapezza.  Se aspettava di farsi quattro risate, ci resta male. Meglio avvertire gli ignari, insomma, che "La pacifista" non è il seguito de "La supertestimone" e che Miklós Jancsó non è un giovane regista un po' pasticcione del gruppo "Cinema e film".»

Come dire che si condannava senza sfumature il film, ma si concedeva al regista una prova d'appello, probabilmente in grazia della sua ideologia di sinistra, che gli faceva perdonare difetti altrimenti immeritevoli di clemenza; ci chiediamo che cosa avrebbe detto la critica italiana di allora, tutta rigorosamente imbevuta di dialettica marxista-leninista, se il regista ungherese fosse stato un espatriato anticomunista.
In realtà, piuttosto che imbarcarci nella discutibile impresa di separare un Miklós Jancsó «buono» da uno «cattivo», come sono sembrati intenzionati a fare alcuni critici, ci sembra più giusto e corretto domandarci se tutti i pregi e i difetti di un film come «La pacifista» non siano, piuttosto, la testimonianza di una naturale evoluzione del personalissimo stile di questo regista d'Oltrecortina che - questa almeno è la nostra opinione personale - ha incominciato a perdere le simpatie degli intellettuali nostrani politicamente corretti, ossia rigorosamente marxisti, allorché ha accentuato gli aspetti formali e stilistici e la dimensione psicologica e morale «universalistica» della sua ricerca, lasciando in un clima di crescente astrazione (non diremmo astrattezza) il dato storico e sociale contingente.
In realtà, quegli aspetti narrativi de «La pacifista» che hanno fatto storcere il naso a quasi tutta la critica cinematografica, non sono che il logico sviluppo delle premesse che già esistevano nei film che avevano rivelato la maturità di questo regista, ossia i tanto lodati «I disperati di Sándor» , «L'armata a cavallo» e «Silenzio e grido».
In particolare, fin dai primi successi internazionali, Miklós Jancsó aveva chiaramente rivelato una tendenza verso l'astrazione concettuale e una progressiva, per così dire, smaterializzazione della storia, accompagnata da una ricerca formale sempre più rigorosa e quasi geometrica, che, nelle opere dell'ultimo periodo, sfocerà addirittura in una estetica di tipo barocco, il cui limite è appunto il prevalere della forma sul contenuto e, quindi, un certo virtuosismo tendenzialmente fine a se stesso.
Ammettiamo pure che l'essersi trovato «catapultato» in Italia abbia un po' confuso le idee al regista ungherese, il quale ha voluto misurarsi con il tema della violenza all'interno della contestazione politica senza avere, forse, tutti gli strumenti necessari a valutare e comprendere la situazione italiana; tuttavia, non bisognerebbe sopravvalutare questo aspetto, ai fini della riuscita di un film come «La pacifista»: tanto più che (lo diciamo senza irriverenza, anzi, con una certa malinconia) neppure la maggioranza degli intellettuali nostrani è riusciti, né allora, né poi, a valutare e comprendere adeguatamente tutti i risvolti di quella problematica.
Molto penetrante, a questo proposito, ci sembra lo schizzo che, dell'itinerario artistico di Miklós Jancsó, traccia l'Enciclopedia Garzanti del Cinema (Milano, edizione 2004, vol.. 1, p. 587), che qui parzialmente riportiamo:

«[…] Il film che lo impone sulla scena internazionale è la pellicola "I disperati di Sándor" (1965), ambientata nell'Ungheria del secondo Ottocento. Con questi lavori sviluppa uno stile assolutamente personale, caratterizzato dall'uso ridottissimo dei dialoghi e da lunghi piani-sequenza realizzati da sinuosi movimenti di macchina, che combina l'analisi storica con simboli, metafore e coreografia, in cui i balli e le canzoni popolari danno vita a un genere definito musical-politico, "L'armata a cavallo" (1967) e "Silenzio e grido" (1968) riflettono invece la tendenza che si farà sempre più marcata, di spostarsi verso una forte astrazione nella quale convivono punti di vista rivoluzionari e una forma filmica altamente strutturata. Il visibile che pende il sopravvento è il risultato della sua convinzione  che l'immagine sia più eloquente e quindi più importante del dialogo. J. Dimostra di aver sviluppato un consistente modello narrativo, in cui gli avvenimenti storici vengono utilizzati per isolare e analizzare specifici contrasti politici che sono presentati in maniera astratta, quasi privi di spiegazione circa le loro origini o circa i personaggi coinvolti nelle vicende. Nel suoi cinema l'astrazione è fondamentale e supportata da uno stile altamente visivo che funge da destabilizzatore  delle convenzioni narrative, nel tentativo di stimolare l'analisi e la riflessione sulle complesse idee che circolano nel film. […].»

Non ci sembra giustificato, pertanto, gridare allo scandalo per gli esiti registici de «La pacifista» rispetto ai film precedenti del cineasta ungherese; l'itinerario cinematografico di Jancsó è molto più unitario e coerente di quanto taluno non voglia ammettere.
Quanto alla scelta di Monica Vitti come protagonista, possiamo criticarla oppure elogiarla, a seconda che guardiamo alle prove dell'attrice in film come «L'avventura» di Antonioni (che la volle anche nei successivi «La notte» , «L'eclisse» e «Deserto rosso») o come «Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca» di Ettore Scola; passando, naturalmente, per «Modesty Blaise, la bellissima che uccide», di Joseph Losey.
I pareri sulle doti drammatiche dell'attrice romana, come è noto, sono vari e discordi, così come lo sono sull'insieme della sua carriera artistica e sul suo valore di interprete; un po' spiazzati, d'altronde, dalla quantità e dalla diversità dei film in cui si è misurata, indossando di volta in volta le maschere dei generi più disparati.
Come attrice drammatica, ci sembra che la sua resa molto dipenda dal regista e dal copione; e che effettivamente, in questa pellicola di Jancsó, ella appaia piuttosto perplessa e frastornata, certamente non del tutto a suo agio nei panni della giornalista politicamente impegnata, ma non restia ad imbarcarsi in una storia sentimentale un po' garibaldina.
Né la prova degli altri attori - Pierre Clémenti nella parte dello Sconosciuto, Daniel Olbrychiski nella parte dello Straniero, e inoltre Peter Pasetti, Piero Faggioni, Gino Lavagetto, Francesco Carnelutti, Luigi Pignatelli - imposti dalla coproduzione italo-franco-tedesca, appare tale da segnalarsi al di sopra di una stentata mediocrità.
Una parola conclusiva sul film?
È un tipico prodotto di quella particolare stagione ideologica, con gli inevitabili pregi e difetti che l'hanno caratterizzata.
Fra i primi, ci sentiremmo di mettere la ricerca di strade nuove, anche a livello formale; un sincero anelito di giustizia e di verità; un atteggiamento complessivo di ingenuità, che non può non destare simpatia e perfino commuovere, pensando al seguito da Gran Guignol cui la società italiana si apprestava ad andare incontro, nell'inevitabile cozzo fra l'ideale e il reale.
Fra i secondi, non esiteremmo a mettere una fastidiosa verbosità narrativa (non in senso letterale, data la stringatezza perfino manierata della sceneggiatura), una saccenteria ideologica alquanto conformista, una mediocrità di interpretazione che non riesce a compensare i difetti di una storia già di per sé costruita in modo discutibile e approssimativo.
Un film da vedere, comunque: per ricordarci come eravamo.