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Nel mistero della malattia e della morte è racchiuso il segreto più profondo della vita

di Francesco Lamendola - 17/08/2009


Sto cercando di leggere un libro, un'ottima antologia greca: Tucidide; la guerra del Peloponneso, Senofonte, la battaglia di Egospotami…
Ma no: la mente si rifiuta di seguire le pagine, i caratteri si annebbiano davanti alla vista.
Impossibile leggere, impossibile fare finta di niente: qualche cosa è successo.
Penso a te, cara Giovanna, che hai scoperto nel tuo corpo l'invasione di un subdolo avversario, di una grave malattia; e a tutti quelli che si trovano nella tua condizione.
Molti di essi non hanno alcuno con cui parlare, con cui condividere la propria angoscia e la propria paura: perché, inutile nasconderselo, questa è una di quelle malattie che fanno paura, e ne farebbero anche al cuore più intrepido.
Sembra incredibile, ma è proprio così: vi sono persone che, oltre al peso della malattia, devono portare anche quello della solitudine; che non è, generalmente, una solitudine fisica, ma psicologica e affettiva. Si tratta di persone che non vivono materialmente sole, ma che, dal punto di vista della condivisione profonda, è come se lo fossero.
Per questo non possono parlare delle cose serie che accadono loro: gli altri non capirebbero, non crederebbero; oppure si spaventerebbero, e allora bisognerebbe accollarsi pure il fardello di sostenere  la loro angoscia,  di allontanare la loro paura.
No, tante grazie: meglio tenersi dentro tutto quanto.
Ma è duro, e fa male. A loro vorrei dedicare un pensiero di speranza, di coraggio, di umana simpatia.
Penserò a tutte loro, Giovanna, mentre rivolgo a te questi pensieri, nel colmo di una estate in cui le città si svuotano secondo il logoro copione di ogni anno, e le spiagge si affollano sino all'inverosimile, crisi o non crisi.
È il momento in cui più ci si sente soli e abbandonati, specialmente se ci si porta dentro un dolore, fisico o morale; e specialmente se, non più giovani, si stenta a trovare la forza per ricominciare, per combattere un'altra battaglia a difesa della propria vita.
Eppure bisogna farlo. Devi farlo, Giovanna: devi pensare a vivere e non a morire.
Ecco, ora ho trovato il coraggio di dire la parola che scotta, la parola che sgomenta, e non è stato facile.
Ma per cercare di esorcizzarla, di estrarne tutto il veleno, per poi sputarlo via, lontano.
La paura di morire è il veleno che intossica la vita e ne spegne la freschezza e l'entusiasmo, sprofondandola in un minaccioso cono d'ombra.
È assolutamente umana: non c'è da vergognarsene; a tutti accade di impallidire, quando sentono la sua nera ala di corvo sfiorarli d'improvviso.
Tuttavia, se non è in nostro potere impedirle di farci fremere di sgomento, sino alle più intime fibre, a noi è dato di non lasciare che si posi sul nostro capo e indebolisca le nostre forze, assottigliando gradualmente la nostra volontà di resistenza.
Vorrei perciò rivolgerti alcune parole di conforto, pur sapendo che è cosa estremamente ardua: perché vi sono cose che è pressoché impossibile affrontare a parole; cose che si possono comunicare solo in altro modo.
Tuttavia, quando si è lontani, la parola resta pur sempre l'unica maniera; ed è per questo che mi sforzerò di adoperarla, pur conoscendone tutti i limiti e le pericolose ambiguità.

*  *  *
È il tramonto: il sole sta calando dietro la chiostra dei monti vicini, in un tripudio di bagliori e tinte dorate, mentre i bordi delle nuvole fiammeggiano come vascelli veleggianti sul mare; e penso a te, cara amica, che stai forse ammirando lo stesso tramonto ai piedi di altre montagne, a molta distanza da qui.
C'è un grande silenzio, un gran senso di pace in queste ultime ore del giorno che declinano insensibilmente verso il porto quieto della notte.
Cerco la parola, per quanto inadeguata, che possa gettare un ponte fra di noi, sconfiggendo la tua solitudine e portandoti un soffio d'aria fresca, nell'afa opprimente che ti avvolge.
Ti dicevo che devi pensare a vivere: perché così vuole la grande legge della natura; l'atto di amore originario dell'Essere, dal quale ogni cosa ha tratto inizio.
Aggiungo che io ho bisogno di te; che sono diverse le persone che hanno bisogno di te; che abbiamo bisogno di sapere che tu ci sei.
Intendiamoci: i giorni della nostra vita sono contati, per usare un'espressione evangelica, come i capelli che portiamo sul capo; non sta in noi allungarla nemmeno di un'ora.
Non sappiamo quando saremo chiamati a fare ritorno all'Essere: è un mistero impenetrabile al nostro occhio, alle nostre menti limitate.
D'altra parte, se ci troviamo quaggiù, è perché dobbiamo fare del nostro meglio nel portare a termine il compito che ci è stato affidato; e poiché nessuno di noi può essere talmente presuntuoso da pensare di averlo perfettamente terminato, ne consegue che non dobbiamo avere alcuna fretta di uscire dalla vita.
Non siamo stati noi a decidere il giorno in cui vi siamo entrati, e non sta a noi decidere quando sarà giunto il tempo di andarcene.
Abbiamo un lavoro da svolgere; e non dobbiamo essere operai pigri. Il tempo per riposare verrà per tutti, alla fine; ma, per adesso, non siamo qui per riposarci.
Siamo qui per sforzarci di capire, realizzando sino in fondo le potenzialità che abbiamo ricevuto, e dispiegando in ogni direzione i rami del grande albero della vita, per quello che compete alla nostra parte; e questo è certo: che non ci sarà mai gettato sulle spalle un compito superiore alle nostre forze, che non saremmo in grado di sopportare.
Sforzarci di capire: ma capire che cosa?
Capire il senso ultimo delle cose: che non si trova sui libri di latino, di greco o di filosofia; ma che emerge chiaramente, e con forza, da ogni singola cosa che ci circonda, dalla Via Lattea al filo d'erba: ossia che tutto è amore.
Tutto nasce dall'amore, e tutto all'amore vuol fare ritorno.
Capire che nulla esisterebbe, se non vi fosse l'amore: non il nido dell'usignolo fra i rami dell'albero, non i mari e le montagne; e nemmeno noi stessi.
Nulla, assolutamente nulla esisterebbe: e se esiste qualche cosa, invece del niente, è perché esiste l'Amore.
Ma la malattia, domanderai tu, da dove viene? E la morte? Esse non vengono certo dall'amore…
Eppure, noi abbiamo un concetto troppo angusto delle cose: non siamo capaci di vederle nella loro interezza; se lo fossimo, ci accorgeremmo che regna l'armonia, là dove il nostro occhio limitato vede solo disarmonia; che regnano la bellezza e la pace, là dove non riusciamo a scorgere che disordine e dolore.
La malattia non è un assurdo, gettato nel giardino della vita; ne è il suo angolo più riposto, il suo fiore più profumato.
Per mezzo di essa, noi veniamo a contatto con l'essenza profonda della realtà: perché solo quando siamo deboli, minacciati, impotenti, impariamo a non aggrapparci più in maniera complusiva, ma, al contrario, ad abbandonarci con fiducia.
La malattia è la chiave preziosa che ci spalanca le porte sul giardino profumato della dimensione più essenziale.
Là dove la malattia piega il nostro orgoglio, i nostri progetti, le nostre sicurezze e la nostra ardente sete di godimento, noi incominciamo a scoprire quel mondo di autentiche meraviglie che, prima, non eravamo neppure in grado di vedere: per la fretta e la superficialità connesse alla nostra efficienza fisica.
La malattia ci ricorda che non possiamo fare tutto da soli, che non siamo abbastanza grandi per farci Dio; siamo piccole creature, deboli e vulnerabili: ma attraversate da un anelito di assoluto, da una nostalgia di eternità.
Senza la malattia, che ci restituisce alla parte più vera e migliore di noi stessi, ci crederemmo onnipotenti; e, inoltre, finiremmo per scordarci il sentimento della compassione.
La malattia ci fa più umani, più veri.
Quanto alla morte, nemmeno essa è un incidente di percorso, né una macabra ironia: ma il termine di misura per lasciare la vecchia veste temporale e per entrare nella dimensione ultima dell'Essere, dove il tempo non esiste, ma solo un eterno presente.
Non è una fine, ma un principio.
È un ponte, un arcobaleno gettato sopra la pioggia, verso orizzonti di luce.

. *  *  *
Lo so che queste sono solo parole: ma, quando si è lontani, anche le semplici parole sono meglio di niente, per quanto non siano che un povero dono.
Il fatto è che il mistero del dolore e della morte è così grande, che qualunque parola tende ad ammutolire davanti ad esso, e gli occhi ad abbassarsi, pensosi.
Ma io so che mi capisci, nonostante tutto.
Questo cielo estivo, questi boschi verdeggianti, queste solenni montagne, queste acque mormoranti: tutto, tutto parla le parole di un inno alla Vita, di un inno all'Amore.
Non siamo fatti per morire, ma per vivere: per unire le nostre voci a questo inno.
Io lo so che tu preghi; ma se anche non pregassi, la tua vita è stata tutta una preghiera, perché è stata colma di amore.
Perciò voglio che tu pensi alla vita, che tu pensi a vivere: a tutto l'amore che ancora puoi dare e ricevere, in ogni singolo istante, da ogni cosa e persona che ti circondano.
Non avere fretta di andare a riposarti e non avere troppa paura di abbandonarti, quando sarà il momento; ma, per adesso, pensa a vivere.
Del resto, io sono qui con te.
Ho paura con te, se tu ne hai; sono angosciato, quando l'angoscia ti viene a visitare, sgradita ospite; sono confuso, quando non riesci a discernere la via, nella fitta nebbia ove procedi.
È normale provare paura, angoscia, confusione; ma bisogna andare oltre la paura, l'angoscia e la confusione: occorre abbandonare l'abito vecchio.
Solo chi ha provato questi sentimenti, può sperare di spogliarsi del proprio cuore di pietra, e ricevere un cuore nuovo: un cuore di carne, che sente.
Io credo che tu, grazie alla tua malattia, abbia già ricevuto un cuore nuovo, al posto del cuore di pietra che hanno, così spesso, i sani; che tu abbia già ricevuto il tuo cuore di carne, grazie al quale potrai provare nuove emozioni e sublimi rapimenti.
Il tuo cuore nuovo ti rende anche più bella, anche più affascinante di prima.
Tu, adesso, stai varcando la preziosa porta di un palazzo, e ci precedi tutti quanti: con passo leggero, stai entrando nel giardino della Verità, ove cadono le fugaci apparenze, e le cose appaiono nella loro vera essenza, prive di inganno.
Anche per questo, la tua presenza è preziosa, quaggiù.
Resta ancora fra noi.
Abbiamo bisogno di te, della tua bellezza; di tutto quel prezioso bagaglio che hai accumulato lungo la tua strada dolorosa e solitaria, trasformandolo in scaglie di luce.