Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Vivere ancora, ma per fare cosa: per evolvere o per ripetere i vecchi errori?

Vivere ancora, ma per fare cosa: per evolvere o per ripetere i vecchi errori?

di Francesco Lamendola - 19/08/2009


Tutti, istintivamente, vogliono vivere: anche quelli che non amano la vita, anche quelli che dicono di odiarla.
La contraddizione aveva già colpito lo spirito d'osservazione degli antichi epicurei e suscitava lo sdegno di Lucrezio, che, nel «De rerum natura», a proposito di coloro i quali si attaccano alla vita senza più onore, né speranze, né valori, non poteva trattenersi dall'esclamare: «Denique vivunt!», espressione pressoché intraducibile, che potremmo tentare di rendere, ma assai sbiadita, con una avversativa: «Eppure vivono!»; o, meglio ancora, con un concitato e fremente: «E a dispetto di tutto, si ostinano a voler vivere!».
Vivere ancora; ma per fare che cosa? Non importa: vivere, e basta. Vivere senza farsi domande, vivere ciecamente, ma vivere il più a lungo possibile, e sia pure un giorno, un'ora più di quanto stabilito dal Fato.
Questo attaccamento irriflesso, cieco, alla vita è stato molto ben descritto da Henry Furst che, in un suo racconto, narra di un uomo il quale spalanca le porte di un macello comunale per far fuggire una mucca: il povero animale viene subito inseguito, braccato per la strada, in una gran confusione; spaventato, tremante di gioia e di paura, esso corre come ubriaco qua e là, mentre il suo liberatore esulta, pensando: «Non importa se gli ho prolungato l'esistenza di pochi istanti appena; fosse anche una manciata di secondi, ma ora corre, respira, vede, sente, con gli occhi dilatati, le narici frementi, il cuore che batte all'impazzata: ed è vita, vita, vita!».
Da sempre, si può dire, o almeno da quando gli esseri umani hanno cominciato a porsi le domande sul senso ultimo delle cose, si confrontano due scuole di pensiero, se così vogliamo chiamarle: quella edonistica e vitalista, che esalta ogni singolo attimo, come una festa di bellezza e di gioia, una occasione estetica irripetibile e una scarica di energie vitali capace di irradiare tutto l'essere; e quella - come definirla? - di tendenza mistica e filosofica, secondo la quale non è importante vivere molto, ma vivere bene; non conta nulla la quantità delle esperienze, ma la loro qualità; non si vive per caso, alla ricerca del piacere, ma si è chiamati a rispondere ad una ben precisa vocazione, onde collaborare alla realizzazione di un progetto cosmico.
Per illustrare questo secondo punto di vista, calza a pennello una favoletta, o un apologo, di origine asiatica, non ricordiamo se indiana o mediorientale.
C'era una volta un uomo potente, un ministro del re, che era caduto gravemente ammalato: temendo di morire, volle che gli fosse condotto un vecchio saggio, che viveva come un eremita, circondato dall'ammirazione generale. Quando lo ebbe davanti a sé, lo scongiurò di aiutarlo a guarire dalla malattia, perché - disse - voleva vivere ancora.
Il santo uomo gli chiese se era preoccupati all'idea di lasciare soli la moglie ed i figli, ma quello rispose di non essere sposato e di non avere figli.
Allora il santo uomo gli domandò se volesse scrivere qualche opera importante, in modo da lasciare ai posteri il frutto delle sue fatiche intellettuali; ma l'altro rispose che non aveva intenzione di scrivere nulla.
«Ho capito» - disse, a questo punto, il santo uomo: «tu sei un uomo d'azione, e devi portare a compimento qualche grande impresa, qualche importante spedizione militare, che possa perpetuare la tua fama».
Il malato, però, rispose che non aveva mai sguainato la spada, e che non aveva in mente di realizzare alcuna impresa del genere…
«Ma allora» - se ne uscì a dire il vecchio saggio, spazientito - me lo vuoi spiegare perché ci tieni tanto a vivere ancora? Preparati a morire, piuttosto; e non farmi perdere altro tempo!».
Infatti: perché bramare così ardentemente la vita, senza avere alcun progetto esistenziale, ma solo inseguendo il piacere momentaneo e ripetendo, con stolida monotonia, i vecchi, antichi errori di quando si era giovani, di quando si era ragazzi?
Per dirla in maniera un po' brutale, ma chiara: siamo oltre sei miliardi di esseri umani, al mondo: tanti. Ciascuno di essi è unico e insostituibile, certo; ma ciascuno di essi è stato chiamato per realizzare un compito superiore, non solamente per lasciare dietro di sé - l'espressione, saporosa e irriverente, è niente meno che di Leonardo da Vinci - dei «cessi pieni».
Sei miliardi di cessi pieni sono più di quanto madre natura possa sopportare, per non parlare dei nostri stessi simili; forse è il caso di riflettere che non per questo ci troviamo al mondo. Forse, siamo venuti qui per fare qualcosa, dopotutto; più precisamente, per innalzare noi stessi ai livelli spirituali superiori e, contemporaneamente, per lasciare qualcosa di utile agli altri, che agevoli il loro procedere lungo l'impervio cammino della vita.
Oggi, non solo per le persone comuni, ma anche e soprattutto fra gli intellettuali, prevale una visione casualistica dell'esistenza, dalla quale è facile - anche se non automatico - cadere nell'edonismo spicciolo, nel nichilismo esistenziale e nella irrilevanza di tutto ciò che è serio impegno e lavoro onesto su se stessi, per il bene proprio ed altrui. I seguaci delle cosiddette scienze moderne, sia quelle che studiando il mondo esterno, sia quelle che studiano la realtà intima dell'uomo, tendono a diffondere una tale Weltanschauung.
Un esempio del primo gruppo è offerto dall'astronoma Margherita Hack, la quale, con la tipica disinvoltura dello scienziato che si improvvisa filosofo (nonché dell'astronomo che si improvvisa biologo), sentenzia: «Gli elementi di cui siamo fatti, il ferro, il calcio, il silicio, il carbonio, sono stati sintetizzati all'interno di stelle più massicce del Sole, che al termine della loro vita esplodono.  Ma a plasmare questi elementi in forme diverse, ad agglomerarli e a formare i pianeti, è stato soltanto il caso; poi, sempre per caso, i pianeti come la Terra, che disponevano di grandi masse d'acqua, probabilmente queste molecole si sono aggregate sino a formare agglomerati sempre più complessi, e da questi agglomerati complessi si è poi passati alle forme elementari di vita. Come, ancora non sappiamo».
Margherita Hack può permettersi di dire queste cose grazie alla grossolana ignoranza in ambito scientifico del vasto pubblico; altrimenti si sarebbe guardata bene dal dire, con tanto semplicismo, che le molecole inorganiche si sono evolute in molecole organiche: un salto semplicemente inconcepibile, in base alle pure leggi del caso. È stato detto, infatti, e con molta più verità, che immaginare un simile evento come frutto del caso è tanto probabile, quanto lo è immaginare che una scimmia possa comporre esattamente la «Divina Commedia», battendo a casaccio sui tasti di una macchina da scrivere per un tempo sufficientemente lungo.
Quanto al secondo gruppo di scienziati, ecco il pediatra Marcello Bernardi, studioso di fama e considerato la massima autorità, in Italia, circa la conoscenza del bambino, almeno fino a pochi anni or sono: «La vita nasce per caso, si mantiene per caso, si svolge per caso e un cerro punto si spegne per caso. Siamo stati noi a farci  "un Dio della vita", a istituire "giornate della vita", a creare "movimenti della vita", a proclamare  "la cultura della vita", ignorando che la vita è davvero un incidente e nulla di più» (entrambe le citazioni, questa e la precedente, sono tratte dal libro di Sergio Zavoli, «Credere non credere», RAI- ERI - Piemme, 1996, pp. 12-13).
Opinione rispettabilissima, naturalmente: ma una semplice opinione. Con quale diritto Marcello Bernardi la esprime col tono apodittico di una verità rivelata, di una certezza scientifica? Ecco l'inganno: spacciare delle semplici opinioni (impastate, peraltro, di un positivismo assai datato) per dei dati di fatto della scienza. Invece, quando lo scienziato parla a titolo personale, lo dovrebbe sempre specificare; dovrebbe chiarire che le sue opinioni non hanno nulla a che fare con le risultanze della scienza, per il semplice fatto che la scienza moderna, così com'è concepita dai suoi cultori - descrittiva, quantitativa, materialista, riduzionista - non ha nulla da dire circa il mondo dei fini e circa quello dei valori. Altrimenti, si crea l'equivoco: il pubblico pensa che lo scienziato, quando esprime simili opinioni puramente personali, parli, appunto, in veste di scienziato, ossia a nome della scienza.
Se questi sono i nostro mâitres-á-penser (e il panorama dei filosofi è ancora più desolante, vista la loro tendenza a mettersi a rimorchio di codesta «scienza», per timore di apparire troppo metafisici e astratti), non c'è da meravigliarsi che fra le giovani generazioni sia ormai largamente penetrata una tale visione del mondo, basata sul predominio del caso e sulla insignificanza della vita umana, nonché della vita in generale.
Strano, ma vero: quella stessa cultura progressista, o che si autodefinisce tale, che contesta (almeno a parole) l'antropocentrismo e si tinge di verde, proclamando con enfasi i diritti degli animali e dell'ambiente, è poi la stessa che, partendo da tali basi teoriche, arriva a legittimare, di fatto se non di diritto, ogni forma di manipolazione sulla natura, magari con la scusa del progresso (non per nulla quei signori sono «progressisti») e, guarda caso, della scienza moderna.
Classico esempio di circolarità del pensiero, per cui non si può non arrivare ad approvare incondizionatamente l'esistente, in nome della pretesa superiorità, anzi, di una radicale assolutezza, del Logos calcolante e strumentale! È farina vecchia, questa: è ancora l'intramontabile Sofista dell'Idealismo, il Coribante di Berlino, che proclamava dai tetti (seguito dal cinquantennale Sultano della filosofia nostrana, don Benedetto Croce), che «tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale, è reale».
Possibile che non riusciremo mai a liberarci da questa servile adorazione del dato fattuale e dalle sue proliferazioni più o meno spurie, più o meno dirette: a cominciare dal marxismo, che è soltanto - per sua stessa ammissione - un hegelismo capovolto?
Si dirà che, se la casualità del reale e l'insignificanza della vita sono delle semplici opinioni, altrettanto lo è la concezione opposta; che non esiste alcuna prova, scientifica o logica o di qualsiasi altro genere, del fatto che le cose esistano in base ad uno scopo, e che l'uomo sia stato chiamato a svolgere un compito.
È vero, non esistono prove nel senso matematico del termine, anche se la metafisica classica ne ha elaborata più d'una, da Platone a Plotino, da Sant'Agostino a San Tommaso; ma poi, un bel giorno, è arrivato Kant, il quale ha deciso che la metafisica andava relegata nella soffitta delle cose inutili: e, a partire da quel momento, nessuno ha più osato fiatare per sostenere il contrario. La concezione moderna del reale è figlia della matematica - Galilei docet - e, di conseguenza, solo ciò che si può dimostrare matematicamente appare saldamente ancorato alla realtà; tutto il resto, parafrasando Kant, non sembra che il sogno di un visionario.
Non esistono prove che le cose esistano in base a un progetto, ma ne esistono numerosi indizi; a cominciare dal più significativo di tutti: quella stessa ansia trascendente che spinge gli esseri umani a porsi sempre la domanda ulteriore, a proiettarsi sempre più in là, alla ricerca di un assoluto di cui pure avvertono una intensa, bruciante nostalgia. Se ogni cosa è frutto unicamente del caso, donde avrebbe origine una simile attitudine?
I materialisti irriducibili ribattono che l'ansia metafisica non è un dato originario della condizione umana, ma, tutt'al più, di una certa fase storica e di un certo tipo di umanità; e che gli uomini della modernità, emancipati da ogni soggezione verso il trascendente, non nutrono proprio nessuna ansia metafisica. In un certo senso, è vero; ma bisognerebbe aggiungere, per onestà intellettuale, che essa è stata sostituita da un altro tipo di ansia, molto più logorante e distruttiva, perché assolutamente priva di sbocco: l'ansia per la condizione finita e chiusa in se stessa, che conduce ad uno stato d'animo assai prossimo alla disperazione esistenziale.
E quest'ultima è, ancora, una prova a rovescio, ma pur sempre una prova - anzi, la più convincente di tutte - del fatto che vi è, nella natura umana, la scintilla di un principio superiore, che lotta in ogni maniera per venire alla luce e che, se si vede radicalmente negata ogni possibilità di sviluppo ed attuazione, non si spegne nell'indifferenza, ma urla silenziosamente tutta la propria angoscia e tutta la propria sofferenza.
Perciò, tornando alla domanda iniziale da cui aveva preso avvio la presente riflessione: «perché desiderare di vivere ancora?», la risposta non potrà essere che questa: per cercare di perfezionare la nostra umanità. Il che vuol dire, aristotelicamente, cercare di realizzare sempre più la natura specifica dell'essere umano: che è quella di cercare la verità.
Il materialismo vorrebbe che ci accontentassimo di vivere come mucche al pascolo, le quali, sazie d'erba, non domandano più nulla; il razionalismo, che ammettessimo come lecite soltanto le domande per le quali è pensabile una risposta puramente logica.
Ma, diceva Pascal, vi sono delle ragioni che la ragione non conosce, le quali stanno oltre la ragione stessa; è chiaro, infatti, che se noi adottiamo il principio di accettare come legittime solo quelle domande cui il Logos strumentale e calcolante è in grado di rispondere - magari non oggi, ma domani -, ci precludiamo in partenza la possibilità di trovare qualcosa di diverso. Per questo abbiamo parlato, a suo tempo, della filosofia moderna, e particolarmente del criticismo, come di una forma di autocastrazione del pensiero (cfr. il nostro saggio: «L'"io penso" kantiano e l'autocastrazione del pensiero moderno», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Solo ammettendo il principio che esistono delle dimensioni superiori a quelle della razionalità pura e semplice; solo ammettendo, e sia pure in via di ipotesi, che si diano delle realtà di ordine soprannaturale, si può giungere non a dimostrare matematicamente, ma - il che è assai più importante - a sentire e a vedere chiaramente, con l'organo della seconda vista, che noi non siamo qui per caso; che nulla esiste per caso; che ogni cosa corre verso il proprio fine nel quadro di un'armonia cosmica, di un progetto superiore, il quale soltanto può rendere conto delle apparenti antinomie della vita.
Vivere sforzandosi di realizzare, tutta intera, la propria umanità, vuol dire vivere secondo natura.
Solo chi ha vissuto così, può guardare in faccia la morte, e non aggrapparsi all'inutile speranza di un altro giorno o di un'altra ora di vita da strappare al destino.
E, come diceva Platone per bocca di Socrate, tutta la filosofia dovrebbe mirare precisamente a questo: a prepararsi alla morte.
Perché non ha paura della morte, solo chi sente di aver vissuto degnamente la propria vita.