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Una pagina al giorno: Estate di sangue in Toscana, di Manlio Cancogni

di Francesco Lamendola - 19/08/2009


Dal libro di Manlio Cancogni «Gli squadristi» (Milano, Longanesi & C., 1972, dal cap. sesto, pp. 91-99):

«Era una domenica importante per lo squadrismo fiorentino. Già alle prime luci dell'alba  tutte le squadre erano mobilitate. I camion 18 BL  aspettavano vicino alle sedi che il carico fosse compiuto. Gli uomini montavamo dalla parte posteriore che aveva il parapetto abbassato:  quelli che erano già sopra aiutavano gli altri a salire, tiravano su i fucili,  i bastoni, i gagliardetti. Soltanto pochi avevano la camicia nera o la divisa completa da squadrista, dalle fasce, che chiudevano  sotto il ginocchio i calzini grigioverdi, all'eletto. In maggioranza vestivano in borghese, con la camicia bianca e il colletto inamidato.  La divisa era riservata alle cerimonie ufficiali, sfilate in città, o inaugurazioni di gagliardetti o di nuove sedi.
Accanto al conducente era piazzata la mitragliatrice tipo Sain-Etienne o Schwarzlose, con il pesante manicotto di raffreddamento simile a un grosso tubo. Le squadre le acquistavano direttamente dalle fabbriche d'armi o le ricevevano in dono dall'esercito.  Anche le cassette di bombe a mano Sipe venivano direttamente dalle caserme  dove in precedenza gli squadristi erano stati per un rapido corso d'istruzione.  Se all'ultimo momento mancava la benzina, il conducente guida i BL 18 nel cortile della questura o di una caserma di carabinieri  che veniva rifornito. Quando partiva, gli squadristi salutavano i militari dell'Arma con risate d'intesa.
I carabinieri erano sempre informasti dei movimenti delle squadre e, appena i camion delle spedizioni punitive erano in partenza, si mettevano sulle loro tracce.
Spesso li precedevano arrivando sul luogo dell'azione qualche ora prima. Perquisivano le Camere del lavoro, le Case del popolo e le cooperative e quando avevano accertato che non c'erano armi, o avevano sequestrato le poche,  mezze inservibili scoperte in qualche buco, davano il via libera  alle squadre che attendevano appostate nelle vicinanze.
Quella domenica,  17 aprile, era stata scelta del comando fiorentino per un'azione in grande stile: i centri rossi dovevano essere colpiti simultaneamente,  perché si vedesse quanto era grande la potenza delle squadre di Firenze. La battuta avrebbe toccato il Valdarno superiore, il Valdarno inferiore e la zona di Prato, risalendo il Bisenzio verso l'Appennino., In quella zona i "rossi" resistevano, ancora benché l'organizzazione fosse ormai spezzata e molti dei capi, esposti quotidianamente alle bastonature, vivessero nascosti. L'uccisione di Lavagnini li aveva spaventati.
I fascisti al contrario diventavano ogni giorno più aggressivi. Fra una squadre e l'altra c'era una gara a chi distruggeva più sedi avversarie e riportava a casa un maggior numero di trofei. Già si raccontavano alcune azioni col tono delle imprese leggendarie. i capi squadra, incontrandosi, si misuravano con aria di sfida. Sedevano allo stesso tavolo nei covi rinfacciandosi i rispettivi meriti.
Tamburini, Banchelli, Dumini, Frullini e i Nenciolini s'erano fatti un nome in tutta la Toscana, e spesso i camerati di Siena o di Carrara o di Pisa li chiamavano a dar loro man forte.
A Siena i più forti erano Giovanni Chiurco e Rino Daus; a Carrara, Renato Ricci, noto per l'altissimo fez che lo faceva somigliare a un brigante albanese o montenegrino. Nel pisano primeggiava su tutti Sandro Carosi, un farmacista di Vecchiano ch'era diventato il terrore della provincia.
Una volta Carosi era entrato in un'osteria di Filettole, tutto armato come se stesse per andare all'assalto di una trincea. Vi aveva trovato due camerati di Cascina anch'essi con la rivoltella e il pugnale infilati nella cintura. L'osteria era abitualmente frequentata da contadini e operai socialisti e comunisti. Carosi e gli altri due squadristi lo sapevano e proprio per questo v erano entrati.
Seduti a un tavolo si raccontavano le ultime imprese. Carosi vantava la precisione di mira della sua Mauser. L'aveva tirata fuori  e me faceva girare il tamburo accertandosi che tutte le pallottole fossero al loro posto.  Anche gli altri due si dicevano tiratori infallibili, e facevano i nomi dei nemici uccisi  in questa o quella spedizione.
Carosi giocava con l'arma, e intanto  guardava, senza parlare, gli operai e i contadini che, dal momento  in cui i fascisti erano entrati, tacevano ai loro tavoli, con le carte in mano. "Tu" disse indicandone uno. L'interpellato guardava impaurito ora gli amici, ora il fascista. "Mettiti là" disse Carosi. Indicandogli il punto con la pistola lo fece andare in fondo alla stanza con le spalle appoggiate al muro. Si alzo, si accostò a una credenza, prese da una fruttiera una mela, la mise sulla testa dell'uomo. "Adesso sta' fermo", disse. Andò al capo opposto della stanza, puntò, fece fuoco. L'uomo scivolò per terra,  colpito in fronte. Sai chiamava Pietro Pardi.
Un giornale aveva raccontato brevemente il fatto con questo titolo: "Uno sfortunato Guglielmo Tell".  Nessuno aveva osato testimoniare contro il tiratore e Carosi continuava a battere il pisano spingendosi anche nelle province vicine. Quando arrivava a Firenze, o a Siena, o a Carrara, andava a trovare i suoi rivali maggiori. Presentandosi diceva: "Sandro Carosi, dieci omicidi politici". Col tempo il numero saliva,: alla fine del '21 gli omicidi erano quindici.
I fiorentini non sopportavano di essere da meno. Così avevano preso l'abitudine di comportarsi nello stesso modo. Nei caffè, quando i capi delle squadre si venivano incontro e si tendevano la mano,  la gente ascoltava in silenzio quelle cifre terribili. A volerle sommare c'era da chiedersi se ci fosse ancora un socialista vivo.
Il 17 aprile gli squadristi fiorentini volevano dimostrare d'essere superiori a tutti. I camion partirono all'alba spargendosi in varie direzioni.
Quelli diretti a Prato erano quattordici con a bordo trecento armati: li comandava Tamburini. Arrivarono che la città si stava svegliando. Saputo della spedizione dei fiorentini, altri squadristi accorrevano da Pistoia, da Lucca e da Pisa.. Chi arrivava in treno e chi in camion. Così la mattina del 17, Prato era piena di fascisti che in assetto di guerra presidiavano le piazze, i crocicchi e gli uffici pubblici. Il municipio fu invaso e la bandiera tricolore sventolò dal balcone.
Speciali pattuglie andavano nelle case a prelevare i consiglieri municipali di parte socialista. Li prendevano e li portavano di peso alla sede del fascio. Questa sorte toccò  fra gli altri al segretario della lega laniera, Marino Garbaccio, e al segretario della lega fornai, l'anarchico Anchise Ciulli. Fu messo loro sotto gli occhi in cui era scritto che il sottoscritto rinunciava di sua volontà e di buon grado alle cariche affidategli dal popolo. Con la rivoltella puntata gli squadristi imponevano di firmare. Tutti firmarono. Fu ordinato ai prigionieri di gridare: "Viva l'Italia!. Tutti gridarono viva l'Italia. Nel pomeriggio i camion fascisti risalirono la valle del Bisenzio: andavano a Vaiano. , un paese che in quel tempo era considerato la capitale rossa della vallata. In vicinanza del paese la colonna si fermò: una parte di fascisti scese e si disperse a gruppi nei campi, chi a destra, chi a sinistra del fiume, in modo da prendere il paese in una tenaglia.
Avanzando verso le case, i fascisti si nascondevano  dietro i cespugli o i fienili, come in guerra durante gli attacchi alle linee austriache sul Carso o sugli altipiani.
Il grosso invece entrò con i camion, puntando le armi alle finestre per cacciarne i vaianesi che si affacciavano incuriositi. Da una finestra o da un tetto partì un colpo: così almeno gridarono i fascisti che senza perder tempo a cercare il responsabile cominciarono a sparare tutti insieme, mentre le truppe a piedi venivano all'assalto lanciando bombe a mano e agitando i pugnali. Vennero distrutte la Camera del lavoro, le sedi dei partiti antifascisti, le cooperative, il circolo ricreativo, i locali delle leghe, furono uccise due persone, altre vennero bastonate. Per un paio d'ore, il paese fu in balia degli occupanti.  I carabinieri vigilavano da lontano. Prima di andarsene, i fascisti ammassarono un certo numero di persone: ne presero i nomi e poi gridarono loro di considerarsi da quel momento ostaggi del fascio. Qualora un fascista fosse stato toccato, avrebbero pagato con le loro teste.
I gruppi che avevano imboccato la valle superiore dell'Arno presero direzioni diverse.  Un camion con ventitré fascisti, oltrepassata Arezzo, si diresse alla volta di Foiano nella valle della Chiana. Per tutta la giornata i fascisti batterono la zona  senza incontrare resistenza, nel pomeriggio ripresero la via d'Arezzo per tornare a casa. I contadini di Foiano erano stati avvertiti del loro passaggio. A un chilometro dal paese i fascisti trovano la casa sbarrata.  Scendono per rimuovere l'ostacolo e sono presi a schioppettate. l'autista afferra il volante e parte; un colpo lo raggiunge alla faccia e accecato dal sangue non vede più la strada e va contro una siepe.  Con roncole e forconi i contadini si avventano sui fascisti storditi dalla sorpresa, dall'urto e dal vino bevuto durante la battuta. Dante Rossi cade per terra: un uomo gli è sopra e con un colpo d'ascia gli stacca la testa. Atterriti i fascisti non riescono a far uso delle armi. Aldo Rosselli e Tolemaide Cinini cadono infilati dai forconi; a Gualtiero Quadri un colpo di roncola fa saltare le dita della mano destra.  I fascisti si chiamano fra loro, sgomenti; i contadini ansimano e menano colpi. Chi fugge nei campi, chi si dà per morto. Infine ogni rumore cessa e sulla strada restano i corpi degli uccisi e dei feriti mentre i contadini si allontanano per i viottoli, col fiato grosso, asciugando con l'erba e le foglie il filo delle accette, le roncole, le punte dei forconi.
Da Firenze, da Siena, da Arezzo i fascisti accorrono in forze. Ci sono anche i perugini con i fratelli Delbuontrombone. I comandi militi forniscono loro armi in abbondanza. Sono presenti il marchese Perrone Compagni, Tamburini e Italo Capanni, un ex capitano dei granatieri che, pur non essendo entrato nel fascio tra i primi, vi occupa già un posto di rilevo con grande ira dei pionieri. A Foiano si raduna il fiore dello squadrismo dell'Italia centrale con lo stato maggiore dei fiorentini al completo.
Il paese è occupato. Mentre le squadre e incendiano le abitazioni dei contadini della lega, le cooperative e la Casa del popolo, in piazza lavora un tribunale composto di senesi. Gli arrestati sono messi in fila. Avanti il primo.  "Dove stavi ieri?". Il contadino dice che era al lavoro. "Come al lavoro? Ieri era domenica. Non credi dunque in Dio?". Lo fanno inginocchiare, gli sparano nella schiena. Avanti un altro. "Come ti chiami?". Il contadino dice il nome. "Sei iscritto alla lega?", "No." "Sei socialista?" "No." "Sei un bugiardo: che ci prendi in giro?". Gli sparano in faccia.
Un terzo arrestato si svincola e cerca di fuggire.  Gli sparano prima che giunga in fondo alla piazza. Ferito si trascina in terra come una bestia. Dagli angoli partono della piazza i colpi finché il corpo  si allunga immobile nella polvere.
La sera, tardi, le squadre tornano alle loro sedi.  I fiorentini avevano le facce stravolte, per la stanchezza, per la polvere, il vino, la vista del sangue, dei morti e degli incendi. Si sostenevano l'uno con l'altro, a loro modo, deridendosi. "Bella faccia ci hai"", diceva uno. "Bellino sei te!", rispondeva l'altro. I più esaltati si vantavano delle uccisioni compiute. Esagerandone il numero, credevano di diminuire la gravità del delitto. "Sette ne ho mandati all'inferno!" si sentiva gridare. Una voce strozzata rispondeva; "Io ne ho sul gozzo almeno nove: sul decimo non ci posso giurare perché è caduto in un fosso".
In estate i fascisti erano padroni della Toscana, avendo ormai costretto quasi tutte le amministrazioni comunali socialiste a dimettersi. I contadini terrorizzati abbandonavano le leghe, non si facevano vedere ala Casa del popolo, non compravano più alle cooperative. Resisteva a nord una fetta di terra, fra il mare e le montagne, amministrativamente già Liguria, geograficamente ancora Toscana: il Sarzanese. A Sarzana, socialisti, comunisti, repubblicani, anarchici , s'erano legati in un patto organizzando le loro forze, armando alcuni reparti di coraggiosi a resistere.
Da Carrara, Renato Ricci inviava loro messaggi insolenti  e minacce di morte. Girava intorno alla cittadina con le sue squadre, spingendosi ora al passo della Cisa, ora verso La Spezia, non osando mai entrarci. A Sarzana i pochi fascisti si tenevano nascosti aspettando l'aiuto esterno per venire fuori.
A metà luglio, Ricci fece un'azione dimostrativa. In camion salì a Monzone, da lì a Fivizzano e dopo un'ispezione in montagna ridiscese in pianura; sulla via del ritorno, si diresse su Sarzana deciso a attraversarla. Sulla strada aveva lasciato due morti, alcuni feriti e qualche casa d contadini in fiamme.  Verso sera era in vista della città.
I sarzanesi erano al corrente dell'impresa e delle uccisioni compiute dai fascisti. Un gruppo di cittadini era andato dai carabinieri ad avvertirli che qualora non avessero impedito ai fascisti di entrare in città, avrebbero organizzato essi stessi la difesa. I carabinieri sotto la pressione popolare promisero che avrebbero fermato i fascisti e andarono a schierarsi sulla strada della Cisa.
I fascisti, vedendoli, scesero dai camion e si dispersero nella campagna. Una squadra con Ricci attraversò il torrente Calcandola per a girare la città e proseguire verso Carrara. I carabinieri li sorpresero mentre camminavano sul greto e li arrestarono.
Ricci e undici altri squadristi furono messi in carcere. Da Carrara i fascisti mandarono un ultimatum per chiedere che i prigionieri fossero rilasciati: chiedevano anche che il sindaco, in segno di scusa, si dimettesse.  I sarzanesi non risposero e cominciarono a preparasi.
S'erano radunati in città e nei dintorni molti anarchici, comunisti e socialisti costretti a fuggire dai luoghi dive il fascio era vittorioso. Si formò un comitato con alla testa un giovane repubblicano, Silvio Delfini, che più tardi sarebbe emigrato in America. Il comando del settore più esposto più esposto all'aggressione, quello di porta Romana, fu affidato a un giovane socialista, Bruno Bassano, che prese con sé gli anarchici.
Il comitato non nascondeva alle autorità la sua intenzione di difendere Sarzana a ogni costo. La campagna intorno era in stato di allarme; si distribuivano alle squadre di contadini le poche armi raccolte, fucili da caccia, rivoltelle e bombe fatte con il tritolo portato dai cavatori anarchici delle montagne di Carrara.
Anche i fascisti fecero grandi preparativi. A Firenze fu fissata al 21 la data della spedizione, chiamando a raccolta le squadre di tutta la Toscana.. Il comando venne dato ad Amerigo Dumini che si scelse come capo di stato maggiore Umberto Banchelli. Tamburni e il marchese restarono a Firenze
La maggior parte degli squadristi era di ragazzi dai quindici ai venti anni. Nella notte fra il 20 e il 21 la "forza" si concentrò sulla spiaggia di Avenza a quindici chilometri dall'obiettivo. Dumini e Banchelli  sapevano dei preparativi dei sarzanesi ma confidavano, come in passato, nell'aiuto dei carabinieri.
Dalla Spezia dove le squadre aspettavano, per marciare, l'arrivo dei toscani, due ragazzi, Augusto Bisagno e Amedeo Maiani, erano partiti in avanscoperta. Furono presi dai sarzanesi mentre guadavano il Magra. Il Comitato ordinò di interrogarli, picchiarli e rimandarli a casa. Invece furono portati sui monti a Ghigliolo, e uccisi. La colpa venne data a certi fanatici di Carrara.
Nel chiarore della luna piena, gli squadristi s'incamminarono per uno tenendosi sulla riva del mare fino a Marinella di Sarzana, poi presero per i campi e i poderi addormentati. Verso l'alba erano in vista della linea ferroviaria. Passò un treno proveniente da Carrara. Gli squadristi che erano in testa ala colonna sparando in aria i fucili. I ferrovieri, arrivati a Sarzana, dettero l'annuncio. I sarzanesi accorsero ai posti di difesa; sulla torre dell'orologio che domina piazza Mazzini gli anarchici avevano portato una grande pignatta piena di dinamite. Erano decisi a far saltare la torre, se i fascisti ci fossero passati sotto.
Camminando lungo le verghe ferroviarie i fascisti raggiunsero Sarzana. I primi entrarono nell'edificio della stazione e uscirono sulla piazza in faccia al viale di tigli che porta dritto in città. Sotto gli alberi c'erano otto carabinieri con un capitano.
Vedendo le divise dell'Arma i fascisti si sentirono rinfrancati e uscendo dalla stazione nella piazza avanzavano lungo il viale gridando: "Viva i carabinieri, viva l'Italia!". Dumini chiedeva al capitano di lasciarli passare e il capitano rispondeva ai fascisti dicendo di fermarsi. Gli squadristi gridavano: "Viva il re!". I carabinieri a un ordine del capitano si schierarono in riga, posero un ginocchio a terra e puntarono i moschetti. I fascisti non credevano che facessero sul serio. Spinti da quelli che uscivano dalla stazione, continuavano ad avanzare. "Viva l'Italia!", gridò Dumini alzando un braccio. Si udì un colpo e un carabiniere  si piegò tenendosi il braccio. "Fuoco", ordinò il capitano.  Dieci fascisti caddero, chi morto, chi ferito. Gli altri si sbandarono, dandosi alla fuga. Il capitano gridava: "State fermi! Non scappate! Vi aspetta la morte!". Incitava Dumini e Banchelli e gli altri capi  a trattenere i loro uomini. Lo spavento e la confusione erano grandi; i fascisti continuavano a correre, scavalcando siepi, fossi, muretti, spargendosi nella campagna. Le squadre rosse li aspettavano.. Senza combattere molti fascisti caddero nelle loro mani. Portati su un'aia, dietro un fienile o una siepe furono ammazzati  a colpi di forcone, di accetta, di roncola. I corpi lasciati al sole. Con fatica i carabinieri riuscirono a raccogliere gli sbandati. I fascisti s'erano sparsi dappertutto: Banchelli ne trovò anche nella camera da letto del capostazione, nascosti negli armadi e sotto i divani. Gli spari erano cessati: il sole cominciava ad ardere e i carabinieri e la truppa, che intanto era arrivata di rinforzo, battevano la campagna per raccogliere i caduti.
I fascisti ebbero sedici morti re trenta feriti. Se non fossero intervenuti i carabinieri, l'intera colonna sarebbe stata distrutta. A parte i capi, gli squadristi erano in maggioranza ragazzi che andavano per la prima volta al fuoco: sentendo gli spari e le grida., piangevano ammassati dentro la stazione, chiedevano aiuto.
Arrivarono le autorità da La Spezia; venne un treno per raccogliere le squadre sconfitte e riportarle a casa.  Banchelli e Dumini non s'erano persi d'animo: discutevano con il questore  chiedendo che fossero loro resi i prigionieri. Per mandarli via fu dato l'ordine di rilasciare Ricci e i suoi compagni.
Il treno partì. Affacciati ai finestrini i fascisti si asciugavano le lacrime, tendevano i pugni e imprecavano contro la città "maledetta". Un anarchico appostato vicino al casello, quando il treno gli passò davanti, lasciò partire un colpo che uccise un ultimo squadrista che si sporgeva da un vagone.
A Firenze fu un giorno di lutto: i capi litigarono fra loro accusandosi reciprocamente della disfatta. Poi le fantasie ripresero a lavorare alterando i fatti., immaginando una dura ed eroica battaglia dove c'erano stati solo una fuga e un massacro. Banchelli raccontava com'era morto Giuseppe Montemaggi. Il ragazzo lo aveva chiamato in soccorso. "Mago, mi ammazzano." "Figliolo - gli aveva risposto il Mago - aiutati da te, io ne ho venti addosso."»

Nato a Bologna nel 1916 da genitori toscani, entrambi versiliesi, e trasferitosi a Roma con la famiglia fin da piccolissimo, Manlio Cancogni è stato amico di scrittori come Carlo Cassola e Giorgio Bassani.
Studente al ginnasio «Torquato Tasso» ed al liceo «Giulio Cesare», dopo la maturità classica si iscrisse alla facoltà di Legge, laureandosi e andando poi ad insegnare Storia e filosofia nei licei; dal 1940 insegnò nella città di Sarzana, vicino alla sua amata Versilia: dal brano sopra riportato si evince la sua familiarità con quell'ambiente e con la sua storia recente.
Dopo aver prestato servizio militare Bassano del Grappa, nel corpo degli Alpini, venne richiamato allo scoppio della seconda guerra mondiale e prestò servizio al fronte greco-albanese; esperienza della quale restano numerose tracce nella sua opera letteraria, e particolarmente in quello che da molti è considerato il suo romanzo migliore, «La linea del Tomori».
Dopo la guerra intraprese una brillante carriera giornalistica, prestando la sua collaborazione a testate prestigiose quali «Il Corriere della Sera», «La Stampa», «L'Europeo», «Botteghe Oscure» e «L'Espresso»; nonché dirigendo, alla fine degli anni Sessanta, «La Fiera Letteraria». All'attività giornalistica affiancò una promettente attività di romanziere, vincendo numerosi premi e riconoscimenti letterari.
Fra i suoi libri più significativi possiamo ricordare «Cos'è l'amicizia» (1958), «Parlami, dimmi qualcosa» (1962), «La linea del Tomori» (1966), «Allegri, gioventù» (1973, vincitore del premio Strega), «Perfidi inganni» (1978), «Nostra Signora della Speranza» (1980), «La coincidenza» (1984), «Quella strana felicità» (1985, Vincitore del premio Viareggio), «Il genio e il niente» (1987), «Se un gallo canta» (1989), «L'ultimo ad andarsene» (1990), «L'Avanguardia a bocca chiusa» (1991).
Del suo interesse per la storia del Novecento, e particolarmente per quella della Toscana (che, nella sua geografia ideale, comprende il Sarzanese), oltre che  i romanzi, sono testimonianza un paio di saggi storici non privi di qualità: «Gli squadristi» (1972), da cui abbiamo tratto il brano sopra riportato, e, molto più tardi, «Gli angeli neri» (1994), una storia degli anarchici italiani. In entrambi, l'interesse per il fatto sociale supera quello di ordine strettamente storico-politico, conformemente al suo approccio alla storia, che è assai più di tipo creativo e letterario, che rigorosamente critico o documentario.
Come romanziere, Cancogni ha mostrato di possedere una originale vena grottesca e sottilmente angosciosa, quasi kafkiana, ma senza mai cadere interamente nel drammatico, in conformità al suo temperamento, che è portato alla riflessione psicologica e alla malinconia, ma, in genere, tenendosi lontano dai toni cupi della tragedia.
Altre due caratteristiche tipiche della sua narrativa sono l'importanza della memoria, e, di conseguenza, il ricorrente motivo autobiografico, specialmente per ciò che riguarda la stagione della seconda guerra mondiale (un po' come per Mario Tobino, sostituendo il fango e le rocce dello scacchiere balcanico alle sabbie infuocate e quasi surreali dello scrittore viareggino); e, più importante di tutte, l'ansia di una Verità profonda, celata in qualche modo sotto la superficie delle cose, e alla ricerca della quale i suoi personaggi sono misteriosamente protesi. In questo senso, ci sembra lecito parlare di una dimensione religiosa, o, quanto meno, di una dimensione metafisica, della narrativa di Manlio Cancogni.
Come saggista, crediamo che il brano qui sopra proposto, e relativo ai sanguinosi scontri tra fascisti e socialisti nelle campagne e nei paesi della Toscana, durante la primavera e l'estate del 1921 (sino all'effimero «patto di pacificazione» proposto da Mussolini, proprio dopo i fatti di Sarzana e la presa di posizione del governo Bonomi), possa fornire un'idea abbastanza chiara de suoi principali pregi e difetti.
I pregi più rimarchevoli sono la chiarezza dell'esposizione, l'asciutta e quasi fotografica incisività dello stile, la passione civile dietro la quale si intravede una umanità risentita e dolente: pregi non piccoli, anzi piuttosto rari, benché dissimulati dietro una prospettiva apparentemente minimalista, per cui rischiano di passare - e, di fatto, sono talvolta passati - in secondo o terzo piano, mentre trionfavano altri saggisti ed altri giornalisti, più queruli e rumorosi, specialmente a partire dagli anni Ottanta; mentre il Nostro cominciava a defilarsi, anche per una sorta di crescente disagio rispetto alle mode indotte dalla post-modernità: ricordiamo, ad esempio, il suo rifiuto del computer e la fedeltà alla macchina da scrivere, quando ormai quasi tutti si erano convertiti al nuovo mezzo di scrittura: segno di una difficoltà che non nasceva certo da pigrizia o da rifiuto passatista, ma dall'intuizione di una crescente disumanizzazione sottesa al dilagare della tecnlologia..
I difetti più vistosi, per contro, sono l'incapacità di assumere un punto d vista obiettivo e «super partes» (difetto, per un cultore del saggio storico; per un romanziere, il problema non si pone); una prevalenza del quadro ad effetto, e sia pure sorvegliato e misuratissimo, rispetto alla lunga e faticosa ricerca delle cause remote degli eventi (anche questo, difetto in sede storica, non in sede narrativa); tendenza a ridurre la complessità delle vicende politiche, economiche e sociali, ad un susseguirsi di biografie individuali, col risultato di pervenire ad una schematizzazione e ad una semplificazione inaccettabili della complessità del divenire storico.
Prendiamo il brano da noi qui proposto, tratto dal volume «Gli squadristi» e concepito, probabilmente (come suggeriva l'editore Longanesi), anche per suggerire una analogia con lo «squadrismo», ovvero con l'estremismo neofascista, del principio degli anni Settanta, dopo il riflusso dell'onda lunga del '68: proprio come quello del 1919-21, che si era abbattuto su socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani e popolari di sinistra dopo la fallita occupazione delle fabbriche e delle terre nell'immediato primo dopoguerra.
Dal punto di vista narrativo, sono pagine molto belle e ben scritte, proprio nella loro asciutta, secca, a volte terribile, nudità; nel rifiuto di ogni fronzolo, di ogni tentazione retorica, anche davanti agli episodi più crudi: rifiuto che non è solo una scelta di scrittura, ma anche e soprattutto - il lettore lo avverte assai bene - una scelta etica e d'impegno civile.
Dal punto di vista propriamente storiografico, invece, molto vi sarebbe da dire sulla parzialità dello scrittore che, in omaggio alla propria ideologia politica, dà per scontato che tutte le ragioni stiano da una parte sola, e tutti i torti dall'altra.
Lungi da noi, con tale osservazione, voler fare la difesa d'ufficio, magari mascherata, dello squadrismo: una pagina cupa e, in gran parte, censurabile della nostra storia recente; e tuttavia, come non vedere che, per una piena comprensione del fenomeno, le categorie storiche ed etiche suggerite dall'Autore sono totalmente insufficienti e inadeguate?
Se non si dice che gli ultimi governi liberali non erano l'estrema cittadella della democrazia assediata, ma l'infima degenerazione di un sistema politico-sociale che non aveva saputo o voluto coinvolgere ed integrare le masse popolari nella vita della nazione, neppure dopo gli enormi sacrifici ad esse richiesti e le promesse fatte loro nel corso della prima guerra mondiale, e specialmente dopo Caporetto, ossia nell'ora dell'estremo pericolo; se non si dice che i due grandi partiti di massa affermatisi dopo la guerra, socialisti e popolari, non sapevano e non volevano considerarsi leali cittadini dello Stato italiano, ma perseguivano entrambi un disegno politico che prescindeva dalla sua legittimazione, per inseguire oscure prospettive di interesse a-nazionale o, addirittura, anti-nazionale; se non si aggiunge che, accanto alla brutale violenza squadrista, vi era quella, non meno selvaggia, di parti del partito socialista e di quello comunista, nonché il loro continuo appello alla rivoluzione di stile bolscevico e la loro sistematica denigrazione dell'esercito e del corpo degli ufficiali, quasi che essere un reduce di guerra, e magari una medaglia al valore o un mutilato, fosse motivo d vergogna anziché di onore: se non si dicono tutte queste cose, si finisce per delineare un quadro storico astratto, fazioso e manicheo.
La verità storica, che emerge chiaramente proprio dalla inesorabile cronaca dei fatti di violenza esposti nel saggio di Cancogni, è che nel 1919-21 l'Italia, e specialmente la Valle del Po, la Toscana, la Romagna e la Puglia, furono insanguinate da una vera e propria guerra civile; e che vedere nel movimento fascista solo e unicamente la mano armata degli agrari emiliani e toscani o degli industriali milanesi e degli armatori genovesi, significa impoverire  il contesto complessivo oltre ogni limite non solo di verosimiglianza, ma anche di decenza storiografica.
Se non si vede, e non si è disposti ad ammettere, che quella del 1919-21 fu una guerra civile, non si riesce nemmeno a capire che lo squadrismo fu un aspetto, ma non l'unico e neppure il più qualificante, della nascente dittatura fascista; che essa fu la conseguenza pressoché inevitabile dei nodi irrisolti accumulati nei decenni di storia post-unitaria, e specialmente nella drammatica partecipazione alla prima guerra mondiale, in presenza di una classe dirigente straordinariamente miope ed insipiente; e non si può capire nulla, infine, di quell'altra guerra civile del 1943-45 - che, a cominciare dalla qualifica di guerra civile, che solo gli studi storici di Renzo De Felice hanno faticosamente legittimata - la quale altro non è stata che la ripresa della prima, passando attraverso la repressione e l'emigrazione politica del Ventennio, e, soprattutto, attraverso la guerra civile spagnola del 1936-39, banco di prova della futura e rinnovata guerra civile italiana («Oggi in Spagna, domani in Italia», si vantavano apertamente i miliziani comunisti italiani, di stretta osservanza stalinista).
Di tutti questi aspetti, che pure sono necessari, anzi, indispensabili, per comprendere a pieno il fenomeno del fascismo agrario e lo squadrismo nelle campagne lombarde, emiliane, romagnole, toscane e pugliesi, vi sono pochissime tracce nel libro di Cancogni, che tende, invece, a delineare una rappresentazione tutta in bianco e nero, dove sembra possibile tracciare una netta linea divisoria fra i torti e le ragioni, in base a un criterio ideologico e puramente estrinseco, ossia  la militanza antifascista.
È revisionismo affermare che non si riuscirà mai a comprendere nulla della storia italiana recente, se si continua a studiarla inforcando le lenti dell'ideologia e la discriminante pregiudiziale dell'antifascismo?
Eppure, ricordiamo la felice osservazione di De Felice: che la ricerca storica, cioè, per sua stessa natura, non può essere che revisionista: nel senso che essa aborre dalle verità definitive e pietrificate, ad una sola dimensione; ma continuamente si sforza di rivedere i documenti, di approfondire l'analisi delle cause, di allargare il panorama dei fatti considerati, in modo da rendere la visuale quanto più possibile onnicomprensiva.
Di questo sforzo di imparzialità, di amore spassionato e rigoroso per la verità storica (che non sempre coincide con la verità interiore dei singoli individui), di ampliare il più possibile l'orizzonte per meglio comprendere gli eventi, integrandoli in una visione unitaria, non vi è traccia nel saggio di Manlio Cancogni.
Per cui possiamo dire che un saggio come «Gli squadristi» ci offre un esempio notevole, e quasi perfetto, di maestria letteraria, ma non una indagine storica veramente profonda e rigorosa: gli mancano, per essere tale, l'amore del documento e l'imparzialità del giudizio.
Per quanto riguarda la saggistica relativa al Ventennio «nero», la cultura italiana è ancora molto, troppo indietro: forse per la cronica incapacità (che deriva dalla persistenza di interessi occulti e inconfessabili nelle classi dirigenti) di fare i conti a viso aperto col passato, incidendo impietosamente con il bisturi, là dove la ferita rischia di andare definitivamente in cancrena.
Dovremo aspettare ancora molto per cominciare a vedere ciò che gli altri grandi Paesi d'Europa - Francia e Germania specialmente - hanno saputo fare, ormai, da parecchi decenni?