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Una pagina al giorno: La morte arriva dal cielo, di Mario Tobino

di Francesco Lamendola - 19/08/2009


 

Dal romanzo di Mario Tobino «Il perduto amore» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1979, dal capitolo quinto, pagg. 45-51):

«… E una di quelle notti (Alfredo in piena rimembranza) d'improvviso si riscosse, fu attento, attentissimo.
Sopra l'ospedale c'era un aeroplano della RAF, l'aviazione nemico, l'aereo girava lì sopra alla ricerca di qualcosa. Non ebbe alcun dubbio. Quel suono, quante volte l'aveva udito, che aveva della musica e dell'ombroso fruscio della morte. Quante volte quel sognante annaspio si era all'improvviso avvicinato e tramutato in lacerante sibilo, nel crudele sgranarsi della mitragliatrice, delle pallottole che cercavano i corpi umani, oppure scendeva giù dal cielo una furia sempre più accecante e scoppiava la bomba, immensa bocca di luce rossa, Alfredo ancora qualche secondo stette con l'orecchio teso, poi si sedete sulla branda:
"Signor capitano! Signor capitano! Gianfigliazzi!"
Nessuno dei due si svegliava.
Il tenente Alfredo si alzò, si strappò di dosso il pigiama, in fretta cominciò a vestirsi, e intanto chiamava il capitano con voce più forte.
Infine il capitano smise di russare e mugolò qualcosa.
Alfredo ripeté: "Capitano Trenta, capitano Trenta" e si era avvicinato alla sua branda.
"Che? Che?"
"Signor capitano, qui sopra c'è la RAF. Ora l'aereo si è un poco allontanato ma potrebbe tornare, cerca qualcosa."
"È sicuro?"
"Troppe volte… Eccolo! Ritorna. Senta." Si udì nitido l'inconfondibile ronzio. "Dev'essere un Blenheim".
"Ma è proprio sicuro? Sarà uno dei nostri."
Il tenente Alfredo era presso che vestito, già calzatoi gli stivali. Si infilò anche il cappotto, le notti in Libia sono fredde.
Il capitano era incredulo; mai era stato mitragliato.
Il tenente Alfredo alzò il teluccio che faceva da porta e fu fuori. Il capitano Trenta e il tenente Gianfigliazzi, in pigiama, gli tennero dietro con un'aria perplessa, un poco incuriosita. Ma che si era messo in testa quell'Alfredo?
Le grandi tende bianche, su due file, erano irrorate dai raggi della luna.
"Rieccolo. Si abbassa. A terra! a terra!" gridò il tenente Alfredo.
Contemporaneamente si avvicinò la rabbia del motore e lo sgranarsi della mitragliatrice. Era grigio, passò sopra le tende, davanti ai tre ufficiali medici, e scomparve oltre il boschetto.

Non ebbero tempo di gettarsi a terra, e del resto quel grido di Alfredo era stato un automatismo, lo urlava ai soldati in Marmarica quando udiva quel tipico suono crudele di aereo che scende in picchiata.
Il capitano era stravolto, n si era ancora bene reso conto; Gianfigliazzi pallido, inebetito.
Da una grande tenda Onori, lì sulla destra, si alzò un gemito corale; forse era lei che era stata mitragliata.
Ma il tenente Alfredo che era teso a udire il suono dell'aereo, di nuovo gridò, anzi questa volta ordinò:
"Ritorna, ritorna, mitraglia le tende, gettiamoci nel boschetto."
Allora il capitano fu abbracciato selvaggiamente dalla paura e si precipitò verso le piante che contornavano l'ospedale. Sciabolò la sua gamba rigida, il suo corpo ansimò, oltrepassò la coda della tenda 9 x 11 e col petto colpì ciecamente il filo spinato, insanguinandosi.
Siccome le iene e le vacche selvatiche di notte, attirate selvaggiamente dagli odori di una grande cucina, entravano nell'ospedale e sporcavano dappertutto, il capitano giudiziosamente aveva fatto recingere l'ospedale da un filo spinato, ma, in quel momento, come poteva ricordarsene?
Anche Gianfigliazzi vi batté contro, ma appena. Grasso e lento, era rimasto indietro, e le imprecazioni del capitano l'avevano messo in guardia.
Il tenente Alfredo seguiva ultimo e non per coraggio ma per fatalità come succede a chi lungamente è stato in balia del pericolo, e in più gli era rimasto nell'udito quel lamento proveniente dalla tenda Onori e si era detto: "Là ci sono dei feriti, dobbiamo andarci."
Il capitano, scorticato nel petto, si era come risvegliato, quell'urto aveva messo in fuga la paura, e se ne stava in piedi, rivolto non al boschetto ma all'ospedale.
Il tenente Alfredo con calma domandò:
"Si è fatto male?"
Il capitano corrugò la fronte, in quel momento ritornò comandante, direttore dell'ospedale.
"Dove hanno mitragliato?"
"Nella ultima tenda Onori e forse anche nella penultima, ho sentiti delle voci, ci saranno feriti, dobbiamo andare."
L'aereo riapparve sul cielo dell'ospedale, ma alto; ; non scese a mitragliare. Probabilmente cercava qualcosa, non era venuto proprio per il 129, aveva saggiato il terreno. Si allontanò a perlustrare, tentacolare ancora nella zona; certamente avevano avuto precise informazioni da loro spie arabe o dalla ricognizione aerea.
Il capitano e i due tenenti si diressero verso le tende sospettate.
Il viale era deserto e argentato di luna. Il capitano procedeva con energia, la paura fugata. Laggiù dalla tenda, proveniva un sommesso vocio e si erano accesi dei lumi che trapelavano dai teli.
Entrarono nella prima tenda. Non c'era né confusione né smarrimento; soldati che venivano dalla guerra.
"Sì, ci sono due feriti", disse un sergente.
"E nell'altra tenda?"
"Non sappiamo".
Il capitano ordinò ad Alfredo: "Vada a chiamare gli altri medici."
"Signorsì."
Alfredo a passo spedito arrivò alla baracca che li alloggiava.. Su un comodino una candela accesa, i letti disfatti con sopra, alla rinfusa, elementi di divise militari.
Si presentò un soldato, doveva essere un qualche attendente.
"Dove sono andati?"
"Li ho visti scappare per di là, nel bosco."
"Tutti?"
"Signorsì."
Il soldato poi domandò: "Ritornerà?"
"Non credo, se no mitragliava ancora; ha provocato per vedere se c'era antiaerea, reparti combattenti."
"È passata la Trento ieri."
"Non lo sapevo. Ecco il perché.! Si saranno accampati qui vicino."
"È da ieri dopopranzo che passano per la Balbia, ho visto anche un mio paesano."
"È corazzata?"
"Sì."
"Tu di dove vieni?"
"Dall'Ariete. Sono stato ferito a una spalla. Sono in attesa di Commissione.
"Dove, ferito?"
"In Marmarica. Ero di pattuglia. Sono quasi guarito, forse mi daranno la convalescenza."
"Sono stato in Marmarica anch'io. Ero della Pavia. Addio."
Il tenente Alfredo ritornò dal capitano. I feriti erano quattro. Avevano cominciato a dar ordini per trasportarli in una 9 x 11 che era stata predisposta in caso d'urgenza.
Si interruppe vedendolo solo: "Gli altri? Gli altri ufficiali?"
"Non li ho trovati."
"Dove sono andati?"
Ad Alfredo sfuggì: "Nel bosco, credo."
"Come? Come?" si adirò il capitano.
Alfredo lo distolse dalla quistione esclamando adirato:
"C'è odore di fegato qui! Qualcuno è stato colpito al fegato. È grave."
"L'ho sentito anch'io. È questo, pallido. Spogliamolo; presto., Non muoviamolo di qui!"
Il capitano si dimostrava in piena efficienza. Gianfigliazzi stava medicando un soldato che era stato ferito a una coscia, ma con fortuna: la pallottola aveva scavato un tunnel senza ledere niente di importante e quasi senza dolore. Anche gli altri due avevano ferite leggere, di striscio.
Quello colpito al fegato era sempre più pallido.
"Il polso è un filo" sussurrò il capitano Trenta. "Deve avere spappolato tutto."
"Una perforante, un grosso proiettile" rispose Alfredo che tentava di sollevare il corpo del soldato per scoprire il foro di uscita.
Il soldato era biondo, bello, aveva uno sguardo dolcissimo come perdonasse qualsiasi cosa, anche il destino.
"È la morte dei dissanguati", pensò Alfredo che ne aveva visti per i deserti. "Prendono un'espressione da santi e dolcemente se ne vanno."
"Su, su, come stai?" gli disse il capitano. "Ti manderemo in Italia in convalescenza."
"No" sorrise il soldato "No, rimango qui. Saluto…"
Era ancora più pallido, perse la voce.
"È morto" disse il tenente Alfredo.»
Il capitano aveva le perle di sudore sulla fronte, un dolore sopra le spalle. "Così giovane" disse, e però in fretta, per l'ultima speranza, poggiò l'orecchio sopra il cuore del soldato.
"C'è silenzio. È il primo soldato che muore da quando sono qui. " E poi, di nuovo ergendosi, rivolto ad Alfredo:
"Dove lo mettiamo?"
"Nella tenda d'urgenza. È vuota!"
"Seppellirlo presto, con questo clima. Potrebbero vestirlo le crocerossine" e con una sorta di repressa tenerezza: Un giovane, lontano dal suo paese." Poi con una improvvisa rabbiosità: "Un'altra relazione, dobbiamo pur avvertire Barce, l'Alto Comando. Chissà dov'è l'aiutante maggiore!"
Ad Alfredo venne in mente il boschetto e, sparsi tra gli alberi, i prudenti ufficiali medici..
"Presto sarà giorno, signor capitano. La relazione si può rimandare a domani."
L'ispettrice arrivò animata; con la divisa in disordine era più seducente, più giovanile e spontanea. Aveva con sé la Ristori, la bella romana con gli occhi nerissimi, infermiera vera.
Si dispiacquero di non aver udito nulla, non aver assistito, aver continuato i loro sogni come nulla stesse accadendo. Cominciarono a trafficare per comporre una specie di "camera ardente".
Il giovane soldati fu rivestito e sdraiato su delle assi.
Il farmacista quando all'alba si destò per il tramestio vicino ala sua baracchetta e seppe che vicino a lui si era svolta "una azione di guerra", un infame mitragliamento su eroici soldati sprezzanti del pericolo e lui, lui, aveva perso la bellissima occasione di dimostrare la sua fede fascista, il suo coraggio, la tempra dei figli del Littorio, ebbe gesti rabbiosi e continuò a non darsi pace.
Il capitano Trenta, tornato al comando, ebbe voglia di stendere subito la relazione  ma dovette rinviare alla mattina dopo. Ogni volta il suo attendente ritornava:
"La baracca ufficiali è vuota, la porta aperta, i letti disfatti."»

Mario Tobino, nato a Viareggio nel 1910 e morto ad Agrigento nel 1991,  medico di professione prima che scrittore, ha svolto a lungo la sua attività come primario nell'Ospedale psichiatrico di Lucca, per cui la sua narrativa ruota sovente, direttamente o indirettamente, intorno al grande mistero della cosiddetta malattia mentale.
Ha esordito con alcune raccolte di versi, cui hanno fatto seguito numerosi e fortunati romanzi, nei quali ha evidenziato le stesse qualità di scrittura che nei testi poetici: violente, balenanti accensioni liriche e un intenso, incessante lavoro di scavo introspettivo, nel quale ricorrono continuamente i temi della guerra in Africa, della giovinezza tradita, dell'amore impossibile, della inquietudine esistenziale e del disagio psichico.
Il romanzo d'esordio è stato «Il figlio del farmacista», seguito da una raccolta di racconti, «La gelosia del marinaio», pubblicati entrambi nel pieno della seconda guerra mondiale (1942) e non particolarmente notati dalla critica e dal pubblico, cui hanno fatto seguito, nel dopoguerra,  «Bandiera nera» (1950), satira del mondo universitario fascista, ed il racconto «L'angelo del Liponard» (1951), che unisce i temi dell'avventura e dell'esotismo con quelli dell'eros e della ossessione sensuale, il tutto in un clima cupamente pessimistico.
In quello stesso anno, il 1951, viene pubblicato il suo primo romanzo importante, nel quale compaiono le caratteristiche più mature della sua narrativa:  «Il deserto della Libia», un diario di guerra in cui il dato storico-militare, ossia le campagne italo-britanniche nel deserto nordafricano, al confine tra Libia ed Egitto, fa da sfondo, più che da protagonista, all'indagine intorno alla verità più nascosta dell'animo umano, con un particolare interesse per gli aspetti devianti e schizofrenici; così che la guerra medesima finisce per diventare una metafora e un'allegoria della condizione umana, caratterizzata dalla follia, talvolta sapientemente dissimulata dietro la maschera di una incongrua, apparente razionalità.
Ma il successo pieno e definitivo, per Tobino, arriva con il successivo romanzo «Le libere donne di Magliano», del 1953, una forte vicenda ambientata nell'ambiente del manicomio. Seguono «La brace dei Biassoli» (1956), patetica storia di una famiglia di provincia; «Il clandestino» (1962, vincitore del Premio Strega), ambientato in Versilia all'epoca della Resistenza e ispirato, anch'esso, ad una precisa esperienza autobiografica; «Sulla spiaggia e di là dal molo», nostalgica e struggente rievocazione della sua Viareggio; «Una giornata con Dufenne»(1968), lirica vicenda ambientata nella campagna toscana; «Per le antiche scale» (1971, vincitore del Premio Campiello), dei racconti ancora ispirati all'esperienza presso il manicomio; «Il perduto amore» (1979), malinconica rievocazione di una vicenda amorosa autobiografica, sempre sullo sfondo della guerra nel deserto nordafricano.
Ricordiamo infine il romanzo breve «La ladra» (1984), la raccolta di racconti «Zita dei fiori» (1986), oltre alla «pièce» teatrale «la verità viene sempre a galla. Commedia in due tempi» (1987); postuma, infine, è apparsa la raccolta di prose autobiografiche «Una vacanza romana» (1992), un anno dopo la scomparsa dell'autore.
Il brano che abbiamo qui presentato è tratto da «Il perduto amore», che riprende i temi di quella che, insieme a «Le libere donne di Magliano», è considerata da molti la sua opera migliore, ossia «Il deserto della Libia»; ma con una impostazione molto diversa. In quest'ultima prevale una atmosfera surreale e quasi metafisica, mentre nell'altra l'ambientazione appare di un grenere molto più realistico e volutamente dimesso, quasi minimalista; vi campeggia l'amore impossibile fra il tenente Alfredo (trasparente proiezione dell'Autore) e la bellissima infermiera Dedé Ludovisi, rampolla di una importante famiglia aristocratica.
Amore impossibile, perché proibito dai regolamenti che vigono presso l'Ospedale da campo numero 129, nelle retrovie del fronte della Marmarica, così come presso qualunque altro ospedale di guerra; ma che potrebbe realizzarsi allorché i due giovani si ritrovano in Italia, qualche tempo dopo: solo che, a quel punto, la loro grande passione si affievolisce e si spegne, quasi inspiegabilmente, proprio quando si trovano liberati dalla necessità di dissimulare, agli occhi del mondo, il sentimento che era nato fra loro.
Non si tratta di uno dei libri più felici del Nostro; e tuttavia lo abbiamo scelto quale punto di partenza per suggerire una ricognizione di questo nostro scrittore, passato bruscamente - come altri della sua generazione, del resto, a cominciare da quel Manlio Cancogni di cui ci siamo appena occupati - da una fama nazionale acquisita e consolidata, ad un semi-oblio tanto rapido, quanto ingeneroso.
In questo brano, infatti, sono condensate alcune delle migliori qualità della scrittura di Tobino: la parola scabra ed essenziale, il ritmo asciutto e nervoso, la rapidità hemingwaiana dei dialoghi; e, su tutto, l'incombere di un destino beffardo, che sembra distribuire a ciascuno la propria sorte in maniera assolutamente casuale, nel bene e nel male, e a cui l'uomo non può contrapporre che una segreta, intensa pietà.
La pietà, infatti, è la cifra più segreta della narrativa di Tobino; ma una pietà estremamente riservata, quasi dissimulata fra le pieghe di una sorta di impenetrabilità apparente, di una maschera assunta per proteggere l'anima dalle ferite più laceranti.
Quell'aereo britannico che si avvicina a bassa quota, nel cuore della notte, e incomincia a mitragliare le tende dell'ospedale da campo, in un paesaggio allucinato di dune sabbiose popolate solo da iene e vacche selvatiche, è un po' la metafora della imprevedibilità del destino, delle sue unghiate improvvise, che lacerano la carne fino all'osso, lasciando incolumi proprio quelli che più sono esposti e che meno cercano di guardarsi dal pericolo.
Al tempo stesso, e come sempre nella narrativa d questo Autore, l'episodio del mitragliamento notturno a bassa quota è anche un dato storico ben preciso, uno squarcio nel ricordo di cose viste e vissute; e chi ha vissuto l'orrore della seconda guerra mondiale, o ne ha sentito parlare dai genitori, sa che le persone, allora, non solo al fronte, ma nelle città indifese, popolate di vecchi e bambini, si erano dovute abituare a convivere con l'assurdo da Grand Guignol, con la morte che scende improvvisa dal cielo per ghermire gli anziani nelle loro case, o gli scolaretti in grembiulino mentre si recano a scuola, con la cartella in mano.
Quel rumore lacerante, quel suono da sparviero che scende in picchiata alla ricerca della preda, ha accompagnato i giorni e le notti di quella generazione di Italiani; il paesaggio stranito del deserto nordafricano, con le bianche tende che spiccano nell'oscurità notturna, non fa che rendere esemplare la condizione dell'orrore quotidiano, isolandola da ogni elemento superfluo, un po' come nella Fortezza Bastiani del buzzatiano Deserto dei Tartari.
Davanti alla catastrofe improvvisa, cadono inesorabilmente le maschere e gli uomini rivelano di che pasta son fatti, al di là delle differenze di grado o di qualsiasi altra circostanza esteriore.
Così, vediamo il capitano Trenta che, sorpreso nel suo beato russare dall'allarme inopinato, per un attimo è afferrato da una paura cieca e incontrollabile, tanto da andare a sbattere, lacerandosi il petto, contro il filo spinato che lui stesso aveva fatto stendere tutto intorno al campo; ma poi, altrettanto subitamente, il senso del dovere e della propria dignità riprendono in lui il sopravvento, e con efficienza e decisione egli torna ad essere l'ufficiale comandante, che sa farsi carico di qualunque situazione, senza perdere la testa, anche nell'emergenza più inattesa.
Gli altri ufficiali, invece - ad eccezione del protagonista, il tenente Alfredo - non fanno certo una bella figura: scappano al primo avviso di pericolo, si rifugiano in un boschetto di palme e non ne escono più fino al mattino inoltrato, quando l'attacco è terminato da un pezzo e sarebbe stato necessario soccorrere i feriti. Certo, si tratta di ufficiali medici e non di combattenti di prima linea, più abituati a maneggiare siringhe e bendaggi che non le armi automatiche; tuttavia, proprio per questo, non avrebbero dovuto eclissarsi nel momento in cui sarebbe stato necessario che ciascuno provvedesse ad assistere le vittime.
Molto più dignitosi appaiono i soldati di truppa e i sottufficiali: sobri, di poche parole; e, più dignitoso di tutti, quel giovane fante che muore dissanguato, senza un lamento, senza una frase scomposta, come una candela che velocemente si spegne, finché un sottile filo di fumo si sostituisce alla viva fiammella e di quella luce, di quel calore, non resta più nulla.
Il breve, secco dialogo fra il tenente Alfredo e l'anonimo soldato della divisione «Ariete», ricoverato all'Ospedale per una ferita alla spalla riportata in battaglia, è un piccolo capolavoro di sobrietà e di virile compostezza: due uomini, che hanno già guardato in faccia la morte, si scambiano poche battute al ritorno della loro vecchia amica-nemica, che, per stavolta, ha ghermito qualcun altro; poi si separano.
Tale è stata la filosofia di vita di Mario Tobino: un impegno generoso, ma discreto, per alleviare la sofferenza dei propri simili, a cominciare dai suoi cari malati di mente, cui ha dedicato ogni energia fisica e spirituale; e poi, nulla.
Una filosofia che ricorda, un poco, quella di Albert Camus: non il Camus de «Lo straniero», ma quello de «La peste» (e simile, in fondo, anche a quella di Giuseppe Ungaretti): una decisa volontà di contrapporre all'assurdo dell'esistenza, il senso di una umana solidarietà e fratellanza, che scaturisce dalla consapevolezza del comune destino di dolore e solitudine.