308. Licenza di inquinare
di MarTa - 22/03/2006
Fonte: Umanità Nuova
Il Testo unico sull'Ambiente, approvato definitivamente dal Consiglio dei ministri lo scorso 10 febbraio, è un corpus normativo di più di 700 pagine, 318 articoli e 45 allegati. Secondo la legge delega del 15 dicembre 2004, n. 308, il Governo aveva il compito di riordinare le normative ambientali. La commissione di 24 saggi istituita ad hoc per la scrittura dei testi ha concluso il suo lavoro nel settembre del 2005 in relazione alle materie:
a) procedura per la valutazione ambientale strategica (VAS), per la valutazione d'impatto ambientale (VIA) e per l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC);
b) difesa del suolo e lotta alla desertificazione, la tutela delle acque dall'inquinamento e la gestione delle risorse idriche;
c) gestione dei rifiuti e bonifica dei siti contaminati;
d) tutela dell'aria e la riduzione delle emissioni in atmosfera;
e) tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente;
Secondo la conferenza delle Regioni, la definitiva approvazione di questo decreto costituisce un atto unilaterale e centralistico che determina l'indebolimento delle politiche ambientali in Italia, apre ulteriori elementi d'incoerenza con le direttive dell'Unione europea, determina l'abbassamento dei livelli di tutela dell'ambiente e della salute a danno di tutti i cittadini senza, peraltro, che a questo possa corrispondere l'auspicata semplificazione delle procedure e dei processi attuativi per gli operatori e le imprese.
Il prodotto dell'elaborazione della Commissione, contrariamente a quanto preannunciato nel titolo della stessa legge, non si limita a coordinare, riordinare o integrare la normativa dei diversi settori di cui si compone la materia ambientale, ma mina le fondamenta su cui poggia l'attuale impianto normativo, senza peraltro fornire gli elementi per l'organizzazione di un diverso sistema. Il mero assemblaggio materiale di singoli testi nati separatamente non consente poi di ritenersi di fronte ad una "normativa in materia ambientale", non sussistono, infatti, i presupposti per considerare tale testo attuativo come un corpo unitario di norme, mancando un nucleo fondamentale di disposizioni di principio in cui inquadrare le diverse discipline settoriali. Mi guardo bene dall'entrare nelle dispute istituzionali o nei meandri delle procedure legislative, ma è chiaro che, già nel metodo, la genesi del "Codice dell'ambiente" ha sollevato più di una critica.
Dalla lunga e noiosissima lettura di qualche centinaio di articoli e al di là dell'elenco dei buoni propositi snocciolati dal ministro Matteoli, alcune osservazioni possono mettere in luce le tendenze di fondo di uno degli ultimi atti governativi di fine legislatura.
Valutazione di Impatto Ambientale sulla carta e non sul terreno
Una prima sottolineatura riguarda l'art. 5, (comma 1, lett.e), secondo cui le procedure di VIA (Valutazione Impatto Ambientale) si applicano ai "progetti preliminari", senza prevedere l'obbligo automatico di sottoporre a VIA i successivi progetti definitivi che contengano modifiche nel progetto stesso.
La consultazione dei soggetti istituzionali e la partecipazione del pubblico al processo decisionale, che nelle disposizioni europee sull'informazione e partecipazione in campo ambientale, sono elementi centrali e fondamentali della valutazione ambientale accompagnando l'intero processo sin dalle fasi iniziali, risultano, invece, nel titolo II del decreto in esame, relegati nella parte conclusiva dell'iter e sembrano incidere poco sul processo decisionale.
Per quanto riguarda la VIA, si rileva che negli elenchi allegati al decreto in esame (Elenchi A e B dell'Allegato III alla parte seconda del Decreto delegato, che includono i progetti assoggettati rispettivamente a VIA ed a Verifica - Screening) mancano alcune categorie progettuali inserite nelle direttive comunitarie. Non sono contemplate, ad esempio, le trivellazioni per lo stoccaggio dei residui nucleari, gli impianti industriali per la produzione di energia elettrica, la costruzione di centri commerciali e parcheggi, realizzazione di piste da sci.
L'indicazione (art. 36, comma 2) di effettuare presso comuni, province e regioni solo il deposito dello "stralcio del progetto e dello studio di impatto ambientale" si pone in contrasto con altre disposizioni comunitarie che prevedono la disponibilità sia per le autorità, che possono essere interessate per la loro specifica responsabilità, sia per il pubblico, dell'intera relazione tecnica.
Sono comunque esclusi dal campo di applicazione delle norme del decreto i piani e i programmi destinati a scopi di difesa nazionale caratterizzati da somma urgenza o coperti dal segreto di Stato.
Difesa del suolo e nuovi distretti idrografici
In materia di difesa del suolo, si nota come, l'individuazione degli otto nuovi Distretti idrografici, faccia perdere uno dei principi fondamentali introdotti dalla L. 183/89, vale a dire la dimensione del bacino idrografico come riferimento unico ed imprescindibile per ogni azione di pianificazione, programmazione e gestione della difesa del suolo e del ciclo delle acque; appare, infatti, incongruente con le logiche di bacino idrografico la suddivisione dell'Italia appenninica in tre distretti-fasce (settentrionale, centrale, meridionale) posti a cavallo del crinale, in quanto non vi sono ragioni per valutare insieme le problematiche territoriali della difesa del suolo e delle acque dei versanti tirrenico ed adriatico, separati ed indifferenti l'uno all'altro. L'individuazione dei distretti idrografici proposta risulta a dir poco improvvisata e arbitraria. In precedenza la normativa si fondava proprio sull'individuazione del bacino idrografico come unità ecosistemica di riferimento per una efficace attività di governo di difesa del suolo e tutela delle acque.
Ancora inceneritori e vantaggi per le imprese
In materia di gestione rifiuti, lo schema del nuovo decreto delegato non pone rimedio alle criticità ancora esistenti ma, peggio, interviene su alcuni aspetti della normativa vigente indebolendola.
Emerge con evidenza sin dalla prima analisi del testo che uno tra gli obiettivi principali è quello di sottrarre quanto più possibile i rifiuti da attività industriali ed artigianali, alla disciplina di settore escludendo le aziende da significativi obblighi di carattere sostanziale, anziché operare con alleggerimenti burocratici nell'ambito della normativa dei rifiuti. In tal modo si rende tortuoso e indecifrabile il percorso del rifiuto a partire dalla sua produzione. Evidenti perplessità permangono, infatti, sulle modalità e tempistica della compilazione dei registri di carico e scarico (art. 190) cui sarebbero sottoposti produttori, trasportatori, commercianti e intermediari che si "passano di mano in mano" i rifiuti.
Non sono soggetti alla normativa sui rifiuti i sottoprodotti che pur non costituendo oggetto dell'attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale e sono destinati ad un ulteriore impiego o consumo. L'utilizzazione deve essere certa e non eventuale, tale specificazione già indica quali orizzonti si possano aprire nel momento in cui il sottoprodotto non trovasse un adeguato riscontro economico nella sua commercializzazione.
Con un apposito articolo (n.186), particolarmente dettagliato, vengono espressamente escluse dall'ambito dei rifiuti e dall'applicazione della normativa le terre e rocce da scavo, tanto care ai "perforatori" dell'alta velocità, anche quando queste sono contaminate da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di estrazione. Tale norma mantiene evidenti contraddizioni rispetto agli orientamenti delle istituzioni comunitarie che, in merito alla disciplina delle terre e rocce da scavo di cui alle leggi n. 93/2001 e n. 443/2001 (delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici) hanno avviato nei confronti dello Stato italiano una specifica procedura di infrazione.
Nell'art.181 si legge che, per una corretta gestione dei rifiuti, si prevede il riutilizzo, il reimpiego e il riciclaggio. Tre righe sotto, però, si sottolinea la prospettiva dell'utilizzazione dei rifiuti per produrre energia, ovviamente attraverso la loro combustione negli inceneritori o in altri impianti, la cui realizzazione e gestione viene autorizzata secondo le norme tecniche stabilite dal ministero dell'ambiente in concerto con quello delle attività produttive.
Nella definizione di raccolta differenziata si legge che è considerata tale anche la separazione della frazione organica umida effettuata negli impianti di trattamento post raccolta. L'esperienza ventennale nella gestione di tale rifiuto consente di affermare con certezza che il rifiuto organico separato meccanicamente è di qualità scadente, non può essere recuperato ed ha come unica destinazione lo smaltimento in discarica.
Ancora una volta tale operazione è finalizzata ad ottenere un rifiuto con buone caratteristiche calorifiche più che un residuo organico di buona qualità da avviare al riciclo, operando una vera e propria inversione rispetto alle indicazioni del d.lgs. n. 22/1997 (decreto Ronchi) che, pur prevedendo l'incenerimento, considerava tale soluzione come ultima possibilità di smaltimento. Gli obiettivi di raccolta differenziata vengono completamente vanificati con lo spostamento al 2006 dei traguardi già fissati al 2003 (35% di RD).
Con medesima filosofia, nelle attività di recupero sono comprese quelle che utilizzano i rifiuti per generare combustibili (CDR o RDF = combustibili da rifiuto).
Il combustibile da rifiuti di qualità elevata CDR-Q (ma da cosa dipende la qualità elevata? Dalla certificazione UNI-EN ISO 2001?) è addirittura escluso dall'ambito di applicazione della parte quarta del decreto in questione ed è destinato all'utilizzo in co-combustione in impianti di produzione di energia elettrica e in cementifici.
Della serie... quello che non finisce negli inceneritori si brucia altrove!
Con un'altra "magia legislativa" (decreto n.387 29/12/03) il CDR-Q è classificato come fonte energetica rinnovabile, al pari del solare ed eolico per intenderci, in tal caso, non solo "non inquina" ma usufruisce anche degli incentivi previsti per le energie alternative.
Libertà di inquinare
Nell'art 267, in materia di tutela dell'aria, si raggiunge il massimo della presa per i fondelli quando, citando il protocollo di Kyoto nell'ottica della riduzione dell'emissione di sostanze inquinanti in atmosfera, si fa riferimento proprio alla produzione di energia elettrica attraverso impianti alimentati da fonti rinnovabili (cioè i rifiuti di qualità che diventano combustibili alternativi).
In materia di bonifica di siti inquinati, vengono introdotti nuovi vincoli procedurali che pongono pesanti limitazioni all'azione della Pubblica Amministrazione nei confronti di chi ha causato una situazione di inquinamento. La riforma si incentra comunque sull'introduzione della definizione di "messa in sicurezza operativa", tale modalità di intervento, benché essenzialmente prevista dalla legge delega, risulta andare oltre le previsioni dando implicitamente la possibilità alle aziende di inquinare le aree di propria competenza fatta salva la necessità di monitorare che tale inquinamento non causi problemi sanitari ai lavoratori e non si propaghi all'esterno.
La bonifica è rimandata non a quando l'azienda si sarà organizzata per farlo coordinatamente alle altre proprie attività, secondo un piano operativo eventualmente concordato, ma indefinitamente a quando l'attività stessa verrà dismessa. Ciò, per assurdo, potrebbe comportare il mantenimento di piccole attività fittizie su grandi aree industriali al solo scopo di non dover attuare il risanamento dell'area.
Viene ribadito il criterio del "chi inquina paga" ma la selezione e l'esecuzione degli interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in sicurezza è comunque riferita alle migliori tecniche di intervento a costi sostenibili (vale a dire che non bisogna infierire contro gli inquinatori che non hanno voluto inserire nei loro costi di produzione quelli finalizzati a non provocare danni all'ambiente).
Gli interventi di bonifica dei siti inquinati possono essere assistiti da contributi pubblici entro il limite massimo del 50% delle relative spese qualora sussistano preminenti interessi pubblici connessi ad esigenze di tutela igienico sanitaria e ambientale o occupazionali. Sono confermate le sanzioni attualmente in vigore; nel caso di imprese che occupino un numero di lavoratori inferiore alle 15 unità le misure sanzionatorie sono ridotte per più del 50%.
La cosiddetta semplificazione nasconde un altissimo rischio di allentamento delle maglie della tutela del bene ambiente. La reale portata e le conseguenze di tale operazione giuridica si potrà comunque verificare nel prossimo futuro. Per quel che ci riguarda, siamo più che mai convinti che solo attraverso l'informazione che deriva dalla conoscenza e l'organizzazione autogestionaria della comunità, che sul territorio vive, si costruiscono i presupposti a garanzia di una reale tutela dell'ambiente.
Umanità Nova, numero 10 del 19 marzo 2006, Anno 86