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La casa in collina

di Claudio Ughetto - 19/08/2009

 

Non avevo dei grossi strumenti letterari, 20 anni fa, quando m’appassionai di Pavese. Il più delle volte forzavo le mie interpretazioni servendomi di scarse conoscenze, disordinate letture e ossessive passioni. Di Pavese mi piaceva ciò che credevo d’intravedere in Joyce: la capacità di universalizzare le piccole vicende umane attraverso temi esistenziali riconoscibili, filtrati attraverso la quotidianità, l’archetipo e il mito. In realtà del mito sapevo poco, però partivo dalla convinzione che un romanzo regge quando lo scrittore riesce a far sì che alcuni dei temi in esso trattati, pur riguardando il suo tempo, si allarghino agli uomini di ogni tempo. Joyce, nell’Ulisse, narra il giorno di un uomo, ma quel giorno è il giorno di tutti gli uomini. (Volendo restringere il campo, è il giorno dell’uomo della modernità, con tutti i suoi dubbi). Pavese, nella Casa in collina, narra un preciso momento storico che va dalla caduta del fascismo all’acuirsi della resistenza e delle rappresaglie nazifasciste, eppure, attraverso la vicenda del suo alter-ego, Corrado, riesce a rappresentare non solo i propri dubbi e le proprie paure verso l’agire, ma anche come la guerra agisce nell’animo degli uomini. Non solo quella guerra, ma tutte le guerre.
La scrittura di Pavese è davvero magistrale, in questo: ha un ritmo tutto suo, si muove tra lirismo ed essenzialità, non fugge il “realismo”, eppure lo travalica com’è tipico dell’epica (non quella che piace ai Wu Ming, ma quella dell’uomo moderno, tipica dello scorso secolo) e diventa per davvero (usando parole sue, sebbene decontestualizzate) scheggia di monolito.
All’uscita del romanzo si discusse molto sul ruolo dell’intellettuale nell’Italia che cambiava; negli ultimi anni, invece, ha prevalso un punto di vista più strumentale riguardante l’accorata conclusione: se Pavese considera i morti repubblichini con pietà, allora si dovrebbero paragonare i combattenti dell’una e dell’altra parte. Solo che Pavese diceva altro: “ogni guerra è una guerra civile”, non puoi uccidere degli uomini, per quanto abominevoli, senza pensare che sono uomini come te. Tutto lì. Più semplice, eppure universalizzabile agli uomini di tutte le epoche. Ecco perché, tornando ad analizzare la prosa pavesiana, non posso evitare di pensare all’assenza di date e di riferimenti troppo precisi. Se togliessimo parole come fascisti (o i neri) o partigiani, sostituendoli con altri appellativi, o modificassimo ben poco, questo romanzo potrebbe essere ambientato in Bosnia qualche anno fa, in Cecenia tuttora, persino in Darfur, e quasi non ci accorgeremmo.
Un tempo alcuni amici mi dicevano che Pavese è datato, figlio del suo tempo, descrive una Torino che non c’è più, un Piemonte scomparso. In parte avevano ragione, ma sarebbe come mettere in pensione Dostoevskij perché parla della Russia di due secoli fa. In quanto a indagine sull’uomo, e capacità di rappresentarlo nelle sue sfaccettare più intime, Pavese rimane attualissimo. Persino il suo tema apparentemente più obsolescente, quello del contrasto città/campagna, sembra anticipare alcune visioni attuali, se diversamente interpretato. Fior di registi[1] e scrittori di questi anni si sono sforzati di rappresentare la violenza dei conflitti umani all’interno dell’impassibile e affascinante indifferenza della natura. Tutto questo Pavese lo intuisce con 50 anni d’anticipo. Probabilmente Omero l’aveva intuito millenni prima di lui.

NOTE
[1]  Penso, ad esempio, alla Sottile linea rossa di Terence Malick.