Ricordare l’origine. Riflessioni geofilosofiche*
di Caterina Resta - 22/03/2006
Fonte: geofilosofia.it
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Nella sua celebre Erörterung della poesia di Trakl, Heidegger si sofferma a ricordare come il significato originario di Ort – la parola tedesca per dire ‘luogo’ – rinvii alla punta di una lancia:
«Tutte le parti della lancia convergono nella punta. L’Ort riunisce attirando verso di sé in quanto punto più alto ed estremo. Ciò che riunisce trapassa e permea di sé tutto. L’Ort, come quel che riunisce, trae a sé, custodisce ciò che a sé ha tratto, non però al modo di uno scrigno, bensì in maniera da penetrarlo nella sua propria luce, dandogli solo così la possibilità di dispiegarsi nel suo vero essere» (1).
Il Luogo è quel punto di convergenza, di riunione e di raccoglimento [Versammlung] in cui, come nella punta acuminata di una lancia, in virtù di una irresistibile attrazione, lo spazio si concentra. Centro(2) di un’invisibile croce, ogni Luogo è perciò anche al contempo umbilicus e Axis mundi, punto di congiunzione tra cielo e terra, Geviert (3), per usare un’espressione di Heidegger, che indica, nella riunione della quadratura, il crocevia tra cielo e terra, divini e mortali, dispiegando lo spazio entro il quale è possibile per l’uomo abitare.
Il Luogo dunque custodisce e salvaguarda il soggiornare dell’uomo sulla terra, non come uno scrigno che trattenga chiuso in sé il suo prezioso contenuto, rendendolo in qualche modo inaccessibile, ma, al contrario, illuminandolo e portandolo in quella luce nella quale soltanto ciascuna cosa potrà dispiegare la propria essenza. È quell’Aperto che ogni volta, in ogni dove, dischiude un mondo, rendendolo spazio abitabile per l’uomo, nel reciproco corrispondersi di cielo e terra, umani e divini, all’incrocio di quelle direzioni che nello spazio-tempo si intersecano, generando Luoghi, venire al mondo di una terra-sotto-il-cielo, sulla quale i mortali soggiornano con-finati entro un limite che è proprio di ciascun ente, ma, al contempo, rivolti al cielo, al silenzioso richiamo che proviene da Altrove.
Sono Luoghi le nostre città? Consentono davvero spazio e tempo all’abitare? Gli edifici disordinatamente assemblati nello spazio urbano sono ancora dimore capaci di custodire Geviert? «Il luogo è un ricetto [Hut] della Quadratura, o, come dice la stessa parola, un Huis, un Haus, una dimora» (4). Esistono ancora Luoghi, o non hanno ormai preso il sopravvento quei non-luoghi di cui parla Marc Augé (5) – aeroporti, grandi complessi alberghieri, centri commerciali e ipermercati – icone eloquenti di una mondializzazione omologante che azzera differenze e cancella la singolarità dei luoghi?
Vengono da lontano le ragioni di questa progressiva uniformazione. Nietzsche è stato tra i primi a prevederla e a descriverla nel modo più appropriato come un «deserto che cresce» e che non solo inaridisce progressivamente la terra, riducendo a uniforme paesaggio desertico quelli che erano terreni fertili e coltivati, ma anche non consente ogni crescita futura. A questo processo che impedisce ogni possibile radicamento Nietzsche diede il nome di “nichilismo europeo”, scorgendo in esso «il più inquietante degli ospiti», quella “malattia mortale” che, da lungo tempo in incubazione sul suolo europeo, si sarebbe propagata per l’intero globo, identificandosi con quel movimento di occidentalizzazione del mondo che è ormai divenuto realtà del nostro tempo. Dopo di lui, la parola ‘nichilismo’ accomunerà le analisi più acute dell’epoca presente, declinandone, seppure da punti di vista diversi, i tratti essenziali: sarà per Jünger il nichilismo dell’Operaio, servitore della tecnica, che, con la sua uniforme, spianerà il mondo a propria immagine e somiglianza, tutto riducendo a Lavoro, a regno della quantità e del calcolo, in un poderoso processo di unificazione e uniformazione planetaria, nel quale ogni differenza è destinata a sparire, facendo ovunque tabula rasa nella sua inarrestabile marcia. Heidegger descriverà invece il nichilismo come sradicamento e perdita di radici [Entwurzelung], come Heimatlosigkeit, spaesamento, riconoscendovi la Stimmung del nostro tempo e quella logica interna a tutto il pensiero occidentale, che solo da ultimo – e soprattutto a partire dall’Età moderna – giunge finalmente in chiaro. Ma sicuramente si deve a Carl Schmitt l’analisi più dettagliata del processo storico che ha condotto infine ad una inesorabile Entortung, ad una de-localizzazione senza precedenti, inaugurando quella globale Zeit nella quale non solo tutto il globo terrestre appare perfettamente compreso in uno sguardo complessivo, ma anche, da ultimo, refrattario ad un nomos in grado di ordinarlo, come un’immensa distesa oceanica, superficie liscia e indifferenziata, al pari di un deserto (6).
La perdita del Luogo si compie dunque nell’orizzonte del nichilismo come un processo che attiene alla logica interna della ratio occidentale divenuta unico pensiero dominante sull’orbe terracqueo: ogni tentativo di ri-localizzazione dovrà fare necessariamente i conti con questa storia, con il destino stesso dell’Occidente divenuto mondo, senza consolarsi in nostalgiche tentazioni regressive, ma, piuttosto, procedendo oltre l’inevitabile tramonto di ciò che è stato.
È forse un Luogo Messina? C’è ancora una seppur debole traccia di quel Geviert che solo consente all’uomo di dirsi “abitante”? Davvero disperate appaiono queste domande, davvero “fuori luogo” se rivolte ad una città che ha fatto della de-localizzazione il suo primo e solo imperativo, perseguito con ostinata coerenza. Ironico e derisorio, se non addirittura provocatorio, invocare i divini e i mortali, il cielo e la terra per una realtà il cui degrado, la cui de culturazione fa rimpiangere persino la dura ascesi del deserto. Poiché Messina non è semplicemente spazio de-localizzato, puro deserto o piatta distesa oceanica, non è semplicemente l’uniforme su cui sperare di poter imprimere nuovi ordini, ma è il deforme che riconduce all’informe, al caos, all’anarchia, che è assenza di Principio e di Misura, Babele, città della totale Confusione. Basta giungere dal mare per accorgersi, in un colpo d’occhio, in un’unica sorprendente veduta, di avere davanti non l’immagine di un centro abitato, ma un’accozzaglia disordinata di cemento, piovuto non si sa da dove né come, che scempia quella che per puro sforzo di fantasia retrospettiva, si può intuire sia stata la bellezza del sito naturale, ormai irrimediabilmente sfregiato. Raramente, credo, tanta disarmonia può apparire con maggiore evidenza o essere più stridente. Ma quello che ad uno sguardo d’insieme appare incoerente disordine incapace di cor-rispondere al luogo, visto dall’interno si rivela un autentico inferno: non una città, ma un fiume, perennemente in piena, di mezzi più o meno pesanti che a tutte le ore, con rumore incessante ed assordante, tracima e invade ogni spazio. Ciò che rimane è solo desolazione e degrado, rifiuti e sporcizia, vergognose baraccopoli o squallidi quartieri un tempo periferici, ormai confitti nel cuore stesso della città. Per non parlare dei nuovi insediamenti che ogni giorno vomitano cemento a pioggia con villette a schiera o megalitici complessi residenziali, solo nuovo scempio che si aggiunge a quello già esistente.
Come “abitare”, come trovare dimora là dove tutto sembra asservito alla logica del transito, del passaggio, dello scorrimento? Come stare in questa furiosa corrente che trascina uomini e cose nella sua corsa devastante, lasciandosi ai margini detriti e rifiuti che si sedimentano in ampie zone di devastazione, spesso dimenticate?
Città ou-topica, Messina, per quanto ironica possa suonare questa definizione, abituati come siamo a confondere utopia con eu-topia, con l’idea di uno spazio felice, sogno di un paradiso terrestre nel quale finalmente realizzare il desiderio di un’organizzazione sociale e spaziale perfettamente ordinata e compiuta. Sogno non a caso presto trasformatosi in incubo, nelle sue versioni fantascientifiche più tarde, come nei vari tentativi di applicazione pratica, perché traduzione in concreto di una istanza totalitaria e immanentistica che non lascia vie di fuga.
Figlia della Modernità e dell’affermarsi della razionalità scientifica, l’utopia può divenire un fortunato genere letterario solo perché corrisponde allo spirito di un tempo per il quale l’horror vacui si è trasformato nell’esaltante percezione di uno spazio omogeneo e vuoto, perfettamente padroneggiabile attraverso la matematizzazione del reale e il calcolo, interamente sottoposto alla volontà di potenza di un progettare astratto perché si esercita a partire da un mondo disanimato e privo di ogni aspetto qualitativo. Da questo vuoto, da questo niente, tutto può essere edificato-costruito, infinitamente manipolato, trasformato, dall’ambiente naturale alla stessa natura umana, come le recenti frontiere della biotecnologica dimostrano.
Ou-topia (7) nomina allora quella nichilistica de-localizzazione che annienta ogni differenza qualitativa e che, trasformando il Luogo in uno spazio amorfo drasticamente ridotto a tabula rasa, lo priva perciò anche del suo intrinseco carattere geostorico e delle sue valenze geosimboliche. Deserto (Nietzsche), là dove la sabbia avanza a perdita d’occhio, in uno spazio sempreuguale senza più limiti tracciabili e riconoscibili; oppure Oceano (Schmitt), la cui infinita distesa, superficie assolutamente liscia, irride ogni con-fine e possibile de-finizione: queste sono le immagini forse più eloquenti per descrivere il niente che ci circonda e la perdita della capacità di trasformare lo spazio in un Luogo abitabile.
Messina di questo niente ha fatto il proprio imperativo urbanistico, mostrando come sul nulla possano crescere solo spazi anarchici e caotici, incapaci di raggiungere una Forma.
Di questo Informe Messina è sconcertante specchio, da esso traggono ispirazione tutti i suoi timidi o temerari tentativi di cercare quel Luogo che le manca. Forse bisognerebbe semplicemente concludere che Messina “non ha luogo”, avendo sinanche smarrito il ricordo del Luogo che pure, per lungo tempo, è stata capace di essere.
3. L’origine dimenticata
Er-örterung, almeno nel singolare significato che Heidegger attribuisce a questa parola, suonerà allora come il contrario di Ent-ortung: se quest’ultima indica il nichilistico processo di de localizzazione che strappa via ogni radice e cancella ogni Dove, Er-örtern vorrà allora dire “indicare il luogo”, mettersi alla ricerca del Luogo [Ort], ritrovarlo, persino, non tanto nel senso puramente “conservatore” di resuscitare il passato, quanto nel senso, tutto rivolto all’avvenire, di ritrovare quella Origine, mai immediatamente attingibile, a partire dalla quale soltanto sorge un Luogo.
Mettersi alla ricerca del Luogo, di quel Luogo che Messina ormai da molto tempo ha cessato di essere, significa mettersi in cammino verso la sua origine, verso l’origine della sua forma urbis. Su questa via, storia e geomorfologia s’incontrano, intrecciando un rapporto davvero inestricabile che segnerà sin dall’inizio il destino della città: constatare quanto sia stato smarrito il senso e addirittura i segni di questo ineluttabile incontro è la più eloquente testimonianza dello smarrimento e della de-localizzazione che, per quanto del tutto inconsapevolmente, caratterizza ormai i suoi abitanti.
Dove origina Messina? Non v’è dubbio che a questa domanda vi sia una sola risposta: nel suo nome più antico, Zankle, il primo insediamento urbano riconobbe nell’esigua striscia di terra a forma di falce [zanklon] un indissolubile legame geostorico. In quella falce che il mito fa risalire addirittura a Crono, con la quale egli avrebbe evirato il padre Urano, per poi gettarla ancora sanguinante in mare, principia, prende forma, inizia la città, segnandone per sempre il destino, una storia che, a partire dalla straordinaria posizione geografica di questa lingua di terra scagliata in mezzo allo Stretto e alle sue ritmiche correnti, farà di Messina una città medi-terranea, tanto più carica di avvenire, quanto più in grado di prestare ascolto al richiamo della sua origine, a quel serrato dialogo tra terra e mare da cui è, all’inizio, sorta. Un dialogo che sicuramente conobbe tra Cinquecento e Seicento il suo momento di massima intesa, nel progetto di Jacopo Del Duca di abbattere la cinta muraria medievale che chiudeva difensivamente lo spazio urbano al suo affaccio sullo Stretto, per aprire la città al diretto confronto con il mare, nella consapevolezza ormai raggiunta di un continuum che unisce la zona falcata alla banchina del porto e che troverà straordinaria e matura espressione architettonica nella Palazzata, realizzazione di un teatro marittimo che, nel visionario progetto di Juvarra, avrebbe dovuto spingersi fino a Capo Peloro. Falce e Peloro, come aveva già presentito Strabone, appaiono ormai inscindibilmente uniti (8), nel disegno di un confine terracqueo che definisce la città stessa, dal suo punto d’origine fino all’estremo lembo un cui si spartisce tra i due mari. Lungo questo asse prende forma la città che nella punta della Falce inizia per compiersi nell’altra punta, il Peloro, inizio ancora più “antico”, dove si origina e prende forma, tagliandosi dal continente, l’intera Isola. Se capo Peloro avanza nel mare come una prua, all’incrocio delle correnti, la Falce cerca invece di circuirlo, di sedarlo, di trattenerlo in un abbraccio, offrendo il riparo del porto. Qui, non altrove, riconosciamo, seppure terribilmente sfregiati, l’originaria presenza di Luoghi e solo qui, nel contrappunto tra Falce e Peloro, può dispiegarsi la forma urbis di Messina, che solo dal riconoscimento della Falce come proprio luogo d’origine potrà ancora, forse, trovare se stessa.
Qui l’Erörterung può arrestarsi poiché il Luogo sembra infine rivelarsi e attestare la sua profonda misura.
Per chi si affaccia sullo Stretto, appare subito chiara la complessa rilevanza geostorica di questo sito che non ha pari nel Mediterraneo. La Lingua phari, infatti, col suo braccio ricurvo, è da un lato, nella sua forma concava, terra che si incunea nel mare dello Stretto come un corpo flessuoso ripiegato appena, creando con il proprio ventre l’insenatura del porto, spazio riparato da venti e correnti, mentre dall’altro offre la schiena al mare aperto dello Stretto, esponendosi al ritmico incontro delle correnti come al soffiare dello scirocco. Se una sponda, dunque, ri-guarda la città, rispecchiandola nella superficie di un mare recintato dalla terraferma, abbracciato, raccolto, acquietato nel riparo del grembo portuale, l’altra sponda, invece, oltre il mare, giunge a dialogare con il bordo continentale, guarda il taglio d’acqua che l’ha separata dall’altra terra, continuamente lo ricorda come quella frattura originaria che fa della Sicilia un’isola, nesos, qualcosa che naviga, secondo una radice indoeuropea (9).
Ma oltre al rapporto tra questi due mari, la Falce instaura anche un rapporto tra due terre: la terra della zona falcata, la Lingua phari, e la terra nella quale questo braccio si innesta, il corpo da cui si diparte per cingere il mare. Ancora una volta tutta la storia di Messina sarà condizionata da questa geomorfologia, nel problematico rapporto tra braccio e corpo: strettamente congiunti l’uno all’altro, tanto da far percepire la Falce come una penisola, più spesso, invece, violentemente separati, distaccati, fino a fare della Falce un’isola. Emblematici momenti di questa insularità, la costruzione nel 1680 della Cittadella che taglia la lingua di terra dal resto della città, ma più ancora la barriera architettonica creata dalla Stazione marittima delle navi traghetto, con il conseguente intrico di binari, e dalla chiusura degli ampi spazi occupati dalla Marina militare.
Terramare, la zona falcata è emblema eloquente di quell’incessante dialogo da cui sorgono le città mediterranee. Esse, infatti, non giacciono sulla sponda dell’Illimite, non guardano il mare aperto dell’Oceano, spazio privo di misura e refrattario a ogni nomos, deserto d’acque su cui non si riesce a tracciare confini, a ritagliare forme e figure, superficie liscia e uniforme, spazio del sempreoltre, dell’incessante attraversamento e perciò del più assoluto sradicamento. Nulla più del mare di Messina è medi-terraneo, porthmos e poros al contempo, stretto braccio equoreo circondato da terre, passaggio, scorrimento, ma trattenuto, contenuto tra sponde terranee. In pochi luoghi del Mediterraneo il contrasto, l’attrito tra terra e mare fu più stridente, a partire da quello strappo originario, da quella cesura primordiale che fece di Sicilia un’isola, un nesos fluttuante nelle acque, di fronte a quel che, saldamente ancorato, restava epeiros, terra firma. Scilla e Cariddi di null’altro sono mitico riferimento se non dell’arrischio di questa frattura, imperitura memoria di un contrasto mai sedato che separa, ma al tempo stesso unisce, mari e terre, al crocevia del Mediterraneo. Costantemente di fronte a questo polemos si trova Peloro, ad esso continuamente richiama la Falce bifronte e solo qui esso appare, anche se solo per un istante, finalmente sedato. Come Eraclito suggerisce, un’invisibile armonia si schiude al cuore della più lacerante discordia e la lingua di terra falcata, nella sua stessa morfologia, ne è sorprendente ed eloquente attestazione. Essa offre il fianco a questo contrasto, ma per sedarlo nel porto; si protende nel mare, ma per abbracciarlo e tenerlo fermo. Come ha scritto Massimo Cacciari «il porto non può che essere l’istante, atopos per definizione, in cui mare e terra trapassano l’uno nell’altro. “Luogo”, cioè, del massimo pericolo, dove si fa esperienza del massimo pericolo» (10). Mentre ou-topos, illocalizzabile è lo spazio privo di nomos, a-topos è invece il frat-tempo in cui il Luogo stesso si dischiude, sospeso al suo arrischio, tra mare e terra. Qui, nella Falce, il taglio che li separa continuamente si mostra, ma pure si accenna con non minore evidenza a quella profonda unità che li collega, mantenendoli nella loro assoluta distinzione. Luogo visibile dell’invisibile armonia dei due. Di che altro parla il mare riparato del porto se non di questo precario, insostenibile equilibrio tra mare e terra, se non di quella guerra tra il richiamo dell’Illimite, dell’Indefinito e il suo scontrarsi incessante con il confine terraneo? Luogo della massima insecuritas, il porto è figura di questo insanabile contrasto, punto, al contempo, di approdo e di partenza, di un movimento che costantemente cerca un precario equilibrio tra l’appello terraneo a stare ed il richiamo del mare ad andare. Nessuno meglio dell’Ulisse omerico ha saputo incarnare questa duplice tensione nel suo viaggio tra i porti del Mediterraneo, nessuno meglio dell’Ulisse dantesco ha mostrato, invece, dove conduce la dismisura del richiamo dell’Oceano, mare dell’Illimite, perché non contornato di terre (11).
La Falce del porto ha conosciuto simili navigatori mediterranei, i suoi stessi abitanti furono tra i più intraprendenti di loro. Ma il loro viaggio sembra ormai essersi definitivamente concluso; mollati gli ormeggi, alla loro partenza non ha mai più fatto seguito un ritorno. Il grande emporio al centro del Mediterraneo, gli scambi e commerci non solo di mercanzie, ma di lingue, culture, saperi, appaiono ormai solo un ricordo lontanissimo, per i pochi che ne serbano memoria ormai solo storica. Tra le due sponde dello stretto viaggiano da tempo solo cose e persone, scivolando veloci come lungo un’autostrada: il ponte sullo Stretto, invisibilmente, è già da tempo stato costruito. Nulla più è in grado di trattenere, di sedare questo movimento pendolare che attraversa una città ridotta a mero luogo di transito e passaggio, incapace di ritrovare quel nomos che l’ha resa grande, quella misura tra terra e mare che pure la Falce, sommessamente e disperatamente, continua a testimoniare, nonostante tutto, a chi sappia scorgere oltre il suo evidente degrado, la sedimentazione di memoria che, per quanto derisoriamente, in essa ancora sopravvive.
5. Anamnesi
Sottratta alla città e alla fruizione dei suoi abitanti o di quanti volessero a vario titolo fruirne, la penisola della Falce appare oggi in tutto il suo oltraggioso isolamento come terra di nessuno, isola che naviga alla deriva, completamente dimenticata, mentre la sua memoria storica, paesaggistica e ambientale appare per molti versi irrimediabilmente scempiata dall’incuria dell’uomo, coperta e occultata da un utilizzo assolutamente improprio degli spazi, oltre che da rifiuti di ogni genere che ne accentuano la desolazione e il degrado.
Nello smarrimento del suo luogo d’origine, Messina ha dimenticato il suo mare, così come ha dimenticato la sua terra. Lì dove la terra trema e continuamente rade al suolo quanto l’uomo ha faticosamente edificato, facendo tabula rasa della sua memoria storica, lì dove la terra è massimamente infirma e precaria, mostrando continuamente all’uomo l’assoluta vanità delle sue opere, come la radicale finitezza dei suoi giorni, non è certo facile “abitare”. Messina sembra infine essersi arresa di fronte al suo destino di precarietà, di fronte alla transitorietà, sicché il transito, il passaggio sono diventati oggi la sua devastante vocazione, il suo autolesionistico cupio dissolvi. Come se il terremoto, da episodica calamità, fosse ormai divenuto condizione normale, norma. Ma i passaggi si possono solo attraversare; essi non consentono alcuna possibilità di dimora. Per questo Messina non è più un Luogo ed essere Messinesi ha finito con il coincidere con questa impossibilità a identificarsi, ad appartenere a uno spazio e a un tempo definibili. Smemorati abitanti, si aggirano nel febbrile movimento che percorre la città che trema di queste impercettibili, ma incessanti scosse.
Se la terra trema, il mare, invece, appare del tutto sedato: non luogo dell’arrischio né dello scambio e del confronto con l’altro, ma puro e semplice raccordo autostradale tra le due sponde. Della sua antica bellezza, paesaggistica e monumentale al contempo, Messina serba solo antiquario e distratto ricordo in stampe troppo antiche e lontane nel tempo, da guardare col dovuto distacco, estrema testimonianza di quel corrispondersi tra la bellezza naturale del sito e quella storico-artistica che grandi architetti come Montorsoli, Jacopo del Duca, Ponzello o Juvarra avevano mirabilmente saputo interpretare nel comporre in sorprendente consapevolezza geostorica. Di tutto ciò quasi più nessuna traccia è rimasta, poiché là dove l’ultimo terremoto ha raso al suolo la memoria storica dei monumenti cittadini, la successiva opera costruttiva dell’uomo non è stata meno devastante, incapace di saper più interpretare quell’intreccio geostorico in virtù del quale soltanto Messina può avere ed essere Luogo.
È passato ormai quasi un secolo da quella terribile alba del 28 dicembre del 1908 che cancellò identità e memorie, inghiottendo come in una voragine il presente insieme al passato. Da allora Messina attende ancora un altro inizio, attende che il terremoto finisca. E da dove cominciare, se non dalla propria origine, da quella sottile striscia ricurva di terra, da quella falce cronia in cui storia e mito, mare e terra prodigiosamente all’Inizio si sono incontrati dando luogo a Messina? Proprio qui, d’altra parte, quasi miracolosamente, sono rimaste ancora tracce significative di una memoria altrove cancellata: gli straordinari resti della Cittadella, la lanterna di Montorsoli, i ruderi del forte di S. Salvatore, per non parlare delle testimonianze ancora più antiche, che risalgono fino ai primissimi insediamenti.
Ogni Luogo, infatti, non può aprirsi se non nella consapevolezza geostorica che è chiamato a esibire: senza questa memoria, che sempre annoda in un misterioso corrispondersi storia della terra e storia dell’uomo, nessun vero abitare è possibile. Messina ha un grande passato storico ed una prodigiosa collocazione geografica e paesaggistica: saprà ancora una volta, come in passato, ritrovare se stessa, nel suo inevitabile essere diventata altra? Poiché non si tratta evidentemente di resuscitare il passato, ma di ereditarlo. La memoria geostorica senza la quale è ou-topia, non si deposita infatti come una serie di dati disponibili in un archivio, che a piacimento basta consultare. Non assomiglia ad un grande magazzino dove più o meno ordinati o abbandonati giacciono vecchi arnesi ormai inutilizzabili, secondo una logica puramente museale. Sentirsi eredi del passato significa essere capaci di renderlo ancora una volta attuale, di corrispondervi in forme nuove, di testimoniarne, pur nella consapevolezza del suo essere irrimediabilmente trascorso. Non mera archiviazione, né ripetizione, un’eredità è ciò che siamo chiamati ad assumerci in vista dell’avvenire, affinché ci sia avvenire, dal momento che non vi può essere futuro senza memoria del passato.
La Falce e, a partire da essa, l’intera città di Messina, hanno bisogno di questa anamnesi per risalire al proprio primo inizio e, di lì, poter iniziare ancora una volta. La città potrà tornare ad essere Luogo solo se saprà riappropriarsi del suo luogo d’origine, se saprà, a partire da esso, risalire alla propria originaria Forma e così ritrovare ciò che le è proprio. Sapranno i Messinesi ricordare la loro origine, sapranno riascoltare l’inaudito dialogo tra terra e mare che trascorreva tra le sponde dello Stretto, sapranno ricongiungere Falce e Peloro in una nuova forma urbis? Queste sono le domande, questi gli imperativi che si impongono. Ma essi mi sembrano sinora essere caduti nel vuoto, essere rimasti inascoltati, irrisi, persino, da una cittadinanza completamente immemore, che ha smarrito il senso della propria appartenenza e sembra finanche indifferente di fronte a questa esigenza. Abituati al passaggio, abbiamo totalmente perduto il senso dello stare. Ma, per quanto divenuta ormai quasi invisibile, quella piccola falce piovuta dal cielo nel cuore del Mediterraneo ci ricorda chi siamo, da dove veniamo, verso dove potremmo essere diretti, potrebbe forse offrirci un Luogo per le nostre dimore, se ancora è possibile soggiornare, nell’armonico accordo di terra e di mare, sotto la volta di un azzurrissimo cielo. Sapremo ancora una volta renderlo spazio abitabile?
7. È in questa accezione che Carl Schmitt coniuga strettamente utopia e nichilismo nella prospettiva – tutta moderna – di una inesorabile Entortung. Ancora in questa stessa accezione ne parla M. Cacciari, Di naufragi e utopie, in L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997. 8. All’ascolto del «dialogo serrato tra Zankle e Peloro» (p. 65) è protesa tutta la riflessione di N. Aricò, Illimite Peloro, cit. La stretta relazione che lega Falce e Peloro viene sottolineata anche da A.M. Prestianni, Il Peloro nell’antichità. Mito scienza storia, “Pelorias”, 9, 2002. |