Aboliamo la scuola?
di Antonio Orlando - 22/03/2006
Fonte: Arianna Editrice
Ogni mattina un piccolo esercito di uomini e donne, animati da indomita passione e consci della loro missione civilizzatrice, fa il suo solenne ingresso in austeri edifici pubblici rigurgitanti di adolescenti e di giovani virgulti italici, per spargere a piene mani il sapere e la conoscenza e forgiare così i futuri cittadini della Nazione. Tranquilli, stavo scherzando. Questo è l’incipit della voce “insegnamento” nella “Grande Enciclopedia Pratica della casa” edita da Garzanti nel 1937.
Oggi i professori – di più le professoresse – continuano a fare il loro ingresso, in verità molto dimesso e sempre più stanco, nelle aule, ma assomigliano ad un esercito in rotta che ha, da tempo, ceduto ogni proposito battagliero. E del resto quale entusiasmo vi può essere in una professoressa che, tutte le mattine, con il pullman o con la propria macchina, dopo aver percorso magari un'ora di strada, si va ad infilare in aula per spiegare Aristotele o la perifrastica passiva o la Nota integrativa o un qualsiasi altro argomento a venticinque adolescenti in tumulto e del tutto disinteressati alle sue parole ? Poi uscirà, intorno alle 14,00, per tornare a casa, cucinare, fare la spesa, lavare e stirare e, a sera, sedersi a correggere compiti sgrammaticati e senza senso, preparare lezioni e cercare pure di aggiornarsi ed informarsi. Il tutto per uno stipendio che, dopo quindici anni di ininterrotto servizio, supera appena i mille euro. Ma chi glielo fa fare ? Questa domanda rischia di non avere risposta o, come pensava Beniamino Placido già quindici anni fa, l'unica risposta sensata non potrebbe essere altra che quella contenuta nel titolo.
Il bello è che uno degli editorialisti di punta del Corriere della sera – Geminello Alvi -, in un suo recentissimo saggio, classifica lo stipendio degli insegnanti tra le rendite alla pari con i capital gain, con gli affitti di immobili e i dividendi azionari. Peccato che poi non concluda, come il Prezzolini di novant'anni fa, che sarebbe meglio abolire completamente la Scuola. Inseguire l'opinione corrente su questo terreno non porta a grandi risultati. I luoghi comuni, si sa, sono duri a morire: gli insegnanti sono dei fannulloni, lavorano, si e no, quattro ore al giorno, hanno tre mesi di ferie pagate, ferie a natale e a pasqua, gite gratuite (ed osano pure divertirsi), sono ignoranti, sono retrogradi, non sanno usare il computer e, in buona sostanza, per quello che fanno, guadagnano anche troppo. Sono dei privilegiati, dei rentiers, appunto. La diffusione di questi stereotipi autorizza chiunque a parlare di scuola, a discettare sulla didattica e sull'organizzazione scolastica anche se, a stento, ha conseguito la terza media e anche se non ha mai messo piede in un'aula. Forse si sente autorizzato dal fatto che i propri figli frequentano una scuola o forse perché gli hanno fatto credere di essere diventato utente e compartecipante ( azionista ?) della struttura scolastica. Fatto sta che di scuola si parla ovunque, al supermercato, dal parrucchiere, in ufficio, negli ospedali, ai giardini pubblici meno che nel luogo a ciò deputato: la Scuola.
Tant'è che è passata una riforma, definita dal ministro “storica”, “epocale” ed “innovativa” ( “rivoluzionaria” la Moratti non lo direbbe mai), senza che gli insegnanti lo sapessero, senza che gli insegnanti siano stati consultati o, anche, semplicemente informati. I diretti interessati non hanno mai potuto discutere del loro lavoro, della didattica, dell'organizzazione scolastica, del rapporto con gli studenti, del rapporto con le famiglie, con la società, con gli enti territoriali, con i sindacati, con le università e con il c.d. “mondo del lavoro”.
I docenti vengono trattati come degli esecutori di ordini ai quali bisogna spiegare le cose fin nei minimi particolari perché o è gente che ha la testa tra le nuvole o è gente che svolge un compito (insegnare non è un lavoro, nei tempi belli era, tutt'al più, “una missione”) evanescente e perciò bisogna ancorare a solide e rigide norme di attuazione la loro (presunta) prestazione lavorativa.
Solo così si spiega l'enorme catasta di carta e moduli che gli insegnanti sono chiamati a riempire quasi quotidianamente perché la loro attività (continuo a sostenere che insegnare non è considerato un lavoro) in questo modo, si oggettivizza, si concretizza e, quindi, si realizza. Le ore di lezione non contano, il diuturno dialogo con i propri studenti sono solo chiacchiere, il tentativo di impartire un'educazione è solo perdita di tempo e puro velleitarismo, quello che conta sono le carte, come dicono spesso i presidi, ora diventati “dirigenti scolastici”, che devono essere sempre “in perfetto ordine”.
Se si riflette seriamente sull'organizzazione del lavoro scolastico non si può fare a meno di notare che esso è fondato su due esclusivi pilastri: i docenti e i discenti, dietro questi fino ad un certo punto – diciamo fino all'attuale biennio della scuola superiore - ci dovrebbero essere le famiglie. Tutto il resto, comprese le segreterie, i bidelli, i tecnici, etc., sono inutili ed ininfluenti orpelli dei quali, se vogliamo esasperare il discorso, si potrebbe anche fare a meno. Invece, la centralità dell'insegnamento è stata completamente dimenticata e viene subordinata alla ricerca di una efficienza di stampo burocratico che vede nei dirigenti scolastici, contemporaneamente, il vertice ed il terminale della struttura.
Aver trasformato il vecchio preside in un dirigente e pretendere di farne un manager ha significato stravolgere dalle fondamenta l'organizzazione di trasmissione del sapere. E' incontestabile che non si poteva restare fermi, per dirla in modo molto semplice, “alla penna e all'abbecedario”, dal momento che le nuove tecnologie hanno trasformato il nostro rapporto con la conoscenza, la cultura, la scienza ed il sapere. In una parola, hanno trasformato la nostra vita. Tuttavia pretendere di strutturare la scuola come fosse un qualsiasi ufficio pubblico, pretendere di creare una gerarchizzazione interna dei suoi componenti, pretendere di suddividere, parcellizzare e frammentare il lavoro dell'insegnante, pretendere di burocratizzare il rapporto con le famiglie (perfino la Corte di Cassazione ha riconosciuto che le famiglie, al momento dell'iscrizione dei propri figli, concludono un contratto e quindi l'attività di insegnamento rientra tra le prestazioni di tipo contrattuale, il che è tutto dire) significa rinunciare alla “educazione” dei giovani a favore di una generica formazione professionalizzante che, tutt'al più, ci darà dei perfetti robot incapaci di pensare però bravissimi nell'eseguire.
Si dirà che i giovani oggi sono troppo distratti da altre cose, che hanno troppo, che sono svagati, indifferenti, menefreghisti, insicuri, fragili e chi più ne ha più ne metta. Molti sostengono che è il docente che deve “motivarli”, interessarli, spronarli allo studio per cui qualsiasi fallimento o qualsiasi insuccesso è addebitabile al docente stesso, il quale non sa insegnare, non sa esporre, non ha metodo, non ha strumenti con i quali “relazionarsi” con gli studenti. Su tutto questo si potrebbe aprire una discussione nel merito e ciascun docente, forte della propria esperienza, potrebbe offrire un valido contributo, ma non è questo il punto. Che esista una problematica metodologica dell'insegnamento è questione immensa, non risolvibile certo con un articolo e neppure con un saggio in materia. Questo, però, non preoccupa minimamente né il ministero né i dirigenti, a loro non interessa la didattica, a loro interessano altre cose.
Il punto è che gli insegnanti, prima sono stati beffeggiati, umiliati ed isolati e poi sono stati lasciati soli e trasformati in piccoli caporali all'interno di un esercito che vede sottocapi e capetti, sergenti ed ufficiali, tutti tesi ad ingraziarsi “il grande capo”, che come un satrapo distribuisce incarichi e prebende circondato da una corte di collaboratori proni ad ogni un suo desiderio pur di compiacerlo.
Il nuovo e moderno insegnante non è più un educatore e un maestro bensì deve diventare un esecutore di progetti, un organizzatore di stage, un coordinatore di gruppi, deve saper lavorare in team, elaborare documenti dalle sigle astruse, svolgere funzioni-obiettivo e quanto altro serva all'organizzazione di una “comunità scolastica” aperta, moderna, inclusiva, avvolgente e coinvolgente. Insomma deve fare tutto, meno che insegnare.
Tutte queste attività - peraltro classificate, ordinate, organizzate, strutturate e disciplinate, spesso, da norme minuziose e pedanti – sono ben remunerate per cui scatenano appetiti e desideri, spiegabilissimi e giustificabilissimi per una categoria professionale così mal retribuita e tanto bistrattata. Ai docenti, dunque, è stato lanciato un osso sul quale in molti si sono buttati e ciò ha causato due effetti collaterali disastrosi. Primo ha lacerato ulteriormente la categoria già, come si diceva sopra, frazionata e suddivisa da una gerarchizazzione di incarichi e poi, in secondo luogo, ha generato un salario aggiunto non dipendente dalla professionalità e dalla competenza e neppure dall'anzianità, ma affidato alla graziosa ed insindacabile volontà del dirigente. Si, all'esclusiva volontà del dirigente scolastico è dovuto tutto questo in quanto gli organi collegiali, a cominciare dal collegio dei docenti per finire al consiglio d'istituto, sono stati del tutto esautorati e oramai sono privi di potere poiché si limitano a ratificare, senza dibattito, decisioni già adottate altrove che calano dall'alto come tanti ukase di zaristica memoria.
Quelli che non si rassegnano e vorrebbero continuare ad insegnare vengono emarginati ed isolati, ridotti come tanti mohicani all'interno di unariserva, quando non vengono, addirittura, additati al generale ludibrio o perseguitati come eretici. A questi docenti non resta altro che diventare “luddisti” per riaffermare e ripristinare un modo di fare scuola più umano, finalizzato alla crescita complessiva dell'individuo e non solo al suo sviluppo.
La ragione per cui i professori, nonostante tutto, continuano ad insegnare la troviamo in Erasmo da Rotterdam. Chi si accontenta di uno stipendio da fame, chi tollera quotidianamente le bizze e i capricci di adolescenti maleducati ed ignoranti, chi sopporta pazientemente le angherie di dirigenti sadici e frustrati, chi si sobbarca orari impossibili, chi accetta di insegnare materie giudicate anacronistiche ed inutili non può essere che definito “pazzo”, però, con “…la Follia è capace di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima e di tenere lontana la molesta vecchiaia…mentre, altrove, di solito, l'età porta saggezza, qui [ cioè dentro la Scuola] più s'invecchia e più matti si diventa.
22 marzo 2006 - La Riviera