Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il farsesco epilogo del sogno americano

Il farsesco epilogo del sogno americano

di Robert Fisk - 23/03/2006

Fonte: Nuovi Mondi Media

Nell'attuale situazione post-invasione e "post-modalità Judith Miller", ci si aspetterebbe che la stampa statunitense contestasse le menzogne di questa guerra. Invece, sono proprio le notizie sepolte dai fuorvianti titoli dei media mainstream Usa che simboleggiano la fine del sogno americano

È una limpida mattina d’inverno e sto sorseggiando il mio primo caffé della giornata a Los Angeles. Il mio sguardo si sposta come un raggio radar nella prima pagina del Los Angeles Times in direzione della parola che domina le menti di tutti i corrispondenti del Medioriente: “Iraq”.

Nell’attuale contesto post-invasione e "post-modalità Judith Miller1", ci si aspetta che la stampa americana contesti le menzogne di questa guerra. Pertanto, l’articolo sotto il titolo "In a Battle of Wits, Iraq's Insurgency Mastermind Stays a Step Ahead of US" [lett. “In una battaglia di arguzie, la mente dell’insurrezione irachena si trova ad un gradino sopra gli Stati Uniti” – NdT] merita di essere letto. Lo merita davvero?

'Da Washington' – una strana città dove si potrebbe pensare di imparare qualcosa sull’Iraq –, recita il paragrafo di apertura: "Nonostante il recente arresto di uno dei suoi sedicenti attentatori suicidi in Giordania e alcuni assistenti di alto livello in Iraq, la mente della rivolta Abu Musab Zarqawi è sfuggito alla cattura, dichiarano le autorità Usa, perché la sua rete possiede un’attività di intelligence-gathering molto migliore rispetto alla loro".

Ora, a prescindere dal fatto che molti iracheni – assieme a me, devo ammetterlo – nutrono seri dubbi sull’esistenza di Zarqawi, e sul fatto che il Zarqawi di al-Qaeda, semmai esiste, non meriti il titolo di "leader dell’insurrezione", le parole che hanno attirato la mia attenzione sono state "le autorità statunitensi dichiarano”. E a mano a mano che procedevo nella lettura dell’articolo, ho avuto modo di notare il modo in cui il Los Angeles Times risale alla fonte di questo incredibile racconto. Pensavo che i cronisti americani non si fidassero più dell’amministrazione statunitense, almeno non dopo la vicenda delle immaginarie armi di distruzione di massa e gli altrettanto chimerici legami tra Saddam e i crimini internazionali contro l’umanità dell’11 settembre 2001. Evidentemente mi sbagliavo.

Ecco le fonti – a pagina 1 e 10 per l’aneddoto raccontato dai reporter Josh Meyer e Mark Mazzetti: "Gli ufficiali Usa hanno dichiarato", "ha affermato un ufficiale antiterrorismo del Dipartimento di Giustizia statunitense", "Ufficiali... hanno detto, "quegli ufficiali hanno dichiarato”, "gli ufficiali hanno confermato", "gli ufficiali americani si sono lamentati", "gli ufficiali Usa hanno sottolineato”, "le autorità Usa ritengono", "ha affermato un ufficiale superiori dell’intelligence americana", "ufficiali Usa hanno detto", "ufficiali giordani... dichiararono" – qui, almeno troviamo un leggero conforto – "diversi ufficiali Usa hanno dichiarato”, "gli ufficiali statunitensi hanno detto", "gli ufficiali americani hanno affermato", "ufficiali dichiarano", "affermano ufficiali Usa", "ufficiali Usa hanno detto", "un ufficiale antiterrorismo degli Stati Uniti ha dichiarato".

Io apprezzo veramente questo articolo. Confermo la mia convinzione che il Los Angeles Times – assieme ai quotidiani più autorevoli della East Coast – dovrebbe chiamarsi US OFFICIALS SAY (Gli ufficiali statunitensi dichiarano). Ma non è solo questo servilismo nei confronti del potere politico che mi rattrista. Passiamo ad un esempio più recente di ciò che posso solo chiamare razzismo istituzionalizzato nei reportage americani sull’Iraq. Devo ringraziare il lettore Andrew Gorman per questa perla: un articolo dell’Associated Press di gennaio sull’uccisione di un prigioniero iracheno sotto interrogatorio da parte del Sergente Maggiore Capo Lewis Welshofer Jr.

Il signor Welshofer, secondo quanto trapelato in tribunale, aveva cacciato a testa in giù in un sacco a pelo il generale iracheno Abed Hamed Mowhoush e vi si era seduto sul petto, un atto che – com’è facile prevedere – causò la morte del generale. Questa l’ordinanza della giuria militare (lettori, tenetevi forte): un rimprovero al sig. Welshofer, una multa di 6000 dollari sul suo salario e 60 giorni di reclusione in caserma. Tuttavia, ciò che attirò la mia attenzione fu il dettaglio solidale. AP ci dice che la moglie di Welshofer, Barbara, dichiarò di essere preoccupata di come poter mantenere i loro tre figli se suo marito fosse stato mandato in prigione. "Lo amo ancora di più per aver combattuto questa battaglia legale", ha affermato la donna, con le lacrime agli occhi. "Gli è sempre stato insegnato che bisogna fare la cosa giusta, e qualche volta la cosa giusta è la più difficile da fare".

Certo, suppongo che la tortura sia più dura per il torturatore. Ma diamo un’occhiata a quello che lo stesso articolo riportava: "Stamattina presto... il sig. Welshofer invano è riuscito a trattenere le lacrime. 'Chiedo umilmente scusa se le mie azioni disonorano i soldati che prestano servizio in Iraq', ha dichiarato".

Da notare in che modo il rimorso dell’uccisore americano sia diretto non verso la propria vittima uccisa e indifesa, ma all’onore dei propri compagni soldati – anche se un’udienza precedente aveva rivelato che alcuni dei suoi colleghi avevano visto Welshofer ficcare il generale dentro il sacco a pelo senza però fare nulla per fermarlo. Un precedente articolo di AP affermava che “ufficiali" – eccoci di nuovo – "ritenevano che Mowhoush fosse a conoscenza di informazioni che avrebbero colto l’insurrezione in contropiede". Però! Il generale sapeva tutto dei 40.000 rivoltosi iracheni. Che idea geniale, quindi, ficcarlo capovolto dentro un sacco a pelo e sedersi sul suo torace!

Ma il vero scandalo di questi articoli è che non ci viene detto nulla riguardo la famiglia del generale. Era sposato? Presumo che le lacrime "sgorgassero dagli occhi della moglie" quando le venne comunicato che suo marito era stato ucciso. Aveva figli il generale? O genitori? O qualsiasi persona cara che "a stento riuscì a trattenere le lacrime" quando venne a conosenza di questo vile atto? No, nell’articolo di AP non traspare tutto ciò. Il Generale Mowhoush risulta essere un oggetto, una creatura disumanizzata che non avrebbe certo permesso agli americani di "prendere in contropiede" l’insurrezione dopo averla ficcata a testa in giù in un sacco a pelo.

Ora elogiamo AP. In un’altrettanto chiara mattina d’estate in Australia, qualche giorno fa, ho aperto il Sydney Morning Herald. A pagina 6 leggo che un'agenzia di stampa, avvalendosi della Legge sulla Libertà d’Informazione2 (Freedom of Information Act – FOIA), ha costretto le autorità statunitensi a consegnare 5000 pagine di trascrizioni di udienze tenute presso il campo di Guantanamo Bay. Una di queste registra il processo dell’allora rilasciato prigioniero inglese Feroz Abbasi, nella quale il sig. Abbasi vanamente implora il giudice, un colonnello dell’Air Force americana, di rivelare le prove contro di lui – avendone pieno diritto secondo la legge internazionale.

Questa la risposta del colonnello americano: "Sig. Abbasi, la sua condotta è inaccettabile e questo è il suo ultimo avviso. Non m’importa della legge internazionale. Non voglio sentire le parole ‘legge internazionale’. Non è nostro compito occuparci della legge internazionale".

Ahimé, queste parole – che simboleggiano la vera fine del sogno americano – sono sepolte sotto l’articolo. Il colonnello, chiaramente una vergogna per l’uniforme che indossa, non appare nell’accomodante intestazione del giornale di Sydney ("US papers tell Guantanamo inmates' stories" – lett. "I documenti statunitensi raccontano le storie dei prigionieri di Guantanamo"), il quale è più interessato a dirci che i documenti rilasciati identificano per nome i "contadini, i negozianti o i pastori" rinchiusi a Guantanamo.

Ora mi trovo a Wellington, in Nuova Zelanda, e sto guardando sulla CNN l’attacco di Saddam Hussein al tribunale di Baghdad che lo sta processando. Ed improvvisamente, lo spaventoso Saddam scompare dal mio schermo. L’udienza ora proseguirà in segreto, trasformando questa corte straordinaria in qualcosa di più di una farsa: una vergogna. E cosa ci dice rispettosa la CNN? Che il giudice ha "sospeso la copertura mediatica"!

Dico a me stesso: se solo la CNN – assieme al resto della stampa americana – facesse lo stesso!


1. Ex giornalista del New York Times, protagonista dello scandalo "Ciagate".
2. Legge statunitense introdotta negli anni Sessanta secondo la quale ogni cittadino, americano o straniero, può chiedere la declassificazione (cioè, privare del carattere di segretezza) di documenti che per un motivo o l'altro non siano ancora consultabili.


 


Fonte: http://news.independent.co.uk/world/fisk/article351912.ece
Tradotto da Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media

*The Independent)