Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Vincere il male che sorge dal nostro fondo oscuro e si trasmette in eredità ai nostri figli

Vincere il male che sorge dal nostro fondo oscuro e si trasmette in eredità ai nostri figli

di Francesco Lamendola - 27/08/2009


Che ne è del male che ciascuno di noi cova nelle oscure profondità dell'anima e che viene represso sotto l'azione cosciente della volontà; ma che, respinto nelle regioni infere, non si dissolve, bensì imputridisce e fermenta, contaminando le radici medesime del nostro essere?
Sarebbe una pia illusione pensare che esso lentamente si dissolva e, alla fine, scompaia come se non fosse mai stato; o che, ad ogni modo, cessi di esistere con la morte fisica dell'individuo. Nulla si distrugge e nulla va perduto, di ciò che l'anima ha prodotto nel corso della propria esistenza; tanto più che il male morale, nel senso più profondo della espressione, non è un prodotto di origine esclusivamente umana, ma una realtà metafisica anteriore all'individuo: ciò che il racconto biblico della «Genesi» esprime attraverso la metafora del peccato originale.
Così come quel fondo oscuro non è nato con noi, non si spegnerà con noi: si tratta di una forza negativa che esiste indipendentemente dal singolo individuo, e che si trasmette di generazione in generazione; e che contrasta la forza positiva, benefica, che presiede all'armoniosa evoluzione del tutto, senza però possedere la sua stessa intensità e senza poter mettere seriamente in crisi l'ordine cosmico, tuttavia abbastanza forte da poterlo disturbare a livello locale, causando notevoli sofferenze ai singoli individui.
Per gli psicanalisti, tale fondo oscuro è l'inconscio; e, sebbene la scuola freudiana ortodossa si muova nei confronti di esso con una irresponsabile leggerezza, evocando forze negative che, poi, generalmente non è in grado di controllare (cfr. il nostro precedente articolo: «Una forma di magia nera: la psicanalisi», sempre sul sito di Arianna Editrice), nondimeno alcuni psicanalisti di tendenza più moderata e soprattutto meno rozzamente materialista, specialmente quelli della scuola junghiana, si sono avvicinati parecchio ai concetti che abbiamo ora sinteticamente esposto, prospettando anche interessanti vie per il superamento del male.
Tra costoro, ci piace qui ricordare Esther Harding, che si è dedicata specificamente allo studio della psicologia femminile e che ha mostrato una rara sensibilità e perspicacia nel cogliere gli aspetti più nascosti e delicati di essa.
Innanzitutto, la Harding ha avuto il coraggio concettuale di affermare che il male non è una nevrosi dell'uomo, ma un fatto reale e oggettivo; che, in altri termini, così come l'idea di Dio non si può ridurre a un semplice problema di psicopatologia, nemmeno il principio opposto, ossia quello demoniaco (anche se ella, forse per un ultimo ritegno di scienziata, non adopera tale espressione)  può essere liquidato in tal modo.
In secondo luogo, a lei va riconosciuto il merito di aver individuato le radici del male morale non in atti clamorosi o in manifestazioni necessariamente spettacolari, ma anche in quelle «semplici» dinamiche di sopraffazione, intolleranza, egoismo e prevaricazione che, per il fatto di essere così universalmente diffuse, finiamo un po' tutti per accettare come normali.
Analizzando i pericoli che minacciano la relazione armoniosa e costruttiva fra uomo e donna, la Harding individua nello spirito di predominio non un banale inconveniente, più o meno inevitabile in tutte le relazioni di coppia, ma un istinto ancestrale estremamente pericoloso, recante in sé, in embrione, tutto il male che uomo e donna possono farsi e tutta l'amarezza, l'incomprensione e la sofferenza che due esseri umani sono in grado di infliggersi, torturando le proprie vite in una allucinante e strindberghiana danza di morte.


Scrivem dunque, Esther Harding nel suo libro «La strada della donna» (titolo originale: «The way of all women», con prefazione di C. Gustav Jung, New York, 1932; traduzione italiana di Adriana e Tommaso Carini, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1942, 1951, pp. 297-300):

«Le difficoltà che possono sorgere tra due persone dipendono in gran parte […] da inconsce pretese di potenza e da atteggiamenti di predominio di una delle parti o di tutte e due. Uno dei più grandi servigi che un'intensa relazione psicologica può rendere all'individuo è di mettere in luce questi trascurati aspetti dell'io. Per vincere le ricorrenti difficoltà che ne derivano, bisogna riconoscere e abbandonare l'atteggiamento di potenza, ma perché la difficoltà non abbia a ritornare ci vuole qualcosa di più del pentimento per l'incidente occasionale. Ogni incidente serve a rendere manifesto l'atteggiamento di potenza; ma la pretesa di dominio è indice di un problema più profondo che raramente viene a galla con un semplice esame dei moventi coscienti; per trovarne le radici sarà necessario esplorare l'aspetto inconscio della situazione. Talvolta queste radici sono a portata di mano nel passato infantile dell'individuo, più spesso hanno un'origine più remota, nel passato ancestrale. Quando, dopo una vasta e profonda esplorazione dell'inconscio, un uomo o una donna cominciano a gettar luce su questi antichi elementi e sepolti, la prima cosa da farsi è riconoscere che LÀ STA IL MALE. Desidero porre in grande evidenza questo fato perché molti oggi ne negano l'esistenza. Costoro dicono che l'azione deriva da tendenze ereditarie o da riflessi condizionati o da istinti naturali e che le vecchie idee sul bene e sul male e anche quelle sulla responsabilità umana vanno sorpassate. Per essi Dio è morto, Dio non esiste e perciò non può esservi responsabilità morale., né male. Altri ancora dicono che Dio è onnipotente, che egli permea tutto il creato e poiché Dio è buono, il male non può esistere. Questi atteggiamenti portano alla convinzione che i problemi umani possano esser risolti sol che si ignori il FATTO del male. Chiunque, lasciandosi guidare da un criterio di verità, ha esaurientemente sondato l'inconscio, deve essersi convinto della esistenza e della potenza del male. Ma la mera conoscenza del fatto non basta; qualcosa di più è necessario se si vogliono risolvere i problemi che esso comporta. Tale soluzione non è facile a trovarsi; nessuno è in grado di scoprirla a meno che, come gli antichi eroi che lottavano e uccidevano i mostri, che impersonavano i mali dei loro tempi, anche egli sia disposto a rischiare la vita nel combattimento contro i mostri dell'inconscio.
Facciamo un esempio e supponiamo che un'azione qualsiasi della moglie sembri a marito arrogante tanto che la sua reazione renda necessario discutere il fatto. Essa potrà protestare d non essersi accorta affatto che i suoi moventi fossero in qualche modo egoistici. In verità essa potrà anche aver pensato d'esser stata mossa da spiriti di collaborazione, disposta a far posto a lui e ai suoi desideri; potrà anche aver creduto di aver agito altruisticamente per il suo bene. Ma dinanzi alla protesta di lui essa dovrebbe essere indotta a ricercare i motivi inconsci della sua azione, e allora scoprirà forse che questi motivi, lungi dall'essere educati e civili, non erano che manifestazioni primitive dell'"uomo naturale" che si nasconde nell'inconscio.  Quest'essere primitivo interno ha bisogno di dominare e di essere sempre primo, egli "vuole ciò che vuole", ferocemente, senza fermarsi dinanzi ad alcun che, nemmeno al delitto, per ottenerlo. Egli è l'Uomo primitivo, assolutamente non rigenerato. Essa potrà esserne sgomenta.
Pure, se essa guarderà un poco più avanti, sentirà venire dall'inconscio un atteggiamento assolutamente diverso e tutt'altro ordine di desideri che compensano in qualche modo l'egoismo e lo spirito di predominio dell'"Uomo naturale": per esempio, essa si sentirà disposta a sacrificarsi. Questo atteggiamenti costituiscono una coppia di opposti:; quando prevale l'uno, l'altro scompare: è un meccanismo automatico. Quando un individuo, conscio di questo dualismo, si identifica coscientemente con l'atteggiamento più adattato, egli sarà "incline al bene e soffocherà il male", e scuserà la sua cattiva condotta dicendo: "non era mia intenzione avere il sopravvento, non mi sentivo ben disposto"; oppure: "non fare caso al mio tono di voce non significa nulla. In questo modo egli non fa che accumulare disagio tanto per sé che per l'amico, perché qualunque cosa venga spinta per ultima nell'inconscio verrà su per prima.
In tal modo non si fa che immagazzinare il male nell'inconscio e pertanto esso non potrà scomparire. Una costante identificazione con il "bene", come effetto di una continua repressione del male, costituisce un comportamento favorito dalla cultura e dalla moralità occidentali. Esso, non soltanto è stato praticato dagli individui, ma per più generazioni ha rappresentato l'ideale di condotta di tutta una società. Ai fini di un maggiore sviluppo, tuttavia, il lato inferiore, "il male", ha da esser portato presto o tardi sul piano della coscienza e assimilato. Chi rifiuta del tutto di guardare in faccia i problemi sorgenti dai suoi desideri a-morali, può, è vero, morire in odore di santità, ma la storia non finisce qui. I figli che riceveranno parte dell'inconscio dei loro genitori, dovranno raccogliere il problema e, o vivere fino in fondo quel che egli represse, oppure assimilarlo in qualche altro modo: l'esempio del figlio del prete è proverbiale. Questa legge è oggi ampiamente illustrata dal completo rovesciamento d quel codice di condotta sessuale che pure per le ultime generazioni rappresentava il cardine della legge morale. Le repressioni dei padri costituiscono l'atteggiamento cosciente dei figli; e, come si esprime il vecchio detto: "I peccati dei padri ricadranno sui figli fino ala terza e alla quarta generazione". Per amore della generazione che ci segue, bisogna che noi troviamo il modo di assimilare il male che sta nel nostro inconscio.»

L'Uomo naturale, per sua essenza a-morale, ovvero l'Uomo primitivo, tendente alla sistematica affermazione dell'io con qualunque mezzo ed a qualunque costo, si può bene osservare nel bambino in età pre-scolare, ancora del tutto impermeabile ai concetti del bene e del male ed a quello dell'assunzione della responsabilità individuale.
Il problema del male, peraltro, come bene evidenzia la Harding, non scaturisce direttamente da tale Uomo primitivo, ma ha a che fare con la trasmissione ereditaria di tendenze, anche solo latenti, da parte dei genitori. In altre parole, i figli sono esposti all'influsso ricevuto dai genitori e, prima ancora, dai diversi progenitori, sia nel bene, sia nel male.
Come osserva acutamente la Harding, un uomo può anche morire in odore di santità, ma aver coltivato un fondo malsano, anzi, decisamente malvagio, dietro la maschera delle sue pubbliche virtù; e quel fondo non andrà a perdersi nel nulla, ma verrà trasmesso ai figli e ai discendenti, ai quali toccherà in sorte di fare i conti con esso.
Non si tratta, peraltro, di una visione cupamente deterministica, perché l'elemento decisivo, per quel che riguarda la possibilità di spezzare la catena del male, risiede in una assunzione di consapevolezza: una volta che un individuo abbia avuto il coraggio di guardarsi dentro, lealmente e sino in fondo, due strade gli si aprono davanti, nel caso che scopra in sé l'oscuro richiamo del male. Una è quella di portare in superficie la tendenza da lui repressa, o repressa dai suoi progenitori, dandole pieno sfogo; l'altra è quella di affrontare il mostro e di lottare, non già per reprimerlo (ciò che varrebbe solo a spostare e aggravare il problema), ma per risolverlo, sconfiggendolo attraverso il suo superamento e realizzando la propria liberazione interiore.
È chiaro che, per uno psicanalista, tale liberazione si può raggiungere attraverso la terapia psicanalitica; noi, che dissentiamo radicalmente sia dalle finalità, sia dai metodi di tale pseudoscienza, riteniamo che ciò sia possibile attraverso il duplice cammino della chiarificazione interiore (cui abbiamo dedicato il precedente articolo «Guardarsi dentro con franchezza ed onestà per accedere alla via che riconduce all'Essere») e della conversione dell'anima alla filosofia, e soprattutto alla pratica, dell'amore.
Il male, infatti, possiede un diabolico potere autorigenerante, nel senso che esso, colpendo gli innocenti, ne provoca la rabbia e la reazione e, così, ingigantisce via via, nutrendosi di sempre nuovo male. L'unica maniera di sconfiggerlo in maniera definitiva è quella di non rispondere ad esso con l'odio, ma con l'amore: una strada che, per quanto difficile possa presentarsi, è nondimeno la sola capace di evitare che il male, come una pianta infestante, possa riprodursi e proliferare illimitatamente (cfr. anche il nostro precedente articolo «La forza del male è nel suo circolo vizioso: perché esso chiama, nelle vittime, ancora altro male», sempre sul sito di Arianna Editrice).
L'amore: la più antica di tutte le medicine; e, in fondo, la più semplice.
L'unica medicina che può risanare anche le ferite più dolorose; che può spegnere il fuoco della rabbia; che può far scorrere un balsamo ristoratore sulla più sconsolata amarezza.
Gli psicanalisti non ne parlano, perché esorbita dal loro orizzonte culturale; psicologi e filosofi ne parlano solo in maniera tecnica e strumentale, a seconda dei loro orientamenti e degli obiettivi che si propongono di raggiungere.
Peraltro, dopo l'avvento dei tre grandi «maestri del sospetto» (Marx, Nietzsche, Freud), parlare ancora dell'amore è divenuto quasi imbarazzante: sembra che tutti diano per scontato che solo chi cerca di nascondere chissà quali inconfessabili secondi fini, possa ancora adoperare questa parola. E i preti: i quali, naturalmente, lo farebbero solo in maniera ipocrita.
Povera società post-moderna, così scaltrita e così tecnologicamente evoluta, così benestante in senso puramente materiale, ma anche così povera spiritualmente: al punto da non avere più neanche il coraggio di parlare dell'amore, come dell'unico rimedio alle nefaste conseguenze di quello spirito di dominio e di sopraffazione, che emerge dal nostro antico fondo oscuro.
Eppure, anche lo spirito amorevole nei confronti dell'altro è una forza che si può trasmettere alle future generazioni: ed è, anzi, l'unica cosa che importi veramente di consegnare loro, affinché possano salvarsi: e non certo un maggior numero di macchine, un più alto livello tecnologico, una più vasta capacità di manipolazione delle cose.