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"Quanta fretta: ma dove corri, dove vai?"

di Francesco Lamendola - 28/08/2009


"Quanta fretta: ma dove corri, dove vai?", sono le battute iniziali di una simpaticissima canzone di Edoardo Bennato, "Il gatto e la volpe"; e, astraendole dal loro contesto originario (che è tutt'altro), potremmo sceglierle come monito alla società odierna.
Tutti corrono, tutti hanno una fretta indiavolata (e non usiamo questo aggettivo in modo casuale), nessuno mai trova il tempo di fermarsi ad ammirare, ascoltare, vedere, pensare, parlare, con gli altri e con se stesso.
Una persona che finisca travolta in autostrada, magari dopo essere scesa per un guasto, verrà schiacciata dalle ruote non di un automezzo soltanto, ma di almeno dieci; è successo, tempo fa, ad una intera famigliola, bambini compresi. Nessuno li ha visti in tempo; e, quel che è ancora più orribile, nessuno ha pensato di fermarsi per prestare soccorso. Il richiamo delle ferie al mare era troppo forte; e poi perché fermarsi, sicuramente ci avrebbe pensato qualcun altro.
Questa è la fretta fisica.
Poi c'è la fretta spirituale, la smania di fare tante cose, che ci porta a trascurare i sentimenti più sacri: l'amicizia, la solidarietà, la gratitudine per il bene ricevuto. Sì, lo sappiamo che il nostro amico X ha subito una perdita gravissima; ma chi ha il tempo di scrivergli una lettera, fargli almeno una telefonata? Ci sono tante cose da fare… Però lo abbiamo pensato, eh, poverino; eccome se lo abbiamo pensato, ci ha fatto una tale pena!
Sembra incredibile, ma questo tipo di fretta, che nasce da un egoismo e da un utilitarismo quasi inumani, si lega indissolubilmente al nostro eterno bisogno di autoaffermazione, per cui ci sembra normale che il mondo si fermi ai primi sintomi di un nostro mal di pancia, mentre può andare avanti benissimo anche sopra il cadavere delle persone che più ci sono intime.
Un esempio eloquente di questo egoismo inumano e che si potrebbe giudicare quasi inverosimile, se non fosse assai più diffuso di quel che non si creda, è dato da quella brutta persona che fu Karl Marx, in occasione della morte della compagna del suo migliore amico, nonché instancabile benefattore: Friedrich Engels.
La brutale insensibilità di Marx lo spinse fino al punto di scrivergli solo una striminzita riga di circostanza e di aggiungervi, subito dopo, una serie di lamentele per le proprie preoccupazioni finanziarie; modo di fare che ferì dolorosamente Engels, che così gli rispose:

"Troverai giusto che questa volta la mia propria disgrazia  e la tua fredda accoglienza di essa abbiano reso effettivamente impossibile risponderti prima. Tutti i miei amici, compresi i conoscenti filistei, in questa circostanza, che a dir il vero mi ha colpito abbastanza da vicino, dimostrarono maggior partecipazione e amicizia di quanto potessi aspettarmi. Tu trovasti che il momento era opportuno per far prevalere il tuo gelido modo di pensare." (Cit. in: David McLellan, "Karl Marx. La sua vita e il suo pensiero", Milano, Rizzoli, 1976, p. 338; e si noti che si tratta di una biografia celebrativa di Marx, del quale cela accuratamente quasi tutte le peggiori magagne, mentre pompa quanto è possibile gli aspetti positivi).

Ma la disattenzione verso il prossimo, dovuta a una fretta smodata e irragionevole, si manifesta anche in mille e mille piccoli gesti quotidiani (o anche omissioni quotidiane); e chi abbia la ventura di trovarsi ad accompagnare abitualmente una persona anziana, impacciata nei movimenti, sa di che cosa stiamo parlando.
Quante volte un automobilista si ferma alle strisce pedonali, o si trattiene dal strombettare con il clacson, mentre quella persona sale in auto con lentezza, causando qualche secondo di ritardo ai frettolosi? Quante volte un pedone cede il passo sulla porta di un negozia, e quante, invece, si fa avanti a testa bassa, come se la perdita di uno o due secondi del suo prezioso tempo costituisse un danno irreparabile? Quante volte succede di trovare qualcuno che, alla cassa del supermercato, è disposto a fare un passo indietro per favorire una persona che si muove lentamente, o per lasciarla passare nelle corsie tra gli scaffali, invece di tagliarle la strada con il carrello della spesa, proiettato in avanti come fosse un mezzo anfibio per lo sbarco in Normandia?
Quelli che stanno bene, che sono giovani e che godono di ottima salite, non immaginano neppure quanto sia divenuta una giungla sgradevole, anche solo dal punto di vista meramente fisico, la città odierna; perché, muovendosi al passo con i ritmi frenetici di essa, non hanno neanche l'occasione di accorgersi di quel che significhino non solo la malattia, la disabilità e la fatica dei movimenti, ma anche l'assoluta indifferenza e la prepotenza frettolosa degli altri.
Ecco, allora, che la fretta non è soltanto una cattiva abitudine - della quale, peraltro, molti si vantano, come se tornasse a loro merito la quantità di impegni importanti che sottintende -, ma una manifestazione di disprezzo per il prossimo, che nasce, a sua volta, da una pericolosa forma d alienazione nei confronti della propria umanità profonda.
"La fretta, che ogni uom dismaga", diceva il gran padre Dante: e la sua riprovazione per l'uomo che si lascia travolgere dalla fretta non gli impediva di essere attivo cittadino nella vita politica del suo tempo, oltre che infaticabile studioso e sommo scrittore. Non ci si venga a dire, pertanto, che un uomo che non conosce la fretta è un bighellone perditempo, e che le persone serie e laboriose devono, per forza, andar di fretta. Non è vero affatto, anzi, è vero il contrario: almeno se abbiamo chiaro il concetto che, in qualunque tipo di attività umana, non è la quantità di quel che produciamo ad essere significativa, ma la sua qualità.
A questo punto, dovrebbe apparire chiara la stretta connessone esistente tra la fretta e la filosofia del quantitativo, contrapposta a quella del qualitativo: tipica filosofia della società di massa, ove quello che conta è gettare sul mercato sempre più beni e servizi, e, ovviamente, consumarne ancora di più, in una spirale senza fine, tanto assurda quanto distruttiva; e non già curare i beni e i servizi in maniera che siano pienamente soddisfacenti e adeguati allo scopo.
Si gettano sul mercato - ad esempio - migliaia, milioni di ferri da stiro a prezzo economico, distribuiti capillarmente attraverso i grandi magazzini e i centri commerciali. Molti esemplari sono difettosi, perché prodotti in serie con pochissima attenzione alla qualità; non importa! Il cliente tornerà al grande magazzino e si farà cambiare l'articolo difettoso; ma solo per sentirsi dire, da una commessa distratta e frettolosa (anche lei!), che non può garantire che il nuovo pezzo sia migliore del precedente. Al secondo o a terzo tentativo, il cliente finirà per gettare la spugna e acquistare qualche altro articolo, facendosi detrarre il prezzo del ferro da stiro che avrà restituito; e andrà in un negozio specializzato ad acquistare un ferro da stiro garantito, sobbarcandosi, così, una doppia spesa e una notevole perdita di tempo.
Ma chi ci pensa? È così bello (almeno per certe persone) andare su e giù per i centri commerciali, riempire il carrello di tante cose invitanti e a basso costo, e tornarsene a casa con il bagagliaio dell'automobile pieno zeppo di simpatiche cianfrusaglie che, in fondo, non ci servono affatto, ma intanto ci danno l'illusione della varietà, della facilità, della velocità, e perfino del risparmio (anche se, a conti fatti, si tratta di articoli che durano pochissimo, per cui sono fonte di spese assai maggiori dei vecchi prodotti artigianali che costavano, sì, parecchio, ma duravano una vita).
E così come la fretta è l'espressione di un mondo basato sul principio quantitativo in senso fisico, altrettanto lo è anche in senso spirituale.
Una buona scuola, nel giudizio oggi corrente, è quella in cui si diplomano molti studenti con il massimo dei voti (non importa se quel massimo è frutto di un pompaggio artificiale); un buon libro, è quello che si vende a centinaia di migliaia di copie e che vince i maggiori premi letterari (anche se si tratta di un best-seller usa e getta, e anche se quei premi sono l'espressione della solita, decrepita mafia accademica); un buon quadro o un buon film, sono quelli di cui parlano con ammirazione alcuni critici di professione, anche se costoro vivono in un pianeta tutto loro, rispetto ai cui giudizi i comuni mortali possono solamente adeguarsi, per non passare da somari; ed è un grande intellettuale, l'ultimo cialtrone che riempie le sale per conferenze, purché abbia sufficiente faccia tosta per proclamare le sue inarrivabili sciocchezze con un tono sufficientemente serioso e, se possibile, con un linguaggio astruso e pressoché incomprensibile al "vulgo".
Il malcostume di scambiare la fretta e la quantità delle cose svolte per una virtù, indipendentemente dalla loro qualità, è giunto a un punto tale, che perfino un bravo sacerdote è considerato quello che organizza cento iniziative, che si agita e corre di qua e di là, che non ha un minuto libero fra un pellegrinaggio in pullman gran turismo, una gita ricreativa coi ragazzini della parrocchia, un seminario di teologia e un corso di formazione per fidanzati e non so cos'altro; anche se non trova mai il tempo per andare a far visita alle persona anziane e sole, a parlare un po' con loro, a confortarle nel deserto della loro vita.
La verità è che quando una società si lascia interamente dominare dalla fretta, e arriva al punto di considerarla un sintomo di eccellente salute, vuol dire che ha smarrito la propria anima; e che i singoli individui, in essa, vivono la più tremenda delle alienazioni: quella che non ha un nome, perché non riesce nemmeno a riconoscersi come tale.
Come osservava ironicamente uno scrittore, oggi una persona che se ne vada a passo lento per il centro di una grande città, alzando gli occhi per studiare l'architettura degli edifici o, magari ("horribile dictu"!) per ammirare lo spettacolo delle nubi al tramonto o di uno stormo di uccelli migratori, rischia di venire arrestata dalla polizia e portata in questura, più o meno con la seguente motivazione: "Si aggirava con fare equivoco davanti ai negozi e alle banche, camminando senza uno scopo apparente e lanciando occhiate furtive in varie direzione, con aria estremamente sospetta".
In molti luoghi pubblici sono state tolte le panchine, in modo che la gente non sia tentata di sedersi a riposare o a fare quattro chiacchiere in compagnia, ma cammini velocemente, entri nei locali e consumi velocemente beni e servizi, e altrettanto velocemente se ne ritorni a casa propria; perché questo è il cittadino ideale, nell'età dei consumi di massa: quello che spende molto, che non occupa spazi pubblici, che lascia il supermercato solo per incollarsi davanti al televisore o al computer, barricato in casa propria fino al giorno dopo.
Poveri noi, prigionieri di questa dorata prigione, nella quale nemmeno vediamo le pesanti catene che ci tengono avvinti come schiavi, ciò che in realtà siamo! Come faremo a liberarci, se nemmeno riusciamo a percepire la gravità della nostra condizione?
E almeno tutta questa fretta, tutto questo fare, questo agitarsi, questo spendere, questo correre, riuscissero a renderci un po' più felici, o un poco meno infelici! Almeno valessero ad accennare un sorriso sui nostri volti, ad accendere di luce i nostri sguardi, a far scendere un po' di gioia nei nostri animi intirizziti! Ma niente affatto; anzi, accade tutto il contrario: basta guardarsi in giro, anche velocemente, per scorgere molti, troppi musi lunghi, sguardi spenti, labbra tristi.
La fretta, dunque, è l'effetto di un modo radicalmente sbagliato di porsi di fronte alla propria anima e di fronte al mondo; e, a sua volta, alimenta la spirale perversa dell'indifferenza, della scortesia, della prevaricazione spicciola, a livello quotidiano.
Eppure, sono proprio i piccoli gesti quotidiani che rivelano la qualità della vita spirituale, tanto dei singoli individui, quanto delle società. Dieci, cento, mille gesti quotidiani improntati alla fretta, all'indifferenza, alla scortesia e alla prevaricazione, sono sinonimo di barbarie, di un mondo dove non si vive bene, perché ciascuno è impegnato a rincorrere furiosamente qualche cosa che gli sfugge di continuo; e, intanto, nel vano sforzo di raggiungerlo, non si fa scrupolo di calpestare gli altri, di sfruttarli senza riguardi e di gettarli via, quando più non gli servono.
È necessario invertire questa tendenza, perché, alla lunga, essa finirà per distruggere le nostre energie positive e per ridurci a degli automi senz'anima, che vagano allucinati in un deserto tecnologico fatto soltanto di cose materiali, in cui non ci sarà più posto per i sentimenti di dolcezza e di benevolenza, per la contemplazione estetica, per il puro e disinteressato godimento delle cose spirituali.
Possiamo permettercelo?
L'anima non è come un vestito; una volta che la si sia perduta, non si può andare al supermercato per acquistarne un'altra.
E così come un individuo senz'anima corre verso la propria distruzione, lo stesso vale per una società.
Dovremmo rifletterci, prima che sia davvero troppo tardi per fare qualunque cosa.