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Accettare la vita significa fidarsi che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili

di Francesco Lamendola - 28/08/2009


L'unica spiegazione - oltre alla deliberata malafede - è che Voltaire fosse un ignorante in fatto di grammatica.
Solo così si spiega lo spreco di ironia da quattro soldi con cui ha concepito e scritto quel libriccino brutto e noiosissimo intitolato «Candido» che, ispiratogli dal famoso terremoto di Lisbona del 1755,  è una lunga e monotona presa in giro dell'ottimismo leibniziano.
Ma era davvero ottimista, Leibniz? O non era piuttosto, semplicemente, un realista, che fondava le sue convinzioni sopra una ipotesi di lavoro contestabile fin che si vuole, ma assolutamente coerente e razionale?
Vediamo.
Per Voltaire, noi non siamo che delle miserabili creature gettate a caso nel mondo, visto che un qualunque movimento della Terra ci può schiacciare come dei vermi e seppellire sotto le nostre stesse macerie. Notiamo, di passaggio e a puro tutolo di curiosità, che Voltaire sostiene questa posizione dopo aver detto esattamente l'opposto, ossia che l'uomo è un essere libero, nel suo precedente «Trattato di metafisica»; ciascuno ne tragga le conclusioni che crede circa la serietà e l'autentico spessore filosofico del pensiero volterriano.
Leibniz, al contrario, è divenuto famoso per la formula secondo la quale «Noi viviamo nel migliore dei mondi possibili», e tanto è basto per cucirgli addosso l'etichetta di ottimista ad oltranza, magari con una sfumatura di dabbenaggine; perché, si sa, e specialmente dopo la trista lezione dei grandi Maestri del Sospetto, essere pessimisti è quasi un obbligo per un pensatore alla moda, mentre l'ottimismo è riservato agli sciocchi o ai bacchettoni.
Ebbene, andiamo a vedere che cosa dice la grammatica (la tedesca e la francese non meno della italiana).
Citiamo dal classico manuale di C. A. Sambugar, «Armonia e stile» (Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1966, pp. 75, 77):

«[…] Il grado comparativo esprime il paragone tra le qualità di una cosa (o persona o animale) e quelle di un'altra, oppure tra le qualità di un gruppo di cose, animali, e quelle di un altro gruppo […].
Il superlativo esprime la qualità di una persona (o animale o cosa) in grado massimo o minimo in confronto con quella di altre persone, o massimo o minimo senza alcun confronto; abbiamo quindi due tipi di superlativo, il relativo e l'assoluto.»

Fermiamoci qui.
È evidente che l'espressione «il migliore dei mondi possibili» non è un comparativo di maggioranza, perché non si fa un paragone tra le qualità di due mondi; ma non è neppure un superlativo assoluto, perché non si esprime la qualità di un mondo, senza alcun confronto con quella di altri mondi.
Si tratta, quindi, di un superlativo relativo, poiché si esprime la qualità di un mondo (il nostro) in confronto con quella di altri mondi, e precisamente di tutti gli altri mondi POSSIBILI. È quest'ultima parola, «possibili», che fornisce la giusta chiave di lettura della frase.
Leibniz non dice: «Noi viviamo in un mondo migliore di questo o di quell'altro», e nemmeno: «Noi viviamo nel mondo più buono, ovvero in un mondo buonissimo, ovvero ancora in un mondo ottimo»; ma dice: «Fra tutti i mondi che noi possiamo concepire, quello in cui viviamo è il migliore».
Per essere precisi, si tratta di quello che  gli studiosi di grammatica definiscono un «superlativo relativo di maggioranza», dal momento che esiste anche il «superlativo relativo di minoranza» (ad esempio: «Questo mondo è il meno buono dei mondi possibili».
È ovvio che codesto superlativo relativo di maggioranza si può anche esprimere con un superlativo relativo di minoranza che non ne rovescia affatto il significato, ma che, semplicemente, esprime il medesimo concetto osservandolo dal punto di vista opposto; così: «Noi viviamo nel meno peggiore dei mondi possibili». Il concetto, lo ripetiamo, permane identico: quello che cambia è solo il modo di esprimerlo.
Ebbene, si vede che per uno zuccone come Voltaire il concetto leibniziano sarebbe stato più chiaro, se il filosofo tedesco lo avesse espresso in tale seconda maniera: non già «Noi viviamo nel migliore dei mondi possibili», bensì: «Noi viviamo nel mondo meno peggiore, fra tutti quelli che sono possibili, ossia che noi possiamo concepire» (perché è ovvio che nessuno mai potrà dire alcunché a proposito di mondi che non siano concepibili dalla mente umana).
Ma ora lasciamo perdere Voltaire e la sua insulsa polemica con Leibniz, anche perché ce ne siamo già occupati in alcuni precedenti lavori (cfr., in particolare, «Il «migliore dei mondi possibili non è perfetto, ma semplicemente quello meno peggiore»; e «Se i futuribili sono i futuri possibili, chi siamo noi per dire cosa è possibile e cosa no?», entrambi consultabili sempre sul sito di Arianna Editrice); e cerchiamo di entrare nel merito.
È vero che il mondo nel quale viviamo è il migliore fra quelli possibili, ovvero il meno peggiore? Aveva ragione Leibniz?
Per tentare di rispondere, non seguiremo un classico itinerario di logica deduttiva, ma piuttosto faremo appello a tutte le facoltà del sentire, dell'intuire, dell'aprire la propria anima a tutti i livelli di consapevolezza, e non solo alla ragione discorsiva.
Che il mondo sia pieno di dolore e di insensatezza, è cosa tropo evidente per soffermarsi a sottolinearla, e non c'è davvero bisogno di scriverci sopra un libro come il «Candido», oltretutto scegliendoci un avversario di comodo, per meglio ribadire il concetto.
Ora, il punto è il seguente (beninteso se si vuol tentare di fare della filosofia e non delle chiacchiere petulanti e insulsi pettegolezzi): quegli aspetti negativi, che pure indubbiamente vediamo e sperimentiamo - accanto ad altri che, sarebbe del pari disonesto non ammetterlo, brillano in tutta evidenza - costituiscono l'ultimo livello della realtà, o solamente quello più superficiale?
In altri termini: il dolore è davvero privo di senso? E, più in generale: l'insensatezza, l'assurdo, sono davvero una componente essenziale e strutturale del mondo, un dato ontologico di esso, o non hanno piuttosto a che fare con una nostra limitatezza di visuale e con una nostra incapacità di interpretare correttamente i dati dell'esperienza?
I casi sono due. O noi ci troviamo quaggiù per un caso, o, peggio, per un inganno - ed è l'ipotesi avanzata da Leopardi, ad esempio, nel «Dialogo della Natura e di un Islandese», per bocca dell'Islandese medesimo; oppure siamo stati chiamati nel contesto di un progetto benevolo, per uno scopo ben preciso: scopo che, in conformità con la premessa, non può divergere dall'attuazione del nostro stesso bene.
Non getteremo la fatidica moneta, come proponeva Pascal, per giocarci la risposta a testa o croce: piuttosto, proveremo a prendere in considerazione la seconda possibilità, sia pure come ipotesi di lavoro, perché è la sola che dischiuda ulteriori orizzonti di riflessione; mentre la prima li chiuderebbe quasi tutti, fin dall'inizio.
Dunque: se non siamo qui per caso, allora significa che qualcuno o qualcosa ci ha chiamati. È improbabile immaginare una forza malevola; perché una forza capace di creare il mondo presuppone non solo una grande potenza, ma anche una infinita capacità di amore. Creare il mondo per divertirsi a tormentare le proprie creature, è un tipo di atteggiamento che non denota certamente un alto livello di consapevolezza spirituale. Nemmeno i più incalliti criminali e i violenti degenerati creano le cose per il solo piacere di rovinarle; semmai, guastano qualche cosa che già esiste; ma chi crea, nutre rispetto e amore per la propria creazione.
È chiaro che stiamo ragionando da un punto di vista puramente umano, cosa incongrua, dal momento che l'oggetto della nostra riflessione è una forza che trascende la realtà naturale in una misura che non ci è dato assolutamente neanche di immaginare; nondimeno, siamo obbligati a farlo, non avendo alcuno strumento per tentare di porci nella prospettiva dell'Essere.
Naturalmente si potrebbe anche ipotizzare che il mondo esista per conto proprio, come fanno tutte le filosofie materialiste; ma non ci vuole molto per accorgersi che ciò non fa che spostare il problema: perché, in ogni caso, ogni fenomeno presuppone una causa, e un fenomeno senza causa, e quindi senza origine, è un non senso sul piano logico e concettuale.
Quanto a noi, a costo di essere tacciati di idealismo, platonismo, tomismo, e chissà quante altre vergogne filosofiche da parte dei maitrês-á-penser della post-modernità, rimane chiaro e indubitabile che, se le cose esistono, vuol dire che, invece del nulla, c'è l'essere; e che l'esistenza dell'essere, non essendo in alcun modo necessaria, ma accidentale (nel senso di libera, e non in quello di casuale) presuppone l'Essere con la iniziale maiuscola, ossia una forza attiva e intelligente, che conferisce l'esistenza alle cose.
Orbene: se esiste l'Essere, deve trattarsi di una forza benevola, per le ragioni viste poc'anzi; una forza malevola soprannaturale può, certamente, esistere, anzi, siamo convinti che esista; ma non può avere in sé la capacità di evocare l'essere dal non essere, perché un tale movimento presuppone un amore infinito e non già un odio infinito. Nessuna madre mette al mondo il proprio figlio per semplice odio (anche se, in circostanze molto particolari, può arrivare ad odiarlo, sia prima che dopo averlo partorito); nessun artista crea un'opera per odio.
Il discorso non cambia se, invece di una creazione dal nulla, immaginiamo l'origine del mondo come una emanazione dell'Essere: creazione o emanazione, in ogni caso si tratta di un movimento che nasce da una forza benevola, e che è il riflesso non solo della perfezione, ma anche dell'infinita amorevolezza dell'Essere.
A questo punto, si tratta di vedere se abbiamo abbastanza fiducia nell'Essere, da affidarci ad esso completamente e senza riserve, il che equivale ad accettare la vita così come essa è, e non cercando di manipolarla e di modificarla incessantemente per «correggere» il suo progetto. Se il progetto è buono e diretto al bene, noi ce ne dobbiamo fidare, anche e soprattutto nei passaggi più impervi della vita, quando vorremmo gridare di dolore e indignazione.
Occorre peraltro chiarire che «accettare la vita così come essa è» non significa, in alcun modo, cadere in una forma di cieco fatalismo, o rinunciare ad assumere tutte quelle iniziative che il nostro senso morale ci suggerisce per sanare delle situazioni di dolore, nelle quali potremmo efficacemente intervenire; o nelle quali ci sentiamo spinti ad intervenire, anche se sappiamo perfettamente che, da un punto di vista meramente razionale, non saremo in grado di modificare in nulla la realtà.
Accettare la vita non è un atto di resa, più o meno stoico (e in questo senso, crediamo, va interpretata anche la dottrina dell'eterno ritorno di Nietzsche); o, se è un atto di resa, lo è nel senso, dolcissimo, dell'innamorato che si abbandona fra le braccia dell'amante, del quale si fida ciecamente e con il quale raggiunge una così perfetta fusione spirituale, da smarrire il senso della propria identità, e da sentirsi trasformato in una cosa sola con lui.
Accettare la vita è sentire fortemente che nessun evento di essa, per quanto doloroso e apparentemente insensato, è, da un punto di vista superiore, inutile o assurdo; che essa costantemente ci presenta delle occasioni di perfezionamento spirituale e di espansione della consapevolezza esistenziale; che noi possiamo dire di sì, oppure di no, a tali occasioni, perché siamo fondamentalmente liberi; e che le nostre scelte affermative possono affrettare, e quelle negative ritardare, il compimento del disegno complessivo, di cui noi siamo parte: ma che non è in nostro potere né crearlo, né, tanto meno, distruggerlo.
In questo senso, riteniamo fosse giusta l'intuizione di Leibniz: noi viviamo nel migliore dei mondi possibili, perché, fra tutti quelli in cui possiamo immaginare una coesistenza di questi due fattori: la benevolenza e l'armonia del disegno complessivo da un lato, la nostra libertà di scelta dall'altro, questo è l'unico nel quale tale coesistenza si realizza in perfetto equilibrio; e, al tempo stesso, in cui gli effetti potenzialmente distruttivi della nostra libertà non arrivano al punto di poter perturbare irreparabilmente l'ordine complessivo, ma, anzi, tornano a far parte del circuito virtuoso che orienta ogni cosa verso il bene.

Ha scritto Piero Ferucci. seguace di Roberto Assagioli, nel suo libro «Crescere. Teoria e pratica di Psicosintesi» (Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1981, p. 102):

«Anche se voi non siete riusciti a trovare nessun messaggio nella situazione che avete scelto, può darsi che siate disposti ad accettarla: e l'accettazione dell'assurdo può portare a un profondo e benefico abbandono di sé, a un lasciarsi andare senza condizioni. L'accettazione veramente autentica, non fa più paragoni, non ha più aspettative, non progetta manipolazioni di sorta; è essenzialmente una percezione intuitiva della giustezza fondamentale del tutto. Una storia della tradizione Zen illustra questa apertura non preferenziale.
Mentre stava camminando in un mercato, Banzan sentì una conversazione fra un macellaio e il suo cliente.
"Dammi il miglior pezzo di carne che hai", disse il cliente.
"Ogni cosa è la migliore nella mia bottega", rispose il macellaio. "Non potrai trovare qui un pezzo di carne che non sia il migliore."
Sentendo queste parole, Banzan pervenne all'illuminazione.»

Questo, infatti, è il concetto sotteso alla vera accettazione della vita: nel mondo in cui viviamo, vi sino solamente articoli di prima scelta; e, per quanto ci sforziamo di cercare, non riusciremo mai a trovarne uno che non sia di prima scelta.
Se, di fatto, ci accade così spesso di imbatterci in articoli scadenti o decisamente cattivi, forse dovremmo onestamente interrogarci sul modo in cui li abbiamo utilizzati, dopo averli ricevuti perfetti dalle mani dell'Essere.
Sarebbe un utile esame di coscienza, crediamo.