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I nostri cari se ne vanno a poco a poco come per darci il tempo di accettare il distacco

di Francesco Lamendola - 04/09/2009


Nel terzo canto del «Paradiso», Dante traccia questa stupenda similitudine fra i volti delle anime beate e le immagini riflesse in uno specchio o in un limpidissimo corso d'acqua (10-16):

«Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan di nostri visi le postille
debili s'ì, che perla in bianca fronte
non vien men tosto alle nostre pupille;
tali vid'io più facce a parlar pronte…».

E poi così descrive il lento svanire del volto di una di quelle anime, la dolcissima Piccarda Donati, protagonista del canto (128-30):

«Così parlommi; e poi cominciò "Ave,
Maria" cantando, e cantando vanìo
come per acqua cupa cosa grave."»

Questi versi, e specialmente l'ultima terzina, ci sembrano perfettamente adatti a descrivere la situazione che si viene a creare, non sempre, ma spesso, allorché le persone a noi care diventano anziane e la loro anima incomincia a ritrarsi sul fondo, mentre la loro mente divaga in dimensioni a noi precluse. Alcune si rifugiano nel passato, rivivono episodi e situazioni di anni lontani; altre fuggono verso il futuro, immaginano il lieto compimento di eventi intensamente desiderati, per esempio il matrimonio dei figli o la nascita di nipoti.
Vi sono, ovviamente, anche patologie assai dolorose per i loro cari: gli anziani colpiti dal morbo di Alzheimer non riconoscono più le persone con cui hanno trascorso la propria vita e che, magari, stanno continuando a prendersi amorevolmente cura di loro. Altre volte l'anziano diventa aggressivo, impreca contro il coniuge o contro il figlio (o la figlia), intima loro di andarsene: persone che hanno avuto un carattere dolce e mite, ad un certo punto divengono irritabili, sboccate, gridano e bestemmiano in continuazione.
Questi sono fra i casi più sfortunati. Ma, in generale, forse è corretto affermare che almeno sei persone su dieci, oltrepassata una certa età, perdono il contatto con il mondo reale che le circonda e incominciano una vita parallela a quella «normale»; la loro mente è altrove; i loro pensieri divengono indecifrabili anche alle persone ad esse più intime.
Ormai appartengono ad un mondo diverso dal nostro, un mondo umbratile ed evanescente, dai contorni elusivi, nel quale  noi non possiamo entrare.
È doloroso, per un essere umano, vedere una persona cara allontanarsi in questo modo da tutto, pur rimanendo fisicamente presente: è come accorgersi che, di lei, non rimane altro che il corpo, mentre l'anima se n'è andata chissà dove.
Si può tentare di parlare con lei, ma presto ci si accorge che è tutto inutile: ella segue una logica che a noi sfugge, vede cose che noi non vediamo e dialoga con persone che non ci sono, non di rado ormai defunte da parecchio tempo.
È una esperienza difficile, a volte perfino straziante: in genere si verifica gradualmente, per cui si stenta ad accettare l'idea che il nostro caro, che pure è lì davanti a noi, apparentemente vivo e vegeto, in realtà se n'è già andato altrove, ha preso congedo da tutto e una barriera invisibile, ma ferrea, lo divide inesorabilmente dal nostro mondo.
Se prima, con quella persona cara, esistevano un forte legame affettivo e un dialogo aperto e continuo, è ancora più difficile accettare che si sia prodotta tale separazione irreversibile, perché la sua presenza fisica ci impedisce di capacitarci pienamente di quello che è avvenuto, e che non esistono rimedi per ritrovare colui che abbiamo perduto.
La verità è che quella persona cara ci ha già lasciati, per sempre; se n'è andata lontano, dove non possiamo raggiungerla: a noi è rimasto solo il suo involucro, come un impermeabile o un cappotto abbandonato sull'attaccapanni. In altre parole, è come se ella fosse già morta, per noi: l'unica differenza è che non abbiamo ancora dovuto separarci dalle sue parvenze.
Tutto questo può sembrare molto crudele, non solo: può sembrare anche inutilmente ironico e incomprensibile, quasi una beffa del destino, un assurdo. Questa, almeno, è la prima reazione di chi si trova a dover fare una tale scoperta, nei confronti di una persona cara divenuta anziana nella maniera che abbiamo descritto.
Poi, però, riflettendo bene, ci si accorge che è possibile guardare la cosa anche da un altro e ben diverso punto di vista. Ci si rende conto, cioè, che esistono, forse, una profonda ragione, una profonda saggezza e una profonda pietà, nel disegno cosmico che ha condotto quelle nostre persone care ad imboccare, per così dire in anticipo, la strada della separazione definitiva da noi.
E tale profonda ragione, tale saggezza e tale pietà, traspaiono dal fatto che, in questo modo, a noi che restiamo è concesso del tempo: del tempo per comprendere, per rielaborare, per accettare l'inevitabilità della partenza.
È come se queste persone, e la sapienza del disegno cosmico che sta dietro ogni cosa, volessero darci del tempo prezioso per assorbire un poco alla volta il trauma lancinante del distacco; è come se volessero fare in modo che la partenza si svolga in maniera dolce e la meno dolorosa possibile, evitandoci lo shock di un evento brusco e improvviso.
In un certo senso, è un riguardo che ci viene usato, una sublime forma di delicatezza: esattamente il contrario di una crudele ironia o di un assurdo inspiegabile.
E ciò è perfettamente in linea con una concezione spirituale della realtà, basata sulla ferma convinzione che gli enti non esistono a caso, ma sono il prodotto di un disegno sapiente e benevolo (cfr. il nostro recente articolo «Accettare la vita significa fidarsi che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Ma c'è dell'altro.
A ben guardare, la situazione sopra descritta può essere letta anche come una conferma dell'esistenza di una mente non localizzata, ovvero della sopravvivenza dell'anima all'evento traumatico, ma circoscritto, della morte fisica.
Si pensi, ad esempio, a quante volte la nostra mente, la nostra stessa coscienza, vagano altrove, magari nel bel mezzo di una conversazione con un amico o di una normale attività lavorativa. Il nostro corpo è sempre lì, seduto o in piedi, fermo o che cammina; gli altri lo possono vedere, toccare: ma dove siano noi, in quel momento?
Immaginiamo un improvviso ricordo d'infanzia, magari scaturito dalla percezione di un odore, di un profumo per noi caratteristico, legato, appunto, alla memoria emozionale di una qualche situazione degli anni della fanciullezza (è ormai ben noto, non solo a livello psicologico ma anche biochimico, il legame esistente tra il senso dell'olfatto e la formazione delle emozioni, tanto che i produttori di profumi di tipo industriale si servono scientificamente di tale connessione, tenendo conto dei risultati più recenti della ricerca di settore).
Immaginiamo, per esempio, che il profumo del rosmarino, durante una passeggiata in campagna, mi riporti alla mente il ricordo della nonna, che soleva aromatizzare immancabilmente il suo piatto più tipico della domenica, l'arrosto di vitello, con tale pianta. Marcel Proust, sul piano letterario - ma psicologicamente efficacissimo - ha descritto in maniera esemplare questo tipo di situazioni che, per loro stessa natura, si prestano più ad essere esplorate con un approccio intuitivo, che con uno basato suo rigidi parametri della ragione discorsiva.
Ebbene:  mentre quel profumo mi riporta agli anni dell'infanzia, seduto alla tavola da pranzo dei nonni, con davanti il tipico piatto domenicale della nonna, dove si trova la mia mente, in quel momento? Dove si trova la mia anima, dove sono io?
Si dice che l'io è il prodotto della consapevolezza di sé: ebbene, quale è la mia autoconsapevolezza, in quel momento? Quella del presente, o quella del lontano passato? Chi sono, in quel momento; qual è il mio io: quello di oggi, o quello di quando ero un bambino di otto anni? Quelli che mi stanno intorno, credono che io sia lì, con loro; ma s'ingannano: io sono molto, molto lontano: se non nello spazio, certo nel tempo.
E questa è una situazione assolutamente comune; vorremmo quasi dire banale, se il termine non fosse inadeguato a descrivere una delle tante meraviglie del reale che, per il solo fatto di essere frequenti, non dovrebbero tuttavia cessare di affascinarci, e di generare in noi la più viva ammirazione per la ricchezza e la complessità del mondo in cui viviamo.
Ma si pensi alle documentata esperienze di pre-morte, nelle quali la mente di un essere umano, sottoposto ad anestesia totale e ad un qualche intervento chirurgico d'urgenza, ha «viaggiato» fuori del corpo, ha visto e udito tutto quello che avveniva nella sala operatoria, e perfino quello che avveniva al di fuori di essa (come racconta, fra gli altri, il medico statunitense Larry Dossey nel suo libro «Alla ricerca dell'anima», Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1991).
Non soltanto - si badi - visioni soggettive, come quelle raccontate dal  celebre Raymond Moody nel suo ormai classico «Life Atfter Life», del 1975; ma nitide percezioni oggettive di quanto dicevano e facevano i medici e le infermiere; lucida percezione di particolari in se stessi insignificanti, e tuttavia esattissimi, come l'abbigliamento di un certo medico, fino al colore dei calzini.
Se ne dovrebbe dedurre che la mente non è localizzata e che non coincide con il cervello o con il sistema nervoso centrale; ma, semmai, che il cervello e il sistema nervoso sono il supporto temporaneo di essa, senza i quali la sua esistenza non cessa per niente, ma prosegue in altre dimensioni, libera dai condizionamenti dello spazio e del tempo.
E che altro è la mente non localizzata, che altro è il concetto di una mente non limitata alla sfera fisica del corpo, se non l'antico concetto dell'anima (o dello spirito), censurato ed estromesso dal salotto buono della scienza e della cultura moderne, ma che, cacciato dalla porta, rientra inevitabilmente dalla finestra, perché appartiene non al regno delle ipotesi, più o meno labili e fantasiose, ma a quello, caro ai nostri scienziati e filosofi d'indirizzo neopositivista, dei fatti?
E non è forse vero che quei signori, piuttosto che dover riconoscere l'esistenza di fatti a loro sgraditi per ragioni di pregiudizio ideologico, preferiscono cacciare la testa sotto la sabbia, come gli struzzi, e negare ciecamente ciò che non sono disposti ad ammettere?
Ma lasciamoli alle loro comode sicurezze, alle loro certezze prefabbricate a un tanto il chilo; e torniamo alla riflessione da cui eravamo partiti.
Le persone care ci lasciano, e questa è una legge di natura; così come noi dovremo lasciare, a nostra volta, coloro che ci amano. Il divagare della mente e il ritrarsi dell'anima, nel caso di molte persone anziane, in una dimensione che a noi sfugge, può essere visto come un processo di preparazione al distacco definitivo, affinché noi possiamo tentare di farcene una ragione.
Definitivo, s'intende, nella forma presente, ossia nella dimensione spazio-temporale, così come noi l'abbiamo conosciuta e sperimentata nel corso della nostra vita terrena.
Le credenze religiose di ogni cultura insegnano concordemente che non bisogna assolutizzare tale forma di esperienza, perché essa è del tutto inadeguata a rendere una sia pur vaga idea di quale sarà la nuova forma di esistenza dell'anima, dopo il distacco dal corpo.
Nella religione cristiana, la dottrina dei «novissimi», legata all'apocalittica («rivelazione delle cose ultime»), è una parte importante della visione complessiva del destino dell'uomo e del mondo, che ha impegnato alcuni dei più grandi teologi d'ogni tempo.
Una cosa è certa: noi non possediamo, servendoci unicamente del Logos strumentale e calcolante - quello della ragione scientifica - gli strumenti concettuali per immaginare, e tanto meno per descrivere, lo stato della mente non localizzata dopo la separazione finale dal corpo. L'anima non può essere indagata per tale via.
Forse, il sorriso di un anziano che, pur vivo fisicamente, sta già viaggiando in una dimensione diversa dalla nostra, dove i corpi non si ammalano, non invecchiano né muoiono, è per noi un anticipo, una caparra, ed anche un suggerimento, circa il destino finale della nostra esistenza.
Dovremmo riflettere seriamente, su questo.
Forse, ci aiuterebbe a guardare alla vita e  alla morte con una maggiore e più matura consapevolezza.