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Si vede di che stoffa è fatto un uomo quando cadono le sue ultime illusioni

di Francesco Lamendola - 07/09/2009


Nessuno può sapere di che stoffa è fatto, fino a quando non viene sottoposto alla prova più dura: le caduta delle ultime illusioni.
Le prime, incominciano a cadere, impietosamente, nel passaggio dall'infanzia all'adolescenza; alcune altre, in quello da quest'ultima all'età adulta.
Quelle che rimangono - e non sono molte, in genere - subiscono l'assalto della realtà nel corso della piena maturità: sicché la maggior parte delle persone arriva alle soglie della vecchiaia più o meno totalmente disillusa. Ecco perché molte persone anziane tradiscono quel tipico atteggiamento di disincanto e di amarezza che, più ancora dell'età in se stessa, finiscono per creare una sorta di barriera tra esse e il resto del mondo.
Non sono poche quelle che reagiscono rifugiandosi nell'amicizia esclusiva con un animale domestico, specialmente con un cane: le donne più degli uomini, ma non loro soltanto. Ma, naturalmente, l'amicizia con un animale domestico, per quanto affettuoso e intelligente (e alcuni lo sono in maniera straordinaria), non potrà mai sostituire adeguatamente l'amicizia con un altro essere umano. D'altra parte, la disponibilità ad aprirsi con un altro essere umano presuppone che si conservi ancora qualche illusione circa la natura umana in quanto tale: se non si crede più nella sua bontà, è impossibile stabilire un'amicizia, perché senza fiducia non esiste amicizia.
La barriera che si viene a creare fra molti anziani (e non solo quelli che sono tali in senso biologico, ma anche in senso psicologico) e il resto del mondo, è una barriera di ferro, insormontabile: da una parte vi sono quelli che hanno perso le illusioni e non credono più a niente; dall'altra, coloro che nutrono ancora un certo numero di illusioni, e ancora sperano e si attendono qualche cosa di bello dalla vita.
Ma che cosa sono, esattamente, le illusioni, senza le quali l'uomo non riesce più a vivere? Ed è proprio vero che perderle significa scivolare inesorabilmente e definitivamente nell'amarezza e nel pessimismo?
Definiamo «illusioni» non solo quei grandi ideali che, per Foscolo, spronano gli esseri umani ad azioni magnanime e danno un senso alla loro vita, e che,  pur continuamente smentite dai fatti, risorgono nondimeno ogni volta nell'animo umano; ma anche quella capacità di credere nelle cose, negli altri, nel mondo, nella vita: di crederci con una parte almeno dello stupore e della meraviglia con cui ci credevamo da bambini.
Il bambino crede a moltissime cose; per dir meglio: a tutte; l'adulto, mano a mano che si lascia alle spalle l'infanzia e, poi, l'adolescenza, smette di credere a molte di esse, poi ad altre e ad altre ancora: finché, a un certo punto, si accorge di averle seppellite tutte dietro di sé, lungo la strada, e di essere rimasto solo con i propri rimpianti e con i propri rimorsi.
La perdita delle illusioni, in tal senso, viene gradatamente a coincidere con il disincanto nei confronti del mondo, benché si tratti, all'inizio, di due ordini di processi distinti: l'incanto è una caratteristica dell'infanzia, le illusioni sono una categoria non storica, bensì meta-storica dell'animo umano.
L'illusione per eccellenza, naturalmente,  è quella amorosa: che coincide, appunto, in una prima fase (nei primi anni di vita), con l'incanto per l'altro; poi l'incanto, gradualmente, sbiadisce e si spegne, ma l'illusione rimane, nella misura in cui si continua a vedere nell'altro il completamento del proprio sé, e a perseguire l'amore per ripristinare - come dice Platone nel mito dell'Androgino - l'unità ed il benessere perduti.
Si tratta, però, di una illusione, perché non è vero che noi possiamo completarci con l'altro, sino a fonderci con esso e a realizzare la restaurazione dell'unità originaria. La verità, tutto al contrario, è che più si avvicina alla realizzazione dell'amore colui, o colei, che ha saputo percorrere un cammino esistenziale maggiormente autonomo, sì da non dover cercare nell'altro un appoggio e un sostegno alla propria debolezza, ma una ulteriore espansione e un ulteriore arricchimento della propria forza e della propria energia vitale.
A questo punto, incomincia a delinearsi una prima risposta alla domanda se la caduta delle illusioni sia inevitabile. È inevitabile, se si tratta di illusioni basate su un totale fraintendimento della realtà: ad esempio, credere che l'amore possa conferire forza a chi non ce l'ha, o colmare la solitudine di chi non è mai stato capace di stare solo, appartengono a questa categoria.
Ma vi sono altre illusioni, che non nascono da un desiderio puerile di essere sempre al centro del mondo, né di adeguare la realtà ai propri desideri più egoici, bensì da una innata freschezza d'animo e dalla capacità di trasfigurare la realtà con un alone di poesia, che la rende più amabile e più a misura d'uomo: perché sognare è una caratteristica eminentemente umana.
Fra queste ultime illusioni, rientra anche la fiducia nella bontà degli esseri umani e nella loro capacità di porsi in relazione col prossimo in maniera non del tutto egoistica e superficiale. È una illusione, nella misura in cui si è disposti a concedere una tale fiducia a tutti indiscriminatamente; ma contiene un nucleo di verità, se si è capaci di far leva su quel che di potenzialmente positivo alberga nell'animo di ogni uomo, anche il meno evoluto spiritualmente.
Senza dubbio, la santità di certi grandi personaggi, percepibile quasi a livello fisico, deriva anche da questa capacità di porsi in atteggiamento fiducioso davanti al prossimo, chiunque egli sia: atteggiamento fiducioso che non equivale a ingenuità o dabbenaggine, ma che scaturisce dalla consapevolezza che una scintilla divina alberga anche nel cuore più nero. San Francesco d'Assisi, che ammansisce perfino un lupo feroce, appartiene a questa categoria di personalità spiritualmente elevate, capaci di irradiare benevolenza e di mostrare fiducia verso tutti.
Il segreto della loro bontà e del loro fascino risiede nel fatto che tali grandi anime sanno guardare al prossimo non per ciò che egli è, ma per ciò che potrebbe diventare; il loro atteggiamento è assolutamente sereno ed equanime, e, soprattutto, non giudicante. Il loro sguardo non esprime condanna, né disprezzo, né timore, né avversione, ma soltanto incondizionata accettazione e illimitata capacità di amore.
Perciò, la caduta delle illusioni si deve considerare come un evento talmente frequente da potersi considerare praticamente la norma; e tuttavia, anche come un evento che è fondamentalmente la conseguenza di un errore e di uno squilibrio complessivo nell'orientamento dell'energia vitale degli esseri umani e che perciò, almeno in linea teorica,  deve essere considerato evitabile e niente affatto fatale.
In un certo senso, perdono le illusioni coloro i quali non hanno saputo eseguire il passaggio dalla fase delle illusioni spontanee, proprie dell'infanzia, alla consapevolezza dell'incanto del mondo, propria di una età adulta che sia veramente degna di questo nome. Infatti, coloro i quali riescono a compiere tale passaggio, possono perdere bensì delle illusioni, ma le sentiranno rinascere ogni volta dal fondo dell'anima, più forti di ogni delusione.
Ad ogni modo, è nel momento in cui un essere umano perde le proprie illusioni, e, con esse, in un certo senso, la propria innocenza e la propria fiducia nel domani, che si rivela di quale stoffa sia fatto. Solo allora cadono le maschere, gli orpelli, e la nuda sostanza di cui egli è fatto emerge in superficie, senza ulteriori possibilità di nascondimento.
È un momento rivelatore, quindi; uno di quei momenti decisivi, nei quali anche il commediante più scaltrito è costretto a deporre la maschera, almeno per un momento, e lascia scorgere quello che c'è dietro di essa: la sua autentica essenza, pura e semplice.
Naturalmente, esistono persone così abili nell'indossare una nuova maschera, che a malapena danno il tempo a qualcun altro di coglierle in quel raro mento di assoluta verità: perché esse per prime non sopportano di guardarsi come sono, e tanto meno sono disposte a lasciarsi vedere da altri.
Tuttavia, per capire veramente di che stoffa si è fatti, non basta che siano gli altri a vederci senza maschera, per un tempo più o meno prolungato; è necessario che ci vediamo noi, e sia pure nel lampo rivelatore di un istante.
Colui che non sopporta la possibilità di questa rivelazione, perché sa che non potrebbe reggere al suo significato, imposterà tutta la propria vita in maniera tale da evitare accuratamente tutte le occasioni di verità, ossia tutte quelle situazioni nelle quali potrebbe essere costretto a togliersi la maschera e a vedersi per quello che realmente è.
In linea generale, due sono le strategie principali che realizzare questo obiettivo: o chiudersi sempre di più in se stesso, in modo da ridurre al minimo indispensabile la relazione con l'altro, e, quindi, le potenziali occasioni di verità; oppure proiettarsi esageratamente al di fuori di sé, simulando una socievolezza infaticabile venata di un sottofondo isterico, in modo da simulare una solarità di carattere che metta fuori strada chiunque potrebbe sospettare la verità, secondo il vecchio adagio che la migliore difesa è l'attacco.
Appartengono alla prima categoria i malinconici, gli sfiduciati, i depressi, i pessimisti cronici e tutti coloro i quali, per paura delle delusioni, non si vogliono nemmeno esporre al rischio di osare, di uscire dal proprio guscio; alla seconda categoria, tutti coloro dei quali, dopo che hanno compiuto un gesto clamoroso e impressionante, i vicini e i conoscenti diranno, stupefatti: «Chi lo avrebbe mai detto! Era una persona talmente allegra e gradevole…».
È evidente che adottare una strategia sistematica per sottrarsi al momento della propria verità interiore, significa trasformarsi nei peggiori nemici di se stessi: perché solo la conoscenza di noi, per quanto dolorosa o, magari, sconvolgente, può costituire la premessa per accettarci ed amarci veramente, cosa di cui soprattutto abbiamo bisogno; e, inoltre, per mettere ordine nella nostra vita, e darle un orientamento costruttivo e soddisfacente.
Vi sono delle persone così fortunate - usiamo la parola «fortuna» in senso figurato, perché, in realtà, nulla a questo mondo è soggetto all'arbitrio del caso - da fare un incontro salvifico con l'altro; persone, cioè, le quali, pur avendo messo in opera ogni accorgimento per nascondere a tutti e a se stesse la propria verità interiore, incontrano qualcuno che, con amore e dolcezza, le aiuta a vincere le proprie paure e a lasciarsi andare con fiducia.
Ciò fornisce loro la possibilità, magari dopo una vita di inautenticità e di menzogna, di ritrovare la fiducia nell'altro e, contemporaneamente, in se stesse: quella fiducia, vogliamo dire, che consente loro di riconoscersi e accettarsi per quello che sono; oppure, eventualmente, di mettersi a lavorare su se stesse, per cambiare e migliorare quegli aspetti del proprio io che hanno giudicato inadeguati e insoddisfacenti.
In verità - lo ripetiamo - non si tratta di fortuna: perché, anche ammesso che una tale categoria di fenomeni esista, è chiaro che noi non potremmo trarne alcun beneficio, se la nostra anima non fosse abbastanza evoluta da poterne trarre un qualche giovamento. Le cose sono pronte per noi, solo quando noi siamo pronti per esse: e ciò vale anche, e soprattutto, per gli incontri importanti della nostra vita.
Ma perché, potemmo domandarci, è così importante che noi scopriamo di quale stoffa siamo fatti? Non potremmo vivere altrettanto bene ignorandolo, visto e considerato che, in ogni caso, si tratta di un movimento dello spirito non semplice, e quasi sempre doloroso?
La risposta è quasi ovvia. Se noi non troviamo il coraggio della nostra stessa verità, vivremo perennemente immersi in un clima di menzogna. E, per difendere tale menzogna, saremo pronti a trattare da nemici tutti quanti, anche coloro i quali potrebbero aiutarci. Non solo: tratteremo da nemici anche noi stessi, condannandoci a una intera vita di sofferenza. E, per poter meglio sostenere questa assurda battaglia, saremo portati a scaricare sull'altro le nostre nevrosi, la nostra rabbia, la nostra disperazione; oppure a riversarla su noi stessi.
Nell'un caso come nell'altro, non sarà una bella vita, la nostra.
Sarà quello che più si avvicina al concetto tradizionale dell'Inferno: un luogo totalmente, assolutamente privo di speranza.