Al termine dello sviluppo
di Giano Accame - 24/03/2006
Fonte: area-online.it
Al recente congresso dell’Unione generale del lavoro Stefano Cetica, che dell’Ugl è il nuovo presidente, si è avventurato in un ragionamento che per un sindacalista aveva quasi sapore d’eresia, perché vi ha demistificato l’idolatria del Pil (Prodotto interno lordo), la cui crescita è assunta abitualmente come indice di sviluppo anche dell’occupazione e di un più diffuso benessere. “Chi è arrivato in ritardo in questa sala perché è rimasto imbottigliato nel traffico”, ha osservato Cetica, “ha subito un grave disagio, ma ha consumato più carburante, ha fatto crescere il Pil e quindi, secondo questo indicatore, sta meglio. Coloro invece che hanno trovato la strada libera o magari hanno fatto una passeggiata arrivando in anticipo e si sono potuti permettere il lusso di riposarsi, leggere qualcosa o scambiare quattro chiacchiere con amici che non vedevano da tempo stanno peggio, non avendo fatto crescere il Pil. Se il parametro del Pil si presta a questi paradossi, se assegna lo stesso valore alla costruzione di una prigione o a quella di un ospedale, alla vendita delle armi e a quella del pane, dobbiamo avere la forza di rimetterlo in discussione, di assumere come indicatori del benessere della popolazione altri riferimenti, di sostenere che non è uno scandalo, per esempio, se il Pil rimane stabile”. Ma ormai il problema da affrontare va oltre agli inconvenienti di un lamentato rallentamento o temporaneo arresto nello sviluppo, perché la prospettiva su cui si sta concentrando una recente fioritura di libri è piuttosto quella di una vera e propria decrescita.
Ci siamo già occupati nei mesi scorsi del saggio pubblicato con Settimo Sigillo dal sociologo Carlo Gambescia su Il migliore dei mondi possibili, titolo ironico che in realtà si dirige, come è reso evidente nel sottotitolo, contro Il mito della società dei consumi. Gambescia, che è stato tra l’altro fra i primi collaboratori di Area insieme al filosofo della politica Giuliano Borghi, autore nel 2003 con Settimo Sigillo di Homo religiosus, Homo oeconomicus, Homo vacuus, sulla crisi dell’uomo moderno in un mondo totalmente desacralizzato, profano e ridotto a praticare l’economia come destino - conclude con un invito ad “aprirsi al dono, all’ospitalità, alla semplicità di vita”, al ricupero dell’idea di sacralità e quindi di “una vita spesa bene”. Proposte sgradevoli per un mondo poco disposto a fare penitenza, abbracciando stili di vita quaresimali, ma che potrebbe esservi costretto dai prossimi scenari di decrescita economica. Ne tratta Alain de Benoist, padre della Nuova destra francese, in Comunità e Decrescita. Critica della Ragion Mercantile (Arianna editrice, 2006), mentre a sinistra, con gli Editori Riuniti, Maurizio Pallante ha appena pubblicato La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal Pil. Sia Pallante che de Benoist considerano ormai alla fine il modello di progresso sinora legato alla crescita economica continua. Il mondo della produzione comincia a scontrarsi da un lato con la rarefazione di varie risorse, dall’altro col degrado delle condizioni ambientali. Pallante suggerisce soluzioni di sobrietà e autoproduzione. A chi consuma benzina spostandosi tra fumi di scarico contrappone un’immagine un po’ ingenua di felicità: “Sto solo riempiendo la borraccia con l’acqua di una sorgente. Non costa nulla. Poi mangerò i pomodori che ho coltivato nell’orto. Non sono costati nulla neanche loro, e qualche fetta di pane che ho fatto in casa con farina di grano coltivato biologicamente. La compro direttamente dal produttore con gli amici del gruppo d’acquisto solidale, saltando tutte le intermediazioni. Comprando la farina lo faccio crescere anch’io il prodotto interno lordo, ma meno che se la comprassi al supermercato, con la sua bella certificazione che la fa costare di più. E meno ancora che se comprassi il pane”. De Benoist, vecchia volpe!, considera invece errato immaginare la decrescita come un ritorno al passato o una brutale degradazione del livello di vita. Sostiene la necessità d’immaginare modelli di “decrescita sostenibile” o “conviviale” affidandone la realizzazione a un’intesa politica trasversale tra forze che abbiano preso coscienza della consumazione dei vecchi schemi: “Una sinistra socialista che ha saputo farla finita con il “progressismo” è oggi l’interlocutore assolutamente naturale di una destra che, dal canto suo, ha saputo rompere con l’autoritarismo e la logica del profitto”.
Il problema dei limiti dello sviluppo era già stato posto nel maggio 1972 con la pubblicazione di un rapporto commissionato dal Club di Roma, presieduto da Aurelio Peccei, a un gruppo di studiosi del Mit (Massachusetts institute of technology). La problematica delle risorse in via d’esaurimento all’inizio degli anni Settanta parve prematura, anche se proprio nel
I prossimi anni dovranno essere dedicati alla riorganizzazione politico-sociale nel rallentamento dello sviluppo evitando che ciò si traduca in drammatiche rotture della pace sociale. Ma le attuali intelligenze manageriali non vi sono preparate e tanto meno le forze partitiche. E interessante in merito la riflessione di un giurista di destra, Ubaldo Giuliani-Balestrino, ordinario di diritto penale all’Università di Torino, che conclude il suo ultimo libro su Il crollo dell’Europa (Rubbettino 2005) prospettando il ritorno delle idee cadute nel secolo scorso come reazione all’insufficienza progettuale del liberalcapitalismo trionfante sui fascismi e sul comunismo. La società occidentale, nota Giuliani-Balestrino, è “sempre più frammentaria, individualizzata, tesa al profitto economico immediato, ostile agli impegni duraturi, come dimostrano la frequenza dei divorzi, degli aborti, il nomadismo, il calo delle vocazioni religiose, l’aumento della delinquenza, e ciò dimostra che l’esigenza dell’uomo di sentirsi inserito in una comunità di destino rimane fortissima e può ripresentarsi domani”. Insomma: “Se tanti e così tenaci e così grandi sono stati i tentativi di uscire dalla civiltà capitalistica, non vi sarà - all’interno di questa civiltà - un vizio occulto? Non vi è - per caso - nel mondo attuale un eccesso d’individualismo e una compressione dell’esigenza comunitaria?”.
La domanda era già stata posta da Marcello Veneziani in Comunitari o liberal. La prossima alternativa? (Laterza 1999) e viene ora rafforzata non da una generica esigenza di ricupero dei legami comunitari di cui i totalitarismi abusarono nel secolo scorso, quanto dalle necessità pratiche di riorganizzare le economie avanzate o “del benessere” di fronte alla prospettiva per tanti versi sconvolgente della decrescita. La direzione per la ricerca di nuovi assetti sociali è di tipo solidarista, partecipativo, da intraprendersi, secondo il suggerimento di Alain de Benoist, con incontri tra una destra autenticamente sociale e una sinistra finalmente svincolata da schemi invecchiati e inapplicabili alle tematiche inedite del Duemila.