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Mi dispiace ma... La politica. l'economia e la finanza

di Gianfranco La Grassa - 09/09/2009


Oggi, 8 settembre, vi è un articolo di Francesco Forte su Il Giornale, che proprio non mi piace.
Si tratta, per carità, di un economista del tutto stimabile, di cui anche il mio Maestro italiano, Pesenti
(senatore comunista), parlava molto bene. Tuttavia, ritengo sbagliato il suo articolo. Non perché
critichi seccamente Tremonti. Nella battaglia tra questi e le banche, essendo una lotta tra “gruppi di
potere”, non prendo partito nel senso di una particolare predisposizione e simpatia per qualcuno. Vi
vengono coinvolte però questioni di teoria e di politica che non possono essere sottaciute.
Forte adombra l’idea che il fine ultimo del Ministro è cambiare alcuni manager dei due principali
Istituti, Intesa e Unicredit, che si sono distinti per il loro schieramento a sinistra e si sono intruppati
ai gazebo delle primarie per Prodi (e, credo, anche per Veltroni). Il professore, per quanto ne
so, è vicino alla destra (scriveva prima per Libero, ora per Il Giornale), ma non può sopportare
l’idea che politica ed economia dipendano l’una dall’altra (né in un verso né nell’opposto); sembra
di sentire parlare della formale (e ingannevole) divisione dei poteri patrocinata da Montesquieu, e
accettata generalmente dall’ipocrita “democrazia” dei paesi “occidentali”. Qui, però, non si parla di
legislativo, esecutivo, giudiziario, bensì di politico e di economico. E’ lo stesso (per Forte); gli amministratori
delle banche devono rispondere solo agli azionisti (sembra quasi che siano il “popolo”)
e i politici interessarsi esclusivamente……. a che cosa? A lasciar fare ai gruppi di pressione economico-
finanziari?
Del resto, recentemente e sullo stesso giornale, pure Geronimo, che invece non ammette completa
indipendenza tra i due settori e chiede anzi che la politica (lo Stato) controlli (ma solo un po’)
l’economia, ha preso posizione per le banche criticando Tremonti. Mi risulta sospetta l’unità
d’azione tra linee teorico-politiche divergenti (libero mercato o invece più incisivo intervento “pubblico”),
per di più sostenute da due personaggi autorevoli che, tutto sommato, si pongono nell’area
delle forze oggi al governo. Non voglio però lanciarmi in ipotesi; non fino a quando (e se) non sia
riuscito a capire un po’ meglio i retroscena di questi che sono, in tutta evidenza, scontri tra gruppi di
potere, dove non vi è alcuna possibilità di separazione tra economia e politica, come vorrebbe Forte,
né un illuminato e disinteressato intervento del “pubblico” come vuole Geronimo, che evidentemente
ritiene l’azione e la critica di Tremonti non caratterizzate in tal senso.
Chissà cosa c’è dietro; c’è solo da sperare che infine si arrivi alla resa dei conti tra i vari gruppi
poiché nulla di più efficace esiste, per affossare il paese, degli “equilibrismi” tra posizioni contrapposte.
Vi sono congiunture storiche, in cui sarebbe meglio si tralasciasse l’ipocrisia della divisione
dei poteri e la si smettesse di affilare i coltelli per colpirsi alla schiena; meglio andare allo scontro
con sciabole e spadoni (talvolta persino con mazze ferrate). Certo, non mi è indifferente la soluzione
cui si arriverà; anche se so che non sarà comunque una soluzione di quelle da me preferite (ma
queste lo erano del resto tanto tempo fa e si sono dimostrate, usando un eufemismo, assai “problematiche”).
Il fatto è che veramente, in questo bailamme – in cui sia nella sedicente destra come nella
sedicente sinistra, si può dire di tutto e di più – è difficilissimo orientarsi.
Limitiamoci al momento a considerazioni del tutto generali. Non è per nulla l’economia – in “libero
mercato” – a decidere le sorti della forza e prosperità (pur se non immediata) di dati paesi invece
che di altri; bensì lo sono determinate strategie politiche di fondo. Tuttavia queste ultime –
considerate spesso (per comodità) come politica di un paese preso nel suo insieme – sono in realtà il
vettore di composizione delle forze che si scontrano all’interno dello stesso; per cui una strategia
internazionalmente efficace nasce dal prevalere di particolari gruppi di potere in conflitto
nell’ambito nazionale. Non esiste strategia che non coinvolga gli apparati finanziari, ed è quindi
fondamentale sapere chi si pone al loro vertice: se gli azionisti (cioè i gruppi di controllo, di questo
solo si tratta!) delle banche – che hanno sempre un loro referente politico; non a caso i massimi dirigenti
degli istituti italiani si sono precipitati alle primarie della sinistra – oppure più direttamente
gli apparati “pubblici” (statali), anch’essi con precisi referenti politici e gruppi di controllo, talvolta
coincidenti con i precedenti oppure diversi come nel caso nello scontro Tremonti-banche.
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In tutto questo gioco tra potere “pubblico” e “azionariato” (gruppo di controllo) finanziario, è
ovvio che non deve essere sacrificato l’apparato produttivo, poiché qui è in ballo la forza del paese
con la sua possibile strategia internazionale vincente (o comunque non perdente). Ed è nella sfera
produttiva che si scontrano ben precisi gruppi di potere – mai divisi da quelli dei settori politici e
finanziari; altro che tripartizione dei poteri! – grosso modo divisi in: a) gruppi dell’industria innovativa
(dell’ultima ondata di industrializzazione), che premono per una accentuata autonomia del paese
nel contesto della competizione internazionale; b) gruppi “arretrati” delle passate stagioni di industrializzazione,
condotti a preferire per i loro interessi una politica di subordinazione ai (allo scopo
di meglio integrarsi con i) settori del gruppo sub a) esistenti in altro paese, che assume allora
funzione predominante (esempio: Fiat e settori oggi al vertice della Confindustria italiana succubi,
perché interessati ad esserlo, nei confronti degli Usa).
Se guardiamo velocemente alla storia, quando declinò il capitalismo inglese (e borghese), divenuto
preminente in seguito alla prima rivoluzione industriale, due furono le alternative per sostituirlo
nella predominanza in ambito mondiale. Innanzitutto la tedesca (e, pur con differenze, la giapponese)
basata sulla netta spinta bancaria, tuttavia mai sottratta ad un deciso controllo statale (si pensi
a Rathenau oltre alla critica marxista di Hilferding). La via statunitense si fondò invece sulla forte
iniziativa del management dei settori produttivi (unita all’impulso decisivo fornito dalla seconda
rivoluzione industriale), che si intrecciò in forme particolari (e spesso malavitose) con il potere politico
(statale) e giunse già in vetta con la prima guerra mondiale (restò però, nell’area del Pacifico, il
concorrente giapponese con la sua forza crescente). La Germania, sconfitta, si trovò con la finanza
succube di quella americana, che per suo tramite esercitò una robusta pressione sul potere politico
tedesco all’epoca della Repubblica di Weimar. Il nazismo tentò di riprendere quota e assicurarsi la
rivincita, rilanciando l’industria e sottomettendo la finanza alla politica; ma con uno sforzo eccessivo
e troppo rapido che produsse i ben noti terribili effetti, non proprio irrilevanti nel provocare una
nuova e definitiva disfatta.
Lasciamo quindi perdere quelle che sono, secondo me, distorsioni ideologico-politiche (nel senso
della politica politicante) dei pur lucidi Forte e Geronimo, in fondo i migliori commentatori odierni
perché, se si pensa agli altri economisti, viene la tentazione di invocare l’internamento in Istituti
per handicappati mentali. Non so bene quali pasticci stiano combinando i vari gruppi di potere
italiani (con quelli stranieri), salvo individuare con una certa chiarezza i lineamenti del conflitto nel
settore energetico. Distinguere destra e sinistra, come rappresentassero posizioni definite e antitetiche,
è impossibile. Ricordiamo però la storia, ricordiamo che la finanza non dipende semplicemente
dall’azionariato (ma dai gruppi di finanzieri in posizione di comando), tenendo soprattutto ben presente
quali sono nel nostro paese i gruppi produttivi di punta – dell’ultima ondata innovativa, interessati
ad avere un potere politico indipendente e nazionale, che consenta loro di competere ad armi
pari con i gruppi “stranieri”, alleandosi con alcuni di loro se necessario – e quali sono quelli “arretrati”
interessati a subordinarsi a più potenti sistemi economici e politici.
Orientiamoci un po’ in questo modo e cerchiamo di capire dove sta il meno peggio che, in questo
paesaggio piuttosto desolante, può assumere il significato del “meglio”.