Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Arthur Collier e la «Clavis universalis»: un esempio di pensiero sincrono

Arthur Collier e la «Clavis universalis»: un esempio di pensiero sincrono

di Francesco Lamendola - 09/09/2009


Arthur Collier: chi era costui?, si chiederebbe ancor oggi il nostro bravo don Abbondio, che pure del tutto digiuno di cultura generale non doveva essere.
In effetti, sono poche le storie della filosofia che lo ricordano, e lo stesso vale anche per le enciclopedie universali.
Sembra che questo oscuro filosofo inglese, nato a Langford Magna, nel Wiltshire, nel 1680, e ivi morto nel 1732, autore di un'opera intitolata «Clavis universalis. Dimostrazione della non esistenza o impossibilità di un mondo esterno», non abbia attirato quasi per nulla l'attenzione dei suoi contemporanei, nonostante qualche traduzione all'estero, specialmente in Germania; se non per la curiosa coincidenza, sia cronologica che contenutistica, con la filosofia immaterialistica di George Berkeley.
Eppure, il primo abbozzo della dottrina del Collier è del 1708, e quindi sicuramente indipendente da quella di Berkeley (del quale abbiamo già trattato nel saggio «Introduzione alla filosofia di George Berkeley», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice). Basterebbe già questo fatto per mettere una grossa pulce nell'orecchio di quanti sono soliti liquidare simili coincidenze come semplice opera del caso: due filosofi, vissuti nello stesso Paese e negli stessi anni, che giungono a formulare una dottrina pressoché identica, senza aver avuto alcun contatto reciproco e senza aver sentito parlare in anticipo l'uno delle idee dell'altro!
Arthur Collier, sempre sotto l'influenza del pensiero di Malebranche e del suo occasionalismo, scrisse anche altre due opere, molti anni dopo la «Clavis universalis»: il «Saggio della vera filosofia», del 1730, e «Logologia», del 1732: l'anno della sua scomparsa.
Pare che il più famoso Berkeley avesse notizia della «Clavis» e ne fosse, forse, un tantino seccato, visto il tono alquanto laconico con il quale ne scrisse in una lettera a Lord Percival nel giugno del 1713: «Un ecclesiastico del Wiltshire ha pubblicato recentemente un trattato in cui prospetta una tesi resa nota da me tre anni fa nei "Principi della conoscenza umana"».
Tuttavia, le date non quadrano: perché, se l'opera più nota di Berkeley era stata pubblicata, appunto, nel 1710, quella del Collier era stata concepita fin dal 1708, vale a dire due anni prima: comunque la si voglia considerare, la questione è alquanto intricata.
Lo storico della filosofia John Arthur Passmore, docente presso l'Australian National University di Canberra, delinea il seguente profilo di Arthur Collier e della sua opera nella «Encyclopaedia Britannica», che riportiamo per comodità del lettore italiano che fosse interessato a saperne qualcosa di più (ed. 1961, vol.  6, p. 17):

«COLLIER, ARTHUR (1680-1732), English philosopher, who has had his admirers both in England and on the continent of Europe, was born at the rectory of Langford Magna, Wilsts., on Oct. 12, 1680. Educated at Pembroke and balliol colleges, Oxford, he became rector of langford Magnain 1704. A close student of Descartes, of Nicholas Malebranche and of John Norris, he shows no knowledge of Locke's work, but probably read Berkeley at a late stage in the development of his own ideas.
In his "Clavis Universalis" (London, 1713) he denies, like Berkeley, taht there is an external world, indipendent of mind. The fact that what we seems to be external, he argues, is not proof that it actually is external; for we often experience apparently external objects (e.g., in hallucinations or in double vision) which we nonetheless admit not to be external. Indeed, any imagined object seems to be external. The difference between a seen and an imagined object is not that the seen object possesses a quality of externality which the inagined object lacks, buth that the seen is more vividly experienced than the imagined; and this does nothing to prove that it exists indipendently of us.
Furthermore, the very notion of an external world is self-cointradictory. Philosophers, Collier anticipates Kant in arguing, have unanswerably demonstrated both that the external world must be finite and that is must be infinite; that it must, but cannot, be infinitely divisible; that it must, but cannot, contain motion. The only way out of these antinomies is to recognize that there is not external world; i. e., that what we perceive exists only in relation to a mind. Only on this view, too, can we satisfactorily describe mind's relation to its objects and God's relation to created beings. Collier's metaphysics is outlined in his "Confession" (written in 179) and theologically interpreted in "A Specimenof True Philosophy" (Sarum, 1730) and "Logology" (1732). There is, he says, one supreme substance, God, in relation to which everything else has only a dependent existence. (He was suspected of Arianism). But within that substance there is an order of dependence which is also an order of perfection. In particular, the visible world of matter is dependent upon, and is less perfect than, the mind which perceives it. Collier has never exerted any considerable influence.
BIBLIOGRAPHY. - For "Clavis Universalis" see E. Bowman's edition (Chicago, 1909); or S. Parr, "Metaphysical Tracts by English Philosophers of the Eighteenth Century" (London, 1837), which includes "A Specimen" and a brief précis  of "Logology". For the "Confession" sse R. Benson, "Memoirs of the Life and Writings of Arthur Collier" (London, 1837). See also J. H. Muirhead, "The Platonic Tradition in Anglo-Saxon Philosophy" (London, New York, 1931); and G. Lyon, "L'Idéalisme en Angleterre" (Lyons, 1888). On Collier and Berkeley, see G. A. Johnston, "The Development of Berkeley's Philosophy", appendic i (London, 1923). For Collier and Kant see O. Lovejoy, "Kant and the English Platonists", in "Essays in Honour ofWilliam James" (New York, 1908); and H. J. De Vleeschauwer, "Les Antinomies kantiennes et la 'Clavis Uiversalis' d'Arthur Collier", in "Mind" (London, 1938).»

C'è una buona notizia, tuttavia, per il lettore italiano desideroso di approfondire l'argomento: la «Clavis universalis» è stata tradotta in italiano da Antonio Casiglio, il quale vi ha premesso ampio e bel saggio introduttivo, nel 1953; e, anche se si tratta di un testo oggi non facile da reperire, avendo ormai oltrepassato il mezzo secolo di età, costituisce nondimeno un ottimo punto di partenza per la conoscenza di questo filosofo.
Crediamo di fare cosa utile riportando quasi tutta l'Introduzione del Collier, nella quale è sintetizzata la sua dottrina immaterialistica (A. Collier, «Clavis universalis, ossia nuova ricerca intorno alla verità come dimostrazione dell'inesistenza o impossibilità di un mondo esterno», a cura di A. Casiglio, Padova, Cedam, 1953, pp. 3-7):

«[…] la questione di cui mi sono interessato è, in termini generali, questa, se esista un mondo esterno. Ed il titolo basterà ad informare il lettore che la soluzione negativa di questo problema è il punto che mi propongo di dimostrare.
A tale scopo, definiamo innanzi tutto i termini. Per mondo, appunto, intendo tutto ciò che comunemente si indica coi termini CORPO, SOSTANZA ESTESA, SPAZIO, MATERIA, QUANTITÀ, etc., nel caso che ci sia nella nostra lingua qualche altra parola che sia sinonimo di ognuno o di qualcuno di questi termini. Ed ora non resta altro che la spiegazione della parola ESTERNO. Per esterno, in generale, intendo la stessa cosa che comunemente si intende con i termini ASSOLUTO, AUTOESISTENTE, INDIPENDENTE, etc., e questo attributo io nego ad ogni materia, corpo, sostanza estesa, etc.
Se è questo, direte, tutto ciò che intendo con la parola ESTERNO, io non dovrei, a quanto pare, scontrarmi affatto con alcun avversario, giacché chi ha mai sostenuto che la materia è autoesistente, assoluta o indipendente?
A ciò rispondo che non devo cercare qui che opinione gli altri seguono o hanno seguito in passato. Al contrario, dovrei essere felice di constatare che effettivamente tutti gli uomini si son trovati d'accordo su quella che io affermo essere la verità, sul fatto, cioè, che la materia non è e non può essere indipendente, assoluta o autoesistente. Intanto, se sono o no d'accordo si proverà attraverso questo scritto.
In secondo luogo, e più particolarmente, rispondo che, dicendo non indipendente, non esistente assolutamente, non esterno, intendo e sostengo niente meno che questo, che ogni cosa materiale, corpo, sostanza estesa, etc., esiste nella mente, nel pensiero o nella percezione, o in loro dipendenza, e che non è capace di una esistenza che non sia così dipendente.
Questo può forse spingere qualcuno a chiedermi in che modo ciò sia, al che io rispondo prontamente: "Proprio come piace al lettore, comunque ciò sia." Così, per esempio, diciamo comunemente che un accidente  esiste nel suo proprio oggetto o ne dipende; e che così viene a sussistere la sua vera essenza o la realtà della sua esistenza. Sarà considerata questa una spiegazione di ciò che asserisco? Se sì, accetto di sostenerla, in questa accezione dei termini.  Ancora, comunemente diciamo, ed immaginiamo anche di sapere che cosa vogliamo significare dicendolo, che un corpo esiste nel suo proprio luogo, ed anche in dipendenza di esso, così da esistere necessariamente in un posto o in un altro. Piacerà al lettore curioso questa esemplificazione della dipendenza? Se sì, accetto di scendere sul terreno con lui e di affermare che ogni materia esiste nella mente, nel pensiero o nella percezione, o in loro dipendenza, assolutamente, così come ciascun corpo esiste in un luogo. Anzi io ritengo che la formulazione è così giusta e appropriata, come se uno dicesse  che una cosa è uguale a se stessa: poiché penso di poter fare a meno di dire al lettore che, quando affermo che ogni cosa materiale esiste nella mente allo stesso modo in cui un corpo esiste nello spazio, voglio dire proprio la stessa cosa che se avessi detto che la mente stessa è il luogo del corpo, e lo è in modo tale, che esso non può esistere in alcun altro luogo né spazialmente né in alcuna altra maniera. […]
Dichiaro […] innanzitutto che, affermando che non esiste alcun mondo esterno, non solevo dubbio o questione alcuna sull'esistenza de corpi, cioè non dubito se esistono o meno i corpi che si vedono. È presso di me principio fondamentale questo, che qualunque cosa è vista, esiste. Negare ciò o dubitarne è manifesto scetticismo e rivela senz'altro mancanza di ogni requisito per coprire il ruolo del dialettico o del filosofo e per esercitarne le funzioni; sicché sarà bene ricordare sin da ora che la mia indagine non riguarda l'esistenza, bensì interamente l'extra-esistenza di certe cose o oggetti; in altri termini si tenga presente che affermo e sostengo non che i corpi non sussistono o che non sussista il mondo esterno, bensì che i singoli corpi, che si suppone esistano, non esistono esternamente; cioè, in termini generali, che un mondo esterno non esiste.
In secondo luogo sostengo e dichiaro che, nonostante questa mia asserzione, sono persuaso di vedere tutti i corpi proprio come li vedono le altre persone; cioè, il mondo visibile è visto da me, o, il che è lo stesso, sembra a me essere, quanto alla sua esistenza, tanto esterno o indipendente dalla mia mente, personalità o potenza visiva, quanto ogni oggetto sensibile sembra esserlo ad ogni altra persona, o si può ritenere che sembri oppure sia.. Per quel che ne so,, io non ho né un'altra natura né un'abilità diversa da quella degli altri nel vedere gli oggetti, in virtù dell'ipotesi, che qui discuto, intorno all'esistenza di tali oggetti. Tanto che, invece, credo, e ne sono sicurissimo, che questa apparenza o (come mi permetterò di chiamarla) esistenza semi-esterna degli oggetti visibili non è solo l'effetto della volontà di Dio (in quanto è sua volontà che sembri che la luce e i colori siano fuori dell'anima, che il calore sia nel fuoco, il dolore nella mano, etc.), ma anche che si tratta di una condizione naturale e necessaria della loro visibilità; direi che, anche supponendo che Dio crei un mondo o un qualunque oggetto visibile, che si riconosce non essere esterno, tuttavia, per la condizione del suo esser visto, ciò che è creato sarebbe e dovrebbe pur sempre essere QUASI ESTERNO alla facoltà percettiva: proprio come lo è qualunque oggetto materiale comunemente visto in questo mondo visibile.
Inoltre, in terzo luogo, quando affermo che ogni cosa materiale esiste in dipendenza della mente, sono sicuro che il lettore mi permetterà di dire che non voglio con questo intendere che la materia oi corpi esistono nei corpi. Per esempio, quando affermo o dico che il mondo che vedo esiste nella mia mente, non si può supporre che io voglia dire che un corpo esiste in un altro o che tutti i corpi che cedo esistono in quello che l'uso comune mi ha insegnato a chiamare mio corpo. […]
In quarto luogo, quando affermo che questo o quell'oggetto visibile esiste nella mia mente o nella mia facoltà percettiva, o in loro dipendenza, devo desiderare si comprenda  che con i termini mente e facoltà percettiva intendo non più di quello che dico. Similmente vorrei si capisse che, quando affermo in generale che ogni cosa materiale  o corpo esiste nella mente o in dipendenza di essa, dico ciò per scagionarmi dall'accusa di ritenere che la mente  produca da sé le idee o gli oggetti della percezione; o nel timore che alcuno per errore immagini che io affermo dipendere la materia per la sua esistenza dalla volontà dell'uomo o di qualsiasi altra creatura […]
In quinto luogo, quando affermo che ogni oggetto materiale esiste nella mente o che nessuno è esterno, non voglio dire che il mondo o qualunque oggetto visibile  di esso, che, per esempio, io vedo, dipende dalla mente di una qualsiasi altra persona all'infuori di me; o che il mondo o la materia, che chiunque altro vede, dipende dalla mente o dalla facoltà percettiva mia o di una terza persona.  Al contrario, sostengo ed ammetto che il mondo che Giovanni vede è esterno a Pietro e il mondo che vede Pietro è esterno a Giovanni. Cioè ritengo che sia la stessa cosa in questo come in ciascun altro caso di sensazione, in quella del suono, per esempio.  In questo caso, di due o più persone, che sono presenti ad un concerto di musica, si può, per esempio, dire in un certo senso che sentono le stesse note o melodie; ma tuttavia la verità è che il suono che sente uno non è proprio identico a quello che sente un altro, perché le anime o le persone si suppone siano differenti; e perciò il suono che sente Pietro è indipendente dall'anima di Giovanni o ad essa esterno, e quello che sente Giovanni è esterno all'anima o alla persona di Pietro.
Infine, quando affermo che nessun oggetto materiale è interamente esterno, ma esiste necessariamente in questa o in quella mente, esemplificate e distinte coi nomi di Giovanni, Pietro, etc., non intendo sostenere che ogni parte o particola di materia, che esiste o può esistere, deve necessariamente esistere in questa o quella mente creata. Al contrario, io credo che potrebbero esistere infiniti mondi, anche se nessuna singola mente creata (o piuttosto, semplicemente creata) fosse ancora in essere. E come di fatto ce ne sono migliaia e decine di migliaia, io credo e sostengo addirittura che c'è un universo o un mondo materiale in essere, che è almeno numericamente diverso da ogni mondo materiale percepito da pure creature.
Con questo voglio alludere alla grande idea cosmica della materia creata (o meglio, due volte creata), attraverso cui tutte le cose sono prodotte; o piuttosto (come la presente trattazione mi conduce a dire), attraverso cui il grande Iddio dà le sensazioni a tutte le sue creature pensanti, e per mezzo della quale le cose, che non sono, sono conservate ed ordinate nello stesso modo che se esistessero.
Ed ora presumo e spero che si comprenda a sufficienza quello che voglio dire, quando affermo che ogni cosa materiale, che esiste, esiste nella mente o in dipendenza  di essa; oppure  che un mondo esterno non esiste. […].»

Come si sarà visto, le argomentazioni con le quali Collier si propone di pervenire a dimostrare i due punti cardine della sua dottrina: a), che il mondo visibile non è esterno; b), che il mondo esterno è un essere totalmente impossibile, sono decisamente molto simili a quelle addotte dal Berkeley, compresa la accettazione del mondo esterno come oggettivo, ma solo all'interno delle singole menti. Anch'egli, quindi, avrebbe potuto sintetizzare la sua dottrina con il celebre motto: «Esse est percipi», ossia «essere è l'essere percepito».
Ecco qui due filosofi, entrambi inglesi, entrambi ecclesiastici, entrambi vissuti nei decenni a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Entrambi concepiscono, e proprio nel medesimo torno di tempo, una dottrina spiritualistica che, da un lato, porta alle estreme conseguenze il razionalismo cartesiano e l'occasionalismo di Malebranche, dall'altra sembra preludere al criticismo kantiano, specialmente per quel che riguarda la distinzione tra la realtà del fenomeno e quella del noumeno, ovvero tra la cosa come appare alla mente e la cosa in se stessa.
Uno dei due rimane confinato entro il modesto orizzonte della sua parrocchia, nella campagna inglese, e solo pochi specialisti vengono a conoscenza dei suoi libri e delle sue teorie; l'altro, grazie ad amicizie influenti, viaggia per l'Europa, si trasferisce in America, progetta di fondare un collegio alle Bermude, poi ritorna in patria e diventa vescovo.
Il primo non giungerà ad esercitare alcuna influenza sui filosofi delle generazioni successive, rimanendo sostanzialmente un isolato; il secondo, invece, sarà in grado di far sentire il proprio influsso per molto tempo ancora; anzi, si può dire che quasi tutti i filosofi successivi che si sono occupati del rapporto fra il mondo e la mente, hanno dovuto misurarsi, in un modo o nell'altro, con le sue teorie, e sia pure per cercare di confutarle.
Ma questa diversità dei dati biografici dipende dai loro caratteri e dalle circostanze esterne: per quel che riguarda le loro filosofie, le analogie sono impressionanti. L'unico caso analogo che ci viene in mente, è quello della convergenza delle ricerche di Leibniz e di Newton, ma in un ambito di studio completamente diverso dalla filosofia.
A nostro avviso, considerare la convergenza di contenuti e la coincidenza cronologica della dottrina di Arthur Colier e di George Berkeley alla stregua di un fatto curioso, ma puramente accidentale, sarebbe indice di un atteggiamento mentale estremamente pigro e conformista. Anche la mente più torpida e meno avvezza a sbrigliarsi audacemente, non può non sentirsi fortemente interrogata e stimolata da un caso del genere.
La spiegazione che qui tentiamo di avanzare, non ha alcuna pretesa di verificabilità scientifica: ci muoviamo su un terreno di frontiera, sul quale è necessario procedere per congetture, e sia pure con tutte le cautele suggerite dalla prudenza.
In breve, ci sembra che questo caso potrebbe costituire una classica dimostrazione dell'esistenza di una mente non localizzata e non individuale. Noi siamo abituati a pensare che la mente sia localizzata nel cervello, e che ogni mente individuale costituisca un mondo a sé stante, ben distinto da tutte le altre menti. Ma, forse, sia l'una che l'altra convinzione non poggiano altro che sull'abitudine e su una certa pigrizia mentale.
In numerosi precedenti scritti ci siamo sforzati di rivedere o confutare l'idea che la mente umana sia strettamente localizzata nel cervello, avanzando l'ipotesi che il cervello ne sia soltanto il supporto temporaneo; e che essa, a determinate condizioni, possa muoversi liberamente, sia nella dimensione dello spazio, sia in quella del tempo.
Quanto al fatto che ciascuna mente individuale sia una monade ben distinta e separata da tutte le altre, anche questa potrebbe essere nient'altro che una credenza frettolosa e superficiale. Se l'autentica natura della mente è quella di non essere localizzata, ne consegue che le menti si muovono con una certa libertà al di fuori dell'involucro corporeo, fonte delle percezioni sensoriali; e che tale libertà diviene molto più ampia allorché tale involucro cessa di costituire una unità organica e si disgrega, ciò che accade nella crisi della morte.
A quel punto, le menti dovrebbero venire a trovarsi in una condizione molto simile a quella delle acque dei fiumi che finiscono per gettarsi nel mare: vale a dire che perderebbero, presto o tardi, le loro caratteristiche unitarie e specifiche, per divenire parte di un complesso molto più grande e articolato, il mare appunto.
Possiamo pertanto immaginare che le idee, le emozioni, i sentimenti delle menti individuali, si trovino presi in una corrente molto più vasta, formata - forse - dalla confluenza di un grandissimo numero di menti; e che ciascuna di esse si trovi a condividere frammenti o schegge di pensieri, emozioni e sentimenti più grandi, di cui verrebbe ad essere una semplice parte.
Possiamo anche supporre che la mente individuale, allorché lascia - temporaneamente o definitivamente - il proprio supporto corporeo, entri in contatto con una specie di deposito universale di tutto ciò che esiste, è esistito o esisterà, in ogni luogo; di tutto ciò che è accaduto, e perfino di ciò che può accadere: quella sorta di immenso magazzino che, nel linguaggio dell'ermetismo orientale, va sotto il nome di Cronache dell'Akasha. Questo spiegherebbe, fra l'altro, i fenomeni supernormali della chiaroveggenza, della retrocognizione, della precognizione, della telepatia, della psicometria, e molti altri del genere.
Infine, possiamo ipotizzare che due o più menti individuali, una volta lasciato il proprio supporto corporeo - ciò che può avvenire negli stati di meditazione profonda, ma, forse, anche in quelli di intensa concentrazione, ad esempio durante la creazione artistica o l'intuizione di nuove teorie filosofiche o matematiche, specialmente se si tratta di soggetti dotati di facoltà medianiche -   entrino in contato reciproco, magari in maniera accidentale, ma, più probabilmente, perché i loro contenuti esercitano una attrazione reciproca, un po' come accade con il ferro nei confronti della calamita: una sorta di magnetismo psichico.
In tutti questi casi, arriviamo alla conclusione che non sarebbero le singole menti a creare e sviluppare, in maniera assolutamente autonoma, pensieri, emozioni e sentimenti, ma che esse possono divenire un tramite per dare voce ed espressione a qualcosa di più grande di loro, qualcosa che si serve di loro per diffondere nel mondo un determinato contenuto, sia esso intellettivo o emozionale.
Se tutto questo vero, anche solo in parte, ne consegue che dovremmo smetterla di considerarci gli autori delle conquiste dell'arte, del pensiero, della scienza; perché, in effetti, noi non saremmo che i ripetitori e gli amplificatori di una forza cosmica che proviene dalle profondità dello spazio e del tempo, o meglio, al là dello spazio e del tempo.
Così, può accadere che due filosofi arrivino a concepire la stessa dottrina , contemporaneamente e in maniera pressoché identica, vivendo a non grande distanza l'uno dall'altro, ma senza incontrarsi mai e senza influenzarsi a vicenda: perché quella dottrina, in realtà, non è opera originale né dell'uno, né dell'altro, ma di una Mente ad essi superiore, così come a quella di qualunque altro singolo individuo.
Forse, noi dovremmo realmente finirla, una buona volta, di prenderci tutto il merito delle cose importanti che riusciamo a creare: perché il verbo creare non si addice agli esseri umani, ma soltanto a quell'unica Mente che non conosce alcuna barriera dimensionale, mai, perché è essa che crea, pensandoli e amandoli, tutti i singoli enti, e, con essi, i loro pensieri, le loro emozioni ed i loro sentimenti.
E questa è proprio la descrizione di ciò che ci si aspetta debba accadere, in una realtà che non è altro se non la manifestazione dell'Essere, e nella quale ogni singolo ente costituisce un riflesso, una scintilla, o forse una emanazione, di quella Fonte primaria di ogni cosa che esiste, che è esista e che esisterà, e persino di ogni cosa che potrebbe esistere, in qualsiasi luogo, da qui all'eternità.