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La rivincita della Mezzaluna tre secoli dopo l'11 settembre del 1683

di Francesco Lamendola - 11/09/2009


 

L'11 e il 12 settembre, nella battaglia del Kahlenberg, le truppe del re polacco Jan Sobieski, quelle dell'imperatore Leopoldo d'Asburgo e di alcuni altri potentati cristiani, inflissero una decisiva sconfitta allo sterminato esercito ottomano di Kara Mustafa il quale, per ordine del sultano Mehmet IV, aveva marciato dall'Ungheria fin nel cuore dell'Europa e posto orgogliosamente l'assedio a Vienna, minacciando schiavitù e morte a tutti coloro che non si fossero prontamente sottomessi o convertiti all'Islam.
In realtà, il sultano di Costantinopoli non avrebbe mai osato tanto, se non avesse potuto contare sull'incoraggiamento e l'aiuto indiretto del re «cristianissimo» Luigi XIV, il quale, pur di indebolire gli Asburgo di Spagna e d'Austria, si era spinto fino al punto di assicurarlo - tramite il suo ambasciatore - che sarebbe rimasto con le armi al piede, se le armate turche avessero invaso il Sacro Romano Impero, purché non minacciassero il regno di Polonia del suo alleato, Sobieski. Invece fu proprio quest'ultimo che, preso da scrupoli di natura religiosa, finì per mettersi alla testa del suo esercito e per organizzare magistralmente la regia della risolutiva battaglia del Kahlenberg (sotto il comando nominale di Carlo V di Lorena), guidando in prima persona le operazioni che condussero alla liberazione di Vienna e che lo videro, poi, entrare trionfalmente nella capitale austriaca, già disertata dall'irresoluto, se non proprio pavido, imperatore Leopoldo.
L'Europa aveva scongiurato il disastro per un soffio: è quasi certo, infatti, che se Kara Mustafa avesse conquistato Vienna (e gli storici contemporanei hanno riconosciuto la piena legittimità del fare storia proprio con i «se», onde evitare l'hegeliana adorazione dell'esistente), ben difficilmente si sarebbero fermati lì, ma avrebbero fatto irruzione a valanga fin nel cuore del nostro continente. E oggi, forse, non solo a Vienna, ma anche a Praga, Berlino, Francoforte, Colonia, Amsterdam, Zurigo, Venezia, Milano e, forse, nella stessa Parigi e a Roma, cuore pulsante della civiltà cristiana, il richiamo del muezzin alla preghiera dei fedeli risuonerebbe al posto delle campane, e l'Europa sarebbe islamizzata.
Eppure, quel pericolo era stato l'Europa stessa ad evocarlo: con le sue divisioni, con le sue implacabili rivalità, con la sua accidia e con la sua sottovalutazione del pericolo. Non solo Luigi XIV aveva fatto del suo meglio per chiamare i Turchi nel cuore del mondo cristiano (dopo averli stupidamente provocati con l'inutile e sanguinoso bombardamento navale di Algeri), ma gran parte degli altri sovrani erano stati a guardare, pensando che, finché il pericolo toccava a Leopoldo, loro potevano rimanersene tranquilli.
Se il re Sobieski, il meno minacciato di tutti, non avesse avuto un soprassalto di orgoglio guerriero, e se il cappuccino Marco d'Aviano, famoso predicatore friulano in fama di santità, amico personale della corte viennese, non avesse infiammato gli spiriti, comunicando loro la consapevolezza dell'estremo pericolo, è molto probabile che la battaglia del Kahlenberg non vi sarebbe stata e che Vienna sarebbe caduta, con conseguenze incalcolabili non solo per l'Impero, ma per tutto il continente.
Non solo.
Dopo la sconfitta di Kara Mustafa, una rapida e audace controffensiva degli eserciti cristiani aveva ottime probabilità di penetrare nelle linee nemiche in piena disorganizzazione, come una lama nel burro: non solo l'Ungheria, ma anche la Croazia fino al Danubio sarebbero state liberate dal giogo ottomano; cosa che divenne impossibile per le rivalità e le sorde gelosie subito riaccesesi fra i vincitori, un po' come era avvenuto l'indomani di Lepanto.
Così andarono perduti altri sedici anni e bisogna arrivare al 1699, con la pace di Karlowitz, per vedere i Turchi finalmente respinti al di là del Danubio, e Venezia di nuovo saldamente insediata in Grecia e nell'Egeo.
Da quel momento, secondo gli storici, ha inizio il lento, inarrestabile processo di decadenza dell'Impero Ottomano, che diventerà ben presto il grande «malato d'Europa». Ma anche quella decadenza avrebbe potuto essere accelerata, e molte tragedie si sarebbero potute evitare - ad esempio, il genocidio degli Armeni fra il 1895 e il 1923, culminato nel 1915-16 -, se, di nuovo, le rivalità fra le potenze europee, in particolare tra la Francia e la Gran Bretagna da una parte, la Russia e, più tardi, la Germania dall'altra, non avessero mantenuto artificialmente in vita quello che era divenuto ormai, a tutti gli effetti, un cadavere politico, che non si decideva a crollare soltanto per le spinte contrastanti delle potenze cristiane.
Come ha scritto Paolo Mieli (sul «Corriere della Sera» del 6 settembre scorso):

«[…] Questo gelo caduto nei rapporti tra Leopoldo e Sobieski rese impossibile che i due cogliessero l'attimo e si lanciassero immediatamente all'inseguimento dei turchi con ottime probabilità di sbaragliarli in breve tempo. Cosa che fecero dopo qualche mese su sollecitazione del papa, ma a quel punto furono necessari quindi anni prima che la missione venisse compiuta. E il tempo fu così lungo anche perché erano riprese le mene della Francia volte esclusivamente a creare difficoltà all'Austria. Luigi XIV - ha scritto Alberto Leoni nel bel libro "La croce e la mezzaluna", una storia delle guerre tra le nazioni cristiane e l'Islam pubblicata dalle edizioni Ares - che continuava a definirsi "re Cristianissimo" - dimostrava una mancanza di scrupoli tale da porlo in pessima luce anche presso i suoi contemporanei. Al punto che, , in una lettera del 15 settembre 1690 scritta dal conte palatino Filippo Guglielmo a Marco d'Aviano, il Re Sole è definito "un turco cristiano peggior del barbaro".»

Sono passati trecentoventisei anni dalla battaglia che salvò Vienna e, con Vienna, l'Europa, e realmente il muezzin chiama a raccolta i suoi fedeli a Vienna e a Praga, a Colonia e Francoforte, ad Amsterdam e Zurigo, a Venezia e Milano, a Parigi e a Roma.
Anche a non voler considerare la data dell'11 settembre 2001 - quella dell'attacco alle Twin Towers - come casuale (e alcuni storici, come il cattolico Michael Novak, non la credono tale), resta il fatto che, di nuovo, l'egoismo e la miopia delle nazioni cristiane d'Europa ha reso possibile quello che, altrimenti, sarebbe stato addirittura impensabile: la graduale, metodica, inarrestabile islamizzazione del nostro continente.
Il fatto che l'odierna invasione islamica, segnatamente turca e maghrebina, si svolga in maniera assolutamente pacifica e senza che venga sparato un solo colpo di cannone, non dovrebbe però farci perdere di vista il punto essenziale: che, cioè, di una vera e propria invasione si tratta, se il termine «invasione» significa, come è comunemente ammesso, la irruzione di un esercito o di un popolo entro l'area geografica e culturale di un altro popolo, in maniera tale che quest'ultimo non è in grado in alcun modo, anche volendolo, di porvi un argine.
L'egoismo dei capitalisti europei, desiderosi soltanto di manodopera a basso costo; la miopia dei nostri politici e amministratori, che sanno immaginare, al massimo, come «governare» il flusso migratorio, ma non già decidere se esso sia accettabile e inevitabile, e, soprattutto, se sia un bene per l'Europa; l'ingenuità  e la demagogia di partiti, intellettuali e settori della stessa Chiesa cattolica, convinti di poter assimilare e, magari, convertire, chi viene da noi allo scopo ben preciso di assimilarci e convertirci; l'errata convinzione che, dopo alcune generazioni, i nuovi arrivati nutriranno un senso di rispetto, gratitudine e persino amore verso le loro patrie d'adozione; infine, gli oscuri maneggi tra gli sceicchi del petrolio, finanziatori dell'aspetto religiose dell'immigrazione, e il governo statunitense, che per pura perfidia preme in ogni modo affinché la Turchia entri nell'Unione Europea: tutto questo sta consentendo alla Mezzaluna di portarsi ad un passo dalla clamorosa rivincita sugli eventi dell'11 settembre 1683.
I nostri bravi intellettuali, rigorosamente laici e politicamente corretti, alzano le spalle con insofferenza di fronte a simili riflessioni, assicurando che i tempi dei conflitti religiosi sono finiti per sempre, e che il timore per l'ingresso della Turchia in Europa è irrazionale e frutto di ancestrali ricordi di quattro secoli fa, quando si temeva, da un giorno all'altro, l'arrivo della flotta del sultano o l'irruzione dei suoi eserciti, terrore delle pacifiche e quasi inermi popolazioni friulane, ungheresi, tedesche.
C'è solo una cosa che questi ineffabili signori tendono a dimenticare, e che rimane fuori dal loro idillico quadretto di pace e prosperità, nel quadro di una società multietnica e multiculturale: che i popoli di religione islamica non hanno avuto né il pensiero laico, né le rivoluzioni democratiche, né la conquista dei diritti dell'uomo e del cittadino, e meno che meno l'idea della tolleranza: in breve, non hanno vissuto nessun evento della modernità, se non in maniera importata e superficiale; e che la loro fede, tendenzialmente integralista perché ignora la distinzione di sacro e profano (come la ignorava la nostra di alcuni secoli fa) si basa sul messaggio di un profeta armato, mentre la nostra si basa su quello di un profeta disarmato: il che, se lo si vuol vedere, implica pure una qualche differenza.
In altre parole, noi per loro siamo terra di conquista, terra di infedeli da convertire e da assimilare: ed è quello che stanno facendo, con sistematica tenacia e con l'ausilio dei petrodollari e della cinica Amministrazione americana.
Dicevamo che l'Europa, a differenza dell'Islam, ha avuto la modernità.
Non che le cosiddette conquiste della modernità siano quelle meraviglie che il Pensiero Unico vorrebbe farci credere; tutt'altro: lo abbiamo sempre detto, e lo ripetiamo.
Tuttavia, la modernità è la figlia della nostra civiltà: e noi vorremmo che fosse la nostra civiltà, sia pure in uno scambio reciproco con le altre, ad elaborare le strategie per uscire dal vicolo cieco nel quale essa ci ha condotti; non che un'altra civiltà ci venga calata dall'alto e sostituisca i suoi valori ai nostri, «sic et simpiciter», cancellando il lungo cammino fatto dai nostri padri e che, pur fra errori e cadute, ha prodotto tante cose stupende, da Dante a Giotto, dalle cattedrali gotiche a Leonardo da Vinci, da  Bach a Dostojevskij.
Ma è proprio quello che potrebbe accadere, se lasceremo che le cose continuino ad andare in questo modo.
La Turchia, oggi, ha oltre 72 milioni di abitanti; entro pochissimi anni, saranno 80 milioni e continueranno a crescere ad un tasso che supera di molto quello europeo. Quando quel paese sarà entrato in Europa a tutti gli effetti, milioni di immigrarti si rovesceranno in Italia, Germania, Francia e Gran Bretagna, senza alcun filtro, senza bisogno di alcuna autorizzazione.
Quanto alle idee del governo turco sulla democrazia e sulla laicità, basta andare a Cipro, invasa e tagliata in due dal 1974, per vedere di che natura esse siano: chiese distrutte, pulizia etnica, immigrazione strategica di immigrarti anatolici. Oppure basta parlare del genocidio degli Armeni, perpetrato a freddo quasi un secolo fa: ci si ritrova automaticamente in prigione, condannati per vilipendio dello Stato. Oppure, ancora, basta vedere cosa è accaduto quando la piccola Danimarca si è rifiutata di prendere provvedimenti contro un giornale, reo di aver pubblicato materiale ritenuto poco rispettoso verso il Corano: la reazione scomposta e arrogante di Ankara, che avrebbe preteso chissà quali misure punitive, è stata più eloquente di qualsiasi discorso.
La vicenda delle «banlieue» francesi, sempre pronte ad esplodere dopo l'incendio del 2005, o del progettato attacco terroristico all'aeroporto di Londra, ad opera di immigrati islamici della terza generazione, dovrebbe far riflettere, finché siamo in tempo. Non si tratta di alimentare sentimenti razzisti nella popolazione: si tratta di valutare responsabilmente se la società europea possa permettersi di accogliere ancora milioni di immigrati nordafricani, del Vicino Oriente e del Bangladesh, senza che ciò ponga una gravissima ipoteca sulla futura identità culturale, sociale e religiosa del nostro continente. 
E questo non in una prospettiva di ampio respiro, ma nel giro di pochi anni o, al massimo, di pochissimi decenni: con tutti i contraccolpi materiali e spirituali che ciò comporterà inevitabilmente, per i nostri figli e i nostri nipoti, a tutti i livelli.
I nostri uomini politici, i nostri economisti e i nostri intellettuali blasonati, vivono in un mondo a parte, fatto di ville al mare o immerse nel verde, con piscina e ogni genere di comfort: non sanno minimamente che cosa voglia dire vivere in certi quartieri delle nostre città, grandi e meno grandi, dove la presenza degli immigrati, specialmente musulmani, è ormai fortissima. Non s'immaginano fin dove possa arrivare il degrado di quei quartieri e fin dove possa spingersi la prepotenza di taluni immigrati, incoraggiati dalla fiacchezza e dalla incosciente arrendevolezza dei pubblici amministratori, dei magistrati e, talvolta, delle stesse forze dell'ordine.
Lo ripetiamo: qui il razzismo non c'entra affatto; agitare questa parola come uno spauracchio, è un ricatto che non dovrebbe intimidire chi ha a cuore il nostro futuro.
Non abbiamo nulla contro la religione islamica e contro la cultura che essa veicola: semplicemente, crediamo che l'Europa sia un'altra cosa. E che, come quei popoli hanno il sacrosanto diritto di preservare le loro credenze e i loro modi di vita, pure noi abbiamo lo stesso diritto.
I nostri intellettuali superlaici ed anticlericali, sempre pronti a stracciarsi le vesti ogni volta che il Papa apre bocca su qualche argomento di rilevanza sociale, si rendono conto che, favorendo l'immigrazione indiscriminata degli islamici, introducono in Europa un elemento di fondamentalismo che farà loro rimpiangere le sortite della Chiesa cattolica, perché metterà un bavaglio non metaforico a qualunque voce di dissenso?
Essi dicono che si tratta di paure anacronistiche, di una incapacità di accogliere lo spirito della globalizzazione e le «magnifiche sorti e progressive» che esso, immancabilmente, porterebbe con sé.
Forse.
Eppure, è mai possibile che la vicenda di Salman Rushdie o quella del regista Theo Van Gogh, assassinato per aver girato un film sgradito ai fondamentalisti islamici, non abbia insegnato proprio niente ai nostri signori intellettuali: così aggressivi e veementi quando si tratta di criticare la cultura cristiana, e così inspiegabilmente timidi quando si tratta dell'Islam?.
Ma, per quanto ci riguarda, pensiamo che pericolo esista: perché un'invasione, per quanto pacifica, è pur sempre una invasione: che si conclude con la perdita dell'autonomia e, sovente, della stessa identità culturale di coloro i quali l'hanno subita.
Ne riparleremo fra venti o trent'anni; e allora si vedrà chi aveva ragione.