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Il pugilato, sport "antimoderno"

di Fabio Mazza - 19/09/2009

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È di alcune settimane fa la morte di Arturo “thunder” Gatti, pugile italo-canadese, ex iridato dei superleggeri, e uno dei pugili più interessanti degli ultimi 20 anni. Le circostanze della morte non sono state del tutto chiarite, ma sembra che la responsabile sia la moglie, che, da quanto riportato dai tabloid avrebbe colpito l’ex campione alla testa e l’avrebbe strangolato. Non è chiaro il movente. All’origine sembra questioni passionali.
Immediatamente si è scatenato sui blog e sui giornali anche nostrani (repubblica come al solito) la stigmatizzazione del mondo della boxe, mondo brutale, sordido, popolato da picchiatori di periferia, che smessi i guantoni, non riescono comunque a reinserirsi in “società”. Subito dopo, seguono i commenti allarmati di medici dello sport che sentenziano che il pugilato è uno sport pericoloso, i colpi fanno male (la scoperta dell’acqua calda), è diseducativo e violento, gli fa eco l’associazione dei genitori, preoccupati di vedere i loro figli darsi alla bruta pratica.
Tutto questo coro di critiche che piovono da questa congrega di “moralizzatori”, di salutisti, di pedagoghi ecc. , è un ulteriore espressione del tentativo di cancellare ogni istinto vitale dell’maschio, seppur ritualizzato; di cancellare la sua parte più istintuale, più cruda, meno politically correct. Oltre ad essere espressione di profonda ignoranza, dimostrando, questi “esperti” di non aver non solo mai calcato il quadrato, ma di non conoscere nemmeno lontanamente l’ambiente del pugilato.
La mia esperienza con la boxe cominciò quando avevo diciassette anni. Fisicamente ero un tantino sovrappeso, antisportivo, senza un grande autocontrollo su me stesso e sulla mia vita di adolescente. Fin da piccolo sono stato sempre attratto dalle figure dei pugili, dal coraggio di figure leggendarie come La motta, Marciano, Cerdan, Ali.
La mia curiosità mi spinse a varcare un giorno le porte della palestra locale, dove insegnano due grandi pugili che sono stati campioni mondiali, e altri ex professionisti meno blasonati, perché la mia città ha una forte tradizione pugilistica. Ricorderò sempre quello che mi colpì di quel luogo: l’odore di sudore, della pelle usata dei guanti, dei sacchi, le foto di match alle pareti, il sentore di fatica e sacrificio era quasi percepibile nell’aria.
Era, come tante palestre di pugilato nel mondo, un luogo, “per soli uomini”. Uno dei pochi posti che avevo fino a quel momento incontrato, dove, come nei “gymnasium” greco-romani, si incontravano e scontravano uomini, alla ricerca di una sfida con se stessi e di un miglioramento personale, al di la della dimensione meramente fisica. 

Quello che mi insegnò la boxe nei tre anni di pratica semi agonistica che mi impegnarono sono valori veri. Valori desueti nel mondo attuale, cosi attento alla salute, al non sporcarsi, al non compromettersi, al politicamente corretto, alla pusillanimità. Un mondo dove le scorciatoie sono ben viste e vengono proposti come idoli ai giovani, personaggi che hanno fatto la loro “fortuna” con l’inganno e il raggiro, o prostituendosi (fisicamente o moralmente non importa).
Un mondo che vede ogni forma di confronto, anche il meno serrato, come evitabile, che è disposto a farsi calpestare piuttosto che difendere la propria dignità e le proprie ragioni, anche, se occorre, con la forza.
Quando sali sul ring, sei da solo contro l’avversario, ma più sottilmente, sei da solo contro te stesso. Quello che la boxe insegna è che i problemi nella vita non possono essere evitati, nè aggirati con facili scorciatoie, perché il ring (come la vita) è un universo finito, un palcoscenico, dove si alternano una vasta gamma di sentimenti umani, dal coraggio alla vigliaccheria, dal senso di sacrificio alla generosità.
Il rapporto che si crea con chi ti cresce, ti segue, ti dedica il suo tempo e le sue energie, con l’allenatore o maestro che dir si voglia, ha qualcosa dell’antico legame maestro-discepolo. Nulla a che vedere con lo squallido allenatore di quelli che ormai si chiamano “centri fitness” con insipido e anglofono termine. Quando il maestro insegna, trasmette qualcosa di sé: la sua tecnica, la sua esperienza, il suo personale stile, e anche qualche trucco del mestiere, che solo lui conosce.
Ho avuto la fortuna di essere “cresciuto” da un grande uomo, una persona che anni fa lasciò la natia Argentina, per cercare fortuna da queste parti; un uomo che mi ha aiutato a superare i miei limiti, e mi ha insegnato valori forti: non arrendermi, credere in me stesso, non mollare fino alla fine, la dedizione per l’obbiettivo, il sacrificio, la devozione, il valore anche pedagogico del dolore.
Posso dire, francamente, che quest’uomo è stato come un padre per me, e so che in tanti altri casi è stato cosi, per tanti ragazzi che senza questo sport, sarebbero davvero rimasti nella strada da dove venivano, paria di una società del benessere e politicamente corretta, che non trova però nulla di male a rincoglionirli di televisione e del mito del successo facile.
Si parla di sport violento. Ma nella mia esperienza agonistica e da spettatore, non ho mai visto “tifoserie” arrivare alle mani, o insultarsi, nonostante i palazzetti dello sport si infiammino per una combinazione ben assestata, o per un verdetto ingiusto. Ho visto al contrario un grande rispetto per il proprio avversario, in cui anche il pugile meno colto e più bruto, vede riflesso se stesso. Mai ho sentito dire da un allenatore "ammazzalo! È un nemico! Distruggilo!" Sempre ho visto i pugili abbracciarsi dopo minuti in cui se le erano date di santa ragione. Spesso ho visto ragazzi non risparmiarsi sul quadrato, ma a fine incontro andare a bere insieme agli avversari e complimentarsi.
Nel molto più civile calcio, quello dei calciatori fighettini, degli sponsor, delle veline e delle ragazze che si accalcano per questi “idoli” che sono capaci solo di lamentarsi e di vendersi per qualche soldo in più, che non conosco più l’attaccamento ad una maglia o ad una bandiera, quali sono i valori orientativi?
Ho visto, e tutti lo sappiamo, tifoserie, grandi e piccole, di grosse squadre come di squadrette di provincia, arrivare alle mani, insultarsi, con un odio bieco che non trova spiegazione. Addirittura nel calcio ci sono spesso morti tra i tifosi.
Ma l’aggressività, e la brutalità, morale prima che fisica, oltre l’assenza di valori che facciano crescere chi lo pratica, che si vede nel calcio, non si è mai vista in nessun altro sport: è questo è quello che incarna i sogni dei ragazzi, quello che vorrebbero diventare, le loro aspirazioni. Questi sono i modelli da seguire.
Non vedono questi “esperti” la violenza sottile
, che ogni giorno dal tubo catodico investe i nostri giovani e i nostri bambini: dalla pubblicità, dagli squallidi reality show e dalla televisione spazzatura voluta dal papi nazionale e dai suoi epigoni.
Non capiscono che è molto più pericoloso e violento il nulla valoriale ed esistenziale trasmesso da quella che Karl Popper chiamava “cattiva maestra”, che non il confrontarsi con se stessi e gli altri, infilando due guantoni. Non vedono questi genitori preoccupati, che i veri danni per la società non vengono da due ragazzi che ritualizzano, in un confronto secolare, il più naturale e gioioso antagonismo, ma dai disvalori a cui abituano i propri figli, alla mancanza di rispetto per certe figure sociali, al non assumersi mai responsabilità, al non schierarsi mai in difesa delle proprie idee e del proprio Io più vero, ma di accettare spesso il compromesso come squallido modus vivendi.